Nella felpa
L’insonnia è diventata imbattibile. Inutili i palindromi, il conteggio delle pecore, lo Stilnox, i soliti saggi noiosi dai quali cercavo, oltretutto, di estrapolare intuizioni che mi facessero levitare su più alti livelli dell’intelletto. Quando andava bene avevano il merito di recarmi un sonno niente male. Inefficace era diventata persino quella genialata che si deve (tra le tante) alla Generazione Z: MagicChiaraAsmr, lei, la fata pifferaia, nemesi di Shahrazad; con il suo whispering sedativo, mi accoppava giusto in tempo da impedire alle performate pubblicità di YouTube di tramortire il mio meridione sensoriale iper-rilassato; di far saltare in aria tutti quei processi mentali in tensione e ingarbugliati che tentavo sciogliere. Lei era davvero magica. Ma adesso nulla, proprio nulla, nemmeno la magia, poteva niente contro la mia insonnia che, come un’altalena impazzita, mi rimbalzava numerose volte dal sonno alla veglia. Al punto da non capire più cosa fosse reale e cosa no, se ci fosse davvero una differenza. Il sogno intermittente si infilava nella realtà o viceversa, realtà e sogno mescolati. E la colpa era tutta dell’Ombra.
«Lui non c’è. È solo l’ombra della tua felpa» insiste Nati, parlando col suo solito tono di voce assente. È una stupida e innocua felpa che si tiene a penzoloni dal cappuccio. Ma la mia mente ostinata le affida sembianze antropomorfe, mostruose. Malgrado le rassicurazioni della mia amica a contraddirmi. È una presenza.
Ciò che in realtà mi suscita non è un vero timore. Più che altro è una voglia folle di urlare: forza, esci dal buio, affrontami, codardo! Sono pronta a farti il culo stavolta. Ma forse è la paura che fa emergere questo coraggio, la paura e di sicuro la rabbia. Mi trattengo, non voglio che Nati pensi che io sia diventata davvero matta. Almeno non più di come lo sono sempre stata, ché se no mi rifila di nuovo quei discorsi del cazzo sul farmi assistere da uno strizzacervelli. Evito anche perché con tutto quel fissare mi mancano le energie.
Nati mi asciuga il sudore dalla fronte con una carezza. Scende dal letto e va verso la felpa. Mi viene fuori un debole «stai attenta, non ti fidare», le faccio luce con la torcia del cellulare. Il suo corpo è così leggero che a malapena percepisco il rumore dei passi, quasi sembra fluttuare sulla superficie del pavimento. Un fantasma sfuggente.
«Che devo fare ancora, per farti capire che è solo un’ombra?».
Temo che sarà lei ad ammalarsi se continuerà a starmi accanto. Questo sì che è un vero timore. Continuando così le capiterà qualcosa di brutto a causa dei miei mostruosi demoni. Si imbucheranno dentro di lei come un tarlo, li assorbirà come l’acqua nei capillari del legno. È già magra quanto me; potrebbero tranquillamente scambiarla per me, tanto m’assomiglia. È praticamente uguale, solo più spaventata, più pallida.
«Anche gli uomini possono sembrare innocui, come una felpa. Innocui come la parola, felpa. È una presenza ti dico, dentro al buio, si sposta solo come si sposta il buio, va dove va l’oscurità, mi osserva. A me, è Lui che mi sembra»
«Ti riferisci a S?».
Mi pento immediatamente di averlo detto.
Lei in mezzo alla stanza, minuscola dentro la sua camicia da notte, infilza la gruccia dentro al buco nero del cappuccio, come a volerla ferire mortalmente, poi la seppellisce nell’armadio, sbattendo l’anta.
«Ecco, adesso non c’è più».
C’è invece. Lei non immagina che lui è così che fa, c’è proprio quando pensi non ci sia più.
Nati dà un’occhiata fuori dalla finestra, la apre appena per respirare l’aria invernale e mi rassicura che fuori a spiarci c’è solo una luna piena bellissima. «Vuoi venire qui a vederla?» domanda con tutta la sua dolcezza. Io non dico niente, mi giro dall’altra parte del letto, rivolgendole le spalle, e abbraccio i cuscini accatastati come se fossero una persona.
