Acufene
Non c’è stato un singolo giorno. Non uno. Per un anno intero. Ogni mattina mi svegliavo, anche se non è esattamente corretto: per svegliarsi bisogna addormentarsi, e io al massimo mi abbandonavo a un torpore semi-cosciente, dal quale mi svegliavo più stanco di prima.
Aprivo gli occhi, e guardavo quel corpo estraneo alla mia destra, che invece dormiva tranquillo. Ogni giorno, mi sforzavo di riconoscere nella donna accanto a me la persona con cui avevo convissuto per venticinque anni. La madre dei miei figli, non più mia moglie.
Certo, quest’anno abbiamo avuto modo di fingere. La mascherata era più evidente nei suoni. Ogni passo sulle scale, ogni pentola sbattuta, ogni porta aperta di scatto e poi chiusa lentamente, prima era coerente, naturale, vivo. Poi ognuno di questi si è arrugginito fino a diventare irriconoscibile, distante, una nota stonata. La cacofonia di queste note mi entrava dentro, la sentivo anche quando ero immerso nel silenzio. Per questo che non dormivo, forse.
Per un anno intero ho pensato che l’apparenza fosse la cosa più importante. Ma basta cambiare prospettiva e ogni cosa rivela il vero aspetto, sempre. Per questo motivo, penso al nostro matrimonio in Santa Croce a Firenze come un presagio. La faccia, di marmo limpido e perfetto, è in netto contrasto con le fiancate, di mattoni nudi, spigolosi, grezzi. Come quella facciata, la finta perfezione da me ostentata era qualcosa di posticcio, di inautentico.
Per tutte le mattine, il borbottio della moka mi ricordava i singhiozzi colpevoli di quella donna che aveva smesso di essere mia moglie.
Era una mattina di lunedì, i ragazzi erano a scuola, e il mio e suo negozio di scarpe (che prima era nostro) era chiuso. Prima che uscissi mi disse che aveva una cosa importante da dirmi, con quell’aria lugubre che aveva tenuto per tutto il fine settimana. Mi portò in cucina, mi fece sedere e poi dopo qualche istante di indecisione si sedette anche lei. Aveva i gomiti appoggiati sul tavolo di legno scuro, le mani intrecciate in un pugno su cui appoggiava la bocca. Guardava il nulla. Non capivo, ma c’era qualcosa nella sua espressione che mi costringeva ad attendere. Sembrava una frattura sul muro di una diga, che lentamente si allargava, ma poi la breccia si aprì e venni travolto:
«Amore, ho fatto una cazzata».
Per tutto quell’anno, ci riferimmo al suo tradimento con quel termine: “cazzata”. Come per renderlo meno pesante, quasi una cosa da ragazzi (“sapete, è successa quella cazzata”, “ma sì, è una cazzata”, “te la prendi ancora per quella cazzata”). Non era una cazzata. Per me non lo era, e neanche per lei. Lo sapevamo bene, eppure c’era una parte di noi che la minimizzava, come se fosse un peccatuccio perdonabile, quasi simpatico, come quella volta che avevo venduto una scatola di due scarpe sinistre. Ma erano quei suoni a rivelare tutto. I piccoli gesti della quotidianità ormai erano nervosi, affettati. Rivelavano una finzione, mi guardavo allo specchio e non mi riconoscevo nel volto scavato dell’uomo riflesso.
«Per l’amor di Dio, i bambini non devono saperne niente!»
Ci ho provato, lo giuro, a far finta che il nostro matrimonio fosse quello che i nostri figli volessero come modello, da adulti. Che pensassero di desiderare una famiglia come quella in cui erano cresciuti, da piccoli, perché erano cresciuti con i buoni valori. Mi accorgo ora che la “cazzata” non era solo un atto di infedeltà nei miei confronti, no, era tradimento anche verso i loro. E in questo gioco anche io sono stato complice, colpevole tanto quanto lei. Mi vengono spesso in mente quei litigi sussurrati, mentre sparecchiavamo la tavola a cena. I bambini andavano a guardare la tv, a giocare prima di andare a dormire. In cucina le chiedevo se non mi avesse mentito di nuovo, se veramente questo tizio fosse entrato in casa mia una sola volta. Lei arrabbiata mi rispondeva che era stata onesta, che non mi aveva più mentito. “Onestissima”, dicevo, “se ti guardo vedo il volto della sincerità!”. Lei allora mi zittiva e mi indicava uno dei bambini che era lì sulla porta e chiedeva cosa fosse successo, perché queste urla, perché la mamma non era onesta. Io allora mentivo e dicevo che “Non è niente, tesoro. Cose da grandi. Va tutto bene”. Lui se ne andava.
Ogni volta che mio figlio piangeva, andava correndo dalla sua mamma, che lo accarezzava e lo baciava sulla bua. E io non potevo fare a meno di pensare che quelle mani, quella bocca… Dovevo alzarmi e andarmene. Ogni volta ero sempre più vicino a urlare, a spaccare piatti e bicchieri, e ogni volta mi mordevo le guance fino a farle sanguinare. Mi ripetevo che a ognuno capita la propria croce e deve soffrire in silenzio per il bene dei propri figli. Lo facevo per loro. Pensavo che in questo modo avrei potuto salvarli dallo stesso destino, che se non avessero conosciuto questa ferita non sarebbero riusciti neanche a immaginarla.
Questo deve fare un padre, fare in modo che i suoi figli abbiano una vita migliore della propria.
Ma quei suoni erano sempre lì, per quanto mi sforzassi di soffocarli.
E un giorno la roccia si è spezzata per l’inesauribile stillicidio.
Avevo capito che dovevo fare qualcosa, che se non mi fossi trasformato in parte attiva e avessi soltanto subito, sarei impazzito. La mia mente si riempiva di pensieri scuri, pensieri in cui cercavo di fargliela pagare. Ma anche se avessi trovato una donna per vendicarmi, anche se l’avessi umiliata davanti ai bambini, anche se le avessi reso la vita impossibile, ciò non sarebbe riuscito a restituirmi la pace di prima. Quella casa era piena di suoni stridenti.
Alla fine successe. Era un lunedì mattina, i ragazzi erano a scuola, e il negozio era chiuso. Questa volta non ci sedemmo al tavolo, non ne parlammo. Semplicemente ti misi a conoscenza di un fatto e di una mia decisione:
«Non ti ho mai perdonato. Me ne vado».
Immagine generata con AI generativa di Adobe Photoshop
“Dipinto ad olio drammatico di un negozio di scarpe chiuso”