Veneto mona mour

Il comitato di accoglienza della zona industriale è composto da una distesa di cemento, che potrebbe sembrare senza fine, tanto a uno sguardo acerbo quanto a uno più anziano; ma è solo il secondo che potrebbe dire all’altro, con esattezza, che quel territorio grigio, piatto e nebbioso, si propaga ben oltre i confini visibili, espandendosi per una regione intera: il Veneto.

Se il proprietario dello sguardo anziano si sedesse ai tavolini di uno dei bar nei paraggi, indicherebbe, a quello dallo sguardo acerbo, la gente che vi passa davanti, sventolando il dito ossuto senza pudore, come fanno tutti i paesani a queste latitudini, dopo una certa età. Accompagnerebbe quel movimento con osservazioni un po’ spavalde, e giudizi un po’ arroganti, sui passanti all’uscita dalle tante industrie del circondario. Direbbe, ad esempio, che quel negro là, con le occhiaie fino a terra e la casacca unta di olio, non ha mica voglia di lavorare, e si vede da come trascina le scarpe antinfortunistiche lungo il marciapiede. Una volta posata la sua sentenza sul negro, passerebbe alla giovane rappresentante in tailleur gessato, al telefono sul cortile dell’azienda metalmeccanica, e la commenterebbe con parole sconce, sussurrate all’orecchio, in confidenza tra omani. Le sganasciate si mischierebbero ai grugniti, e i grugniti tornerebbero a farsi verbo in un chiacchiericcio ignorante che si perderebbe nell’aria, assieme all’eco del clacson di un camion. A quel punto il vecchio maledirebbe sia il camion sia chi l’ha messo al mondo, ma non per il disturbo arrecato, bensì per la sicura provenienza extra-comunitaria del conducente; si girerebbe dunque a guardare in faccia il ragazzo e, alzando di due decibel la voce, lamenterebbe che quelli come lui sono venuti a rubare il lavoro ai veneti, mandando in mona l’economia. Qualcuno, dall’interno del bar, gli risponderebbe con una battuta in un dialetto sporcato da un forte accento moldavo, e il vecchio riderebbe con una risata da motore a scoppio, compromessa da anni di tabagismo e di fumi mortiferi del petrolchimico, in cui è stato prima operaio e poi caporeparto. Tirerebbe una sgomitata al ragazzo, osservando come, dopotutto, gli immigrati non sono tutti uguali ma ce ne sono anche di buoni, come quello lì che sta dietro il bancone e che gli sta preparando un bianchetto corretto Cinar.

Il vecchio berrebbe il bicchiere d’un fiato, lo lascerebbe cadere sul tavolino producendo un voluto fracasso; si alzerebbe, salirebbe sulla sua Graziella e girerebbe l’angolo, procedendo in mezzo alla polvere e ai gas di scarico, masticando bestemmie.

Una volta a casa mi sorprenderebbe in salotto, proprio io, la cara nipote che è andata allestero a fare fortuna, e che ogni tanto torna giù a salutare i rimasti.

Riesco a prevederne le mosse ancora prima che i pensieri gli si affaccino alla mente: so che aprirebbe la bottiglia del vino da festa, il Reciotto col tappo dorato; ne verserebbe una goccia a me e cinque dita a lui, e tra un sorso e l’altro mi chiederebbe come va in Inghilterra.

«Bene, si lavora e si studia» risponderei io, vaga.

«Che lavoro è che te m’è ditto che fai?» chiederebbe lui, in un italiano reso posticcio dalla scarsa pratica, offerto come omaggio al mio status acquisito di bilingue. Dal canto mio, sarei quasi tentata di dire il nome per esteso, lento e comprensibile (Digital Media Specialist) ma finirei col limitarmi a un più generico: Informatica.

«Ah, sì, te lavori col computer!» concluderebbe, soddisfatto.

E si parlerebbe del più e del meno, e il vino sulla bottiglia andrebbe diminuendo, mentre l’alcool già in circolo andrebbe a temperare le punte dei nostri caratteri. Allora il nonno giocherebbe l’asso nella manica con la domanda che riserva ai momenti solenni, quelli in cui vorrebbe metterla in politica ma che invece si va a perdere nell’opinionismo da balera:

«Ci sono gli immigrati anche là, su da te?» mi scruterebbe, tronfio.