All’inizio apprezzavo quelle premure che solitamente si riservano ai bambini spaventati dai mostri sotto al letto, oppure a quelli che si prendono una brutta influenza. Io mi ero presa una sindrome da stress post traumatico, così mi aveva detto il medico del pronto soccorso. Troppo poco per morire, e quindi fui dimessa.
Unire le forze per combattere qualcosa di molto più grande. Mi faceva credere in qualcosa. In una specie di rete di sorellanza che tutto può. Poi mi ricordo che invece non può un cazzofritto.
Comincio a detestare quelle attenzioni, che nausea. Mi fanno sentire un’invalida, e le detesto perché in fondo un po’ invalida lo sono per davvero, detesto soprattutto ammetterlo.
«Questa cosa della felpa è una scemenza». Mi decido a dirle coraggiosamente. «È ormai passato più di un mese da quando è accaduto quello che non mi va di ricordare». Attendo preoccupata la sua reazione, non ho voglia di discutere. Non ne ho le forze.
Scuote la testa incredula con tanto di occhi, lei comunque aveva già due occhi grandi di suo. Schiude appena le labbra. Non dice nulla, quindi continuo.
«Che ne dici se ce ne torniamo alle nostre vite… Domani torni a casa tua, okay? Voglio dire…»
Come previsto: non mi lascia mica finire, la testona.
«Sei seria?» interrompe con un sorriso nervoso, «Vorresti davvero convincermi che stai bene mentre sudi freddo e tremi? Non me ne vado da nessuna parte. Punto e basta».
«Se ci sei tu qui non riesco a dormire. Ho bisogno di stare da sola», ribatto quasi urlando, senza fiato. «Certe cose si affrontano da soli, lo capisci?».
Non risponde. Sa molto bene che conosco già come la pensa. Avevamo affrontato lo stesso argomento diverse volte, aggiungendo ogni qualvolta un’interpolazione diversa. Se ne concludeva, per esempio, che in queste condizioni è necessario avere a disposizione tutti gli alleati possibili. Con qualche goccetto di alcol in più, si diventava un po’ poetiche e il discorso veniva fuori a metafore prese dalle letture che facevamo insieme.
Anche quando la pensavamo allo stesso modo, capitava di scannarci. Solo perché dicevamo la stessa cosa in maniera diversa. E l’Ombra so che in quei momenti cresceva, diventava più forte.
Non può che essere viva. È viva. Lo è più di me.
Nati resta rigida di fianco alla finestra per qualche secondo e mi fissa come in attesa che io mi rimangi tutto ciò che ho appena detto, o qualcosa che assomigli anche solo vagamente a un Resta; invece, legge nel mio sguardo in penombra una piena e ostinata conferma: Devi andartene, e subito. Riesco a intravedere i suoi grandi bulbi bianco perla luccicare, non di rabbia ma di rassegnazione. Io avverto solo un leggero senso di colpa bucarmi la bocca dello stomaco. Ha capito che mi sono arresa, l’ho delusa. In quell’istante non lo sapevo ancora: che non solo il senso di colpa non se ne sarebbe più andato ma che era persino destinato a crescere.
Non dice nulla, neanche quando afferra la borsa e le chiavi, stranamente. Mi viene naturale tradurre quel silenzio: sono riuscita a farla stancare di me. Mette una giacca di tutta fretta, e sconvolta com’è, sono sicura che non si è accorta di aver preso per sbaglio la mia. Io non dico niente, me ne resto sul letto seduta all’indiana. La seguo con gli occhi come una cinepresa e la lascio fare. Penso solamente ecco, adesso sembra proprio me, non c’è niente a distinguerci. Una parte di me in meno, finalmente.
Mi aspetto una leggerezza che non arriva.
L’attimo dopo sbatte la porta alle sue spalle.
Credo stia piangendo o forse è il rumore delle chiavi, le stupide chiavi attaccate a quel ridicolo portachiavi che le regalai quando si trasferì qui a casa mia.
Un cuore pieno d’acqua nella quale galleggiano dei glitter viola e il suo nome sullo sfondo. A lei quelle stronzate brillantinate piacevano da impazzire. E a me piaceva da impazzire vederla sorridere, renderla contenta.
Come mi era saltato in mente far trasferire qualcuno a casa mia e di farlo assistere al mio sfacelo, al mio decadimento?
Ero già morta, e non volevo che se ne accorgesse.
So che quella è solo un’ombra. Ma ciò che io vedo in quell’ombra è Lui.
