Incolore
Alla fine non è poi così azzurro. Lo sarebbe al di là del tempo trascorso e di quello che resta, delle quantità di vita e di morte contenute dallo sguardo in cui il paesaggio circostante reagisce. La saturazione dei colori intorno, il cinguettio dei passerotti sul davanzale, i volti dei passanti: tutto dipende dal ticchettio che portiamo dentro.
Oggi vedo solo grigio.
Stanotte ha anche piovuto; per strada si avverte l’odore della pioggia che ristagna. Accanto a me, Leonardo persevera in una smorfia che mi viene voglia di sfregiare, di distruggere come se fosse un brutto quadro. Di tanto in tanto, mentre guardo il suolo umido sotto i nostri passi disuguali – lui divora gli stessi metri su cui i miei piedi indugiano per la fatica, così in certi momenti è costretto ad aspettarmi – , gli rivolgo un’occhiata che implora pietà e che mi ritorna indietro come tutte le altre: un pallone contro il muro.
«Avrò bisogno di una mano» gli dico.
Sfila il cellulare dalla tasca, sblocca lo schermo e scrive qualcosa in una chat. Di sfuggita mi sembra di scorgere l’icona della fotografia di una donna. Non riesco a leggere il nome, forse è meglio far finta di nulla. Prima o poi vorrà consolarsi comunque: adesso o tra un paio di mesi, non cambia granché. Immagino per qualche istante il suo corpo nudo contro quello di un’altra, i ricci tra dita non mie, la scritta giapponese tatuata sulla schiena sotto la lingua di una sconosciuta senza alcun merito al di fuori della salute, del sangue che le scorre ancora nelle vene. Rabbrividisco. Se esiste un aldilà, spero di non poter vedere niente.
«Dovrai aiutarmi per il testamento, per tutto».
Ha messo il cellulare a posto, ma continua a non rivolgermi la parola. Sono stata una stupida a pensare che mi avrebbe chiesto di sposarlo prima della fine. A quanto pare sta soltanto aspettando di liberarsi di me.
«Comunque ho deciso che voglio essere cremata. E no, non mi dovete conservare in un’urna. Non sono mica un soprammobile! Preferisco che mi porti a mare o in un prato: un posto lontano, sperduto. Mi spargi lì, dici una preghiera o qualche parola tua, poi…» mi ignora, mi ignora ancora e sempre. Ha ripreso il cellulare, ha controllato una notifica e l’ha rimesso in tasca. «No, sai che c’è? Buttami dove ti pare. Sì, gettami come immondizia. Non me ne frega più niente»
«Diana, per favore…»
Finalmente apre bocca, ma il tono della sua voce ha un che di sprezzante.
Ieri sera si è comportato allo stesso modo. Eravamo a letto, e piangevo perché il mio organo guasto era ridotto a un pezzo di carta in un pugno. Sentivo in fondo alla lingua il sapore dei succhi gastrici. Lui mi sogguardava senza fare nulla, senza provare a capire.
A un certo punto è andato alla finestra e ha cominciato a fumare. Mi dava la schiena, i capelli scuri, il retro dei pantaloni del pigiama.
“Perché non mangi qualcosa?” mi ha detto.
Tra le lacrime ho voluto ridere, per farlo sentire un idiota.
“Se digiuni è peggio.” Fumava tranquillo, come se la sua fidanzata soffrisse di un leggero raffreddore. “Prova con dei cracker.”
Il dolore si era acuito a causa del suo farneticare. Ero tentata di raggiungerlo, afferrarlo per i capelli e sbattergli la testa contro lo stipite.
“Sei in grado di rispettare il mio dolore?” gli ho domandato per l’ennesima volta.
Le risposte sono state quelle inutili di sempre: parole da buttare nello stomaco che brucia, legna nel camino acceso.
«Come puoi essere così insensibile?» gli domando adesso.
Leonardo mi prende per mano, ma il gesto è brusco e senza tenerezza; vuole solo trascinarmi più in fretta a mo’ di valigia lungo la strada fino al centro ospedaliero.
«Non mi devi toccare. A te non importa…»
«Diana, sono stanco»
«Non vedi l’ora che muoia, così potrai divertirti»
«Cazzo, basta! Ti rendi conto delle stronzate che dici?»