«Gli immigrati come me?» Suggerirei, sfidandolo.

«No no, come i negri e i moldavi!» si affretterebbe a precisare.

In quel momento mi passerebbe davanti la vita intera, e il calendario si riavvolgerebbe lungo la linea del tempo, dalla mia formazione universitaria fino a quella della scuola elementare, dove Suor Ancilla, guardando i miei compiti di matematica con occhi ovini, mortificherebbe i miei sette anni rimproverando che Non si può fare di un asino un cavallo, al massimo si può farne un buon asino.

Penserei a questa citazione, e ci troverei dentro mio nonno e il suo universo al contrario; mi alzerei dalla poltrona di fustagno e mi sporgerei a baciargli quella testa matta. Vorrei dirgli tante cose, ma la stanza comincia a sapere di uva rancida e cassapanca centenaria, e io ho voglia di uscire e di prendere la sua Graziella e di farlo sedere nel sellino di dietro, portando a spasso il suo corpo decadente come lui portava a spasso la me bambina di trent’anni fa. Andremmo via assieme, ebbri e spensierati, per le strade trafficate della zona industriale, che secondo il nonno ha dato lavoro a molti, ma secondo me ha tolto il verde e la voglia di vivere.  Andremmo veloci, io pedalando e il nonno raccontandomi di com’era vivere in quei posti, quando ancora non c’erano le fabbriche e si vedeva il sole.

«Qua una volta l’era tutta campagna.» così inizierebbe il suo racconto. Poi, senza aspettare la mia risposta, darebbe aria ai ricordi. «Là, dove c’è la Fincantieri, si coltivava il granturco, e oltre il canale c’erano i frutteti, coi pomari e i perari. Ma c’erano anche gli albicocchi e i saresari, coltivati dai Zuin, che erano sì contadini ma avevano i schei per comprare gli alberi da frutto più belli. E avessi sentito che profumo che faceva in primavera quando buttavano i fiori. Quei sì che erano bei tempi!»

«E poi?» lo esorterei a continuare.

«E poi l’è rivà el progresso, finalmente! Son venuti a gettare la malta per farci un bel capannone per la Fiera Campionaria. Te vedessi, l’era grando e luminoso, con tutte le vetrate e le gabbie per le bestie da vendere nei giorni di mostra. Pareva un gran bel fabbricato, non come quelli che tirano su adesso e che paiono casse da morto» aggiungerebbe, lasciando sedimentare il verdetto su un tappeto di improperi.

«Si ma i fiori, i campi e gli alberi?» lo inviterei a proseguire.

«Eh, cosa vuoi che te diga, qualcosina lo si doveva pur sacrificare. E poi, così almeno abbiamo il lusso di poter comperare tutto quello che vogliamo al supermercato, senza fare neanche la fatica di spaccarsi la schina sui campi.»

«Nonno, ma guarda che anche così c’è chi comunque la schiena se la spacca per portarti la roba sugli scaffali!» lo punzecchierei.

«Eh ma quei lì sono tutti immigrati! Lascia che sgobbino un pochino anche loro che noi la nostra parte l’abbiamo già fatta» concluderebbe con un movimento della mano, come a scacciare via le mosche.

Ci troveremmo a passare davanti al bar da cui era uscito poche ore prima, e mi chiederebbe di fermarsi, per salutare un amico.

Andrebbe dritto al banco, facendo un cenno col mento al ragazzo seduto all’ingresso, e si fermerebbe di fronte al barista moldavo, che gli sorriderebbe dall’alto del suo metro e novantadue. Il nonno gli direbbe: «Sei bravo te, a lassiare tutto per venire qua in questa gabbia de matti.»

Gli stringerebbe la mano e gli darebbe una pacca sulla spalla, con lo slancio e l’ammirazione con cui, da piccola, lo vedevo stringere le mani ai preti. Infine, con fare da direttore d’orchestra, alzerebbe le braccia al cielo, si girerebbe a guardare il suo pubblico e, non trovandolo, griderebbe, in modo che la gente fuori potesse sentirlo:

«E ‘desso torna a lavorare, che a casa el pan non se porta miga da solo!»

Immagine generata con DALL-E
“an impressionist grey painting depicting a flat industrial area”