Da quando Nati se n’è andata, mi sono totalmente rattrappita. Non riesco a fare niente, a mangiare, a lavarmi, pettinarmi, masturbarmi, vestirmi, a uscire di casa, a dormire senza veglia. Nemmeno a pensare riesco. E se penso è un casino. Un vero casino. I pensieri si diramano come corsie di un’autostrada nordamericana e credo che mi possano fare scoppiare il cervello da un momento all’altro. Ogni bivio che prendo mi fa sentire esausta.
Ho abbandonato la danza, che amavo, vivevo per danzare e la cosa assurda è che adesso neppure mi manca.
«È la depressione, ti fa perdere ogni piacere» mi spiegava Nati, come se non avessi potuto arrivarci da sola.
Le uniche attività sono fumare come una ciminiera slovacca, concedermi un bicchiere di Vermouth ogni tanto. Di tanto in tanto faccio il periplo delle stanze in punta di piedi, passi di danza senza musica.
Anche se Nati se n’è andata, posso ancora sentire la sua voce nella testa. Sta dicendo che il mio stato vitale è quello di un opossum: che si finge morto per tenersi in vita. Io invece mi sento morta e mi impegno per sembrare viva.
Il massimo che concedo al mio corpo è acqua, ogni tanto qualche schifezza da deglutire, quanto basta per bloccare le vertigini della debolezza, alzarmi dal letto o dal divano per cagare e pisciare. E comunque il mio corpo dovrebbe ringraziarmi che gli evito alcol e droghe pesanti; non sempre, certo. Spesso quando prova a ribellarsi, specialmente per la scarsa alimentazione, non lo ascolto.
Le palpebre finalmente s’abbassano, mentre guardo fuori dalla finestra la neve scendere senza vento. In quella finta morte che è dormire, la mia vita acquisisce coerenza.
Invece mi accorgo che purtroppo anche dormendo rimango cosciente. Una parte di me ‒ forse il meridione stimolato dall’asmr ‒ è perfettamente vigile.
Dannato meridione. Dannata generazione Z.
Una parte è pronta ma non sa a cosa. Vivo un sogno lucido. Non vale, penso. Forse lo sussurro anche. Così non vale.
«Che ti sei addormentata a fare se non stai dormendo?» domanda Nati. Non ha il suo solito tono tranquillo, è arrabbiata con me.
«Una pausa è tutto ciò che vorrei. Una pausa è ciò di cui avrei più bisogno. Una pausa» cerco disperatamente di spiegarle (disperato è il bisogno che capisca come mi sento, anzi che capisca come non mi sento più, perché io non lo capisco); prima che evapori in uno specchio che non è uno specchio, mi risponde una voce sospirata ‒ dice che la mia volontà qui, vale meno che lì. La voce della pifferaia.
Ma lì dove? Dove mi trovo? Nel sogno? Nella veglia? In una prigione senza tempo e senza spazio, credibile anche se riprodotta.
Ogni tanto bisogna pur rassegnarsi. Davvero, me ne frego. Accada quel che deve accadere. Mi arrendo. Mi sveglio. Mi riaddormento. Mi risveglio. La notte la brucio più del giorno.
Sono chiusa in una stanza insieme all’Ombra, vuole lottare ma io sono stanca.
Sento la mancanza di Nati, è come se mi avessero tagliato una metà. La metà buona.
Sopportare tutta quella sofferenza nel sogno, scoppiavo dal dolore, mi ha stremata; perciò, l’ombra s’ingrossa su tutta la stanza. La inghiotte con le tenebre. A quel punto, non mi addormento, svengo.
Proprio come temevo appare S. Stavolta è così come lo vedevo prima che si rivelasse uno stalker, uno stupratore, un potenziale assassino, una bestia. Un’ombra che mi segue ovunque.
«Secondo te perché mi vesto così S.?» la sua faccia si allunga, buia anche quella, una maschera nera dalla quale risaltano solo gli occhi e una bocca ghignante. Mi fa paura ma non mi muovo di un millimetro, non ci riesco. Eppure, continuo a conversarci come se fosse ancora il ragazzo che pensavo di conoscere. Lo stesso che mi svegliava con i pancakes e il caffè al mattino, che mi aveva insegnato a pescare e a giocare a briscola, il ragazzo con cui andavo a fare lunghe sessioni di trekking su in montagna, con il quale avevo fatto l’amore su un prato nell’erba alta.