Qualcuno per strada ci guarda male. Leonardo mi fissa e per qualche istante lo trovo brutto, con quella enorme testa cespugliosa e il naso informe che sembra un sasso. Quando mi venne a prendere in auto per il nostro secondo appuntamento, lo ammirai per tutto il tragitto: scorgevo, dietro i suoi tratti di bambino selvaggio, la stessa sensibilità che oggi pretendo invano dal suo nuovo ruolo. Prima che iniziasse la nostra relazione, manifestava davvero una particolare capacità di sentire, una grande profondità d’animo. Sapeva delle mie sofferenze, ma allora non aveva troppa importanza perché lo riguardavano fino a un certo punto. Poi però la scena della mia inappetenza ha invaso il suo pranzo, i miei lamenti gli hanno disturbato il sonno, le mie lacrime gli hanno sporcato di trucco tutte le camicie. Quando il mio male è entrato nelle sue abitudini, le cose sono cambiate.
«Non parlarmi in questo modo. Mi uccidi prima del tempo»
«Siamo quasi arrivati» dice a voce più bassa. «Ti porto io la borsa?»
Fa di tutto per non incrociare il mio sguardo. Vuole fingere di essere calmo, comprensivo. Questa relazione è uno scontro eterno tra la mia verità e la sua finzione.
«No, lascia stare».
Ho lo stomaco gonfio, gigantesco, sta per esplodere. La nausea mi sale al cervello e prende il comando di ogni pensiero, di ogni ricordo. Potrei vomitare su tutti i dodici mesi appena trascorsi, sulle incomprensioni, sulle nostre facce scolorite dai dialoghi mutilati. Ma a quel punto non smetterei più di dare di stomaco, sommergerei anche la parentesi idillica della vacanza al mare, i rari momenti di concordia dovuti alla sporadica assenza del mio dolore, persino i radiosi primissimi tempi, quando erano i miei genitori a interpretare il ruolo che ha lui adesso.
«Hai sentito mia madre, stamattina?»
«No. Perché me lo chiedi?»
Sta di nuovo digitando qualcosa sullo schermo del cellulare.
«A colazione ho avuto l’impressione di sentire la sua voce al telefono»
Sospira, sembra sconfortato. «Era mia madre» dice.
Non appena arriviamo nei pressi dell’ospedale, mi fa una carezza gelida sulla guancia, senza guardarmi.
«Entriamo» gli dico. «Ma tanto anche questa dottoressa è una cretina».
Camminiamo sulla ghiaia, sotto il cielo dei morti. La mia fine peggiore non riguarda il mio corpo.
«Dove vai?» gli domando. «Lì non è gastroenterologia».
Mi fermo sul posto, cerco invano i suoi occhi inchiodati al suolo. Lui continua a camminare.
«Stiamo andando dalla parte sbagliata, ti ho detto».
Vedo una figura in lontananza. Mi saluta. Leonardo mi prende per mano, ma stavolta non mi permette di divincolarmi.
«Per favore, no. Per favore…» dico mentre il cervello e lo stomaco si scambiano di posto dentro di me, il primo inizia a fare un male lancinante e il secondo a rimettere parole come cibo mal digerito.
«Tu sei completamente pazzo. Voi siete tutti pazzi. No, io non vado da nessuna parte, smettila di tirarmi. Ti ho detto di lasciarmi stare! L’hai chiamata tu…»
«Diana, tranquilla. Stiamo andando insieme dalla dottoressa…»
La figura lontana assume sembianze note, per poi disfarsi nelle lacrime. Si avvicina sempre di più.
«No, ti ho detto… Non mi devi tirare, Leonardo. Perché non mi credi? Il corpo è mio! Nessuno può sapere meglio di me, nessuno può capire il mio dolore…».
La figura ha l’odore di mia madre, mi afferra per il braccio libero. Mi metto a gridare, provo a gettarmi a terra, ho lo stomaco che vuole saltarmi fuori dalla gola, ho il cibo ingurgitato in tutta la vita che mi marcisce dentro, le fitte come scariche elettriche, vorrei calarmi la mano nell’esofago come in un pozzo, mettermi alla rovescia, magari il mio problema è questo, sono stata fatta nel verso sbagliato…
«Vedrai che starai meglio, amore» dice la voce di mia madre, in uno spiraglio tra le mie grida. «Sappiamo quanto tu soffra. Lo sappiamo tutti».
Dalla porta dell’edificio delle incomprensioni compare una nuova figura.
La guardo incamminarsi verso di me, incolore come il cielo.
Ha ragione il vecchio, l’estate non dà tregua, la luce è invadente e non basta costringerla dietro finestre e finestrini. Avrebbe dovuto portare gli occhiali da sole.
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Un uomo senza maglia con un tatuaggio sulla schiena e i capelli ricci fuma una sigaretta alla finestra di notte. Dipinto ad olio desaturato”