«Così come?» risponde lui, massaggiandomi tra l’inguine e il ginocchio, una mano più lunga del normale, una mano d’ombra gelida che allontano immediatamente in preda a un senso di disgusto e repulsione.
«Non fingere, hai capito. Ad andare in giro come vado io molta gente si vergognerebbe. Me l’hai detto tante volte anche tu. Chiappe che escono dai pantaloncini, mettendo in risalto…, addominali a vista e tette coperte da mini-top, per di più senza reggiseno».
«Mettendo in risalto un bel culo. Già proprio un succoso bocconcino» ride lui, schiaffeggiandomi sulla coscia.
«Ma lo sai perché o no?» gli dico dandogli mezza gomitata sullo sterno, allontanandolo.
«Perché sei un’eccentrica del cazzo e, ovviamente, un po’ puttana. Vuoi che gli altri uomini ti guardino. Mi pare ovvio». Comincia a infastidirsi di tutte quelle chiacchiere. Vuole solo scopare, si capisce da come guarda, dall’insistenza con cui mi tocca, e il cazzo che gli tira i jeans non lascia dubbi. Ma adesso gli confiderò qualcosa che gli farà passare la voglia. «Non lo sai. Non sai mai niente di niente. Perché così alla gente che pensa che io me la cerchi, posso rispondere che in realtà quando mi è successo, indossavo un pigiamino rosa con gli orsacchiotti e avevo otto anni. Lui mi chiamava principessa e io lo chiamavo zio. E no, non sono un po’ puttana. Lo sono parecchio. Lo siamo tutte quante no? Non ci nasciamo, ci diventiamo». La mia voce sembra più il ringhio di una creatura animalesca rabbiosa e affamata di non si sa cosa, ma come se potessi reggere la fame di tutti gli affamati.
Mi sveglio, di nuovo. Non stavo per niente sognando, stavo rivivendo. Ho l’affanno e i capelli appiccicati alle guance, una lacrima di sudore si arresta vicino al lobo. Ricordo. Per quanto io cerchi di schiacciarlo, ricordo.
Mi ricordo. Quella fu la sera in cui il mio ragazzo decise di stuprarmi, dopo tentò di giustificarsi dicendo che non aveva capito il mio no, roba da matti eh. Eppure, giuro, disse proprio che non aveva capito. Neanche se l’avevo urlato più e più volte, fino a sentirsi costretto di tapparmi la bocca e mettermi a tacere. Non aveva capito che piangevo, né la fatica delle mie cosce che si richiudevano rigide sotto le sue mani. Non aveva capito. “Scusa baby”. “Era stato solo un malinteso”. Era così allettante come spiegazione, che per un po’ mi volli convincere che le cose fossero andate davvero in questo modo. Si poteva fingere con forza che non era mai successo, così come si poteva fingere facilmente di non aver capito.
Abbracciai forte la felpa, dopo presi a lottarci contro; la brandii a morsi, sentivo i fili di tessuto nero e graffiante attaccarsi in gola. La tirai via a pugni; pugni troppo deboli. Ma con le nocche di osso aguzzo. Ostinata mi ricascava addosso. Cercò di soffocarmi con le sue maniche, mi liberai sfilandomela fuori dalla nuca, strappandomi e infuocando le orecchie. L’appallottolai e, a forza di calci, la tenevo sospesa in aria. Atterrava in mezzo alle mie ginocchia. Non toccarmi, maledetto! Mi misi a cavalcioni, ci sputai sopra. La massacrai. Volevo un modo per strangolarla. Toglierla di mezzo per sempre.
Piansi, fino allo sfinimento di ogni mio atomo.
Mi sveglio.
L’Ombra mi aveva battuta ancora.
Dopo la lotta ripresi fiato. Ero stremata. Me ne restai a lungo con le braccia aperte verso l’alto a formare una v, come un cristo in croce, e con gli occhi spalancati a fissare il soffitto, a osservare il gioco delle ombre, il mio buio interiore, con il tappeto che mi pungeva la pelle madida di sudore.
Non posso, non posso passarci di nuovo, non voglio.
Rantolo abbastanza forte da svegliarmi. Ricordo, ancora. Prendo aria come dopo una lunga nuotata, o un annegamento scampato per poco. Gli occhi aperti. L’Ombra è padrona dei miei incubi. Lui lo era del mio corpo.
Le palpebre pesano tonnellate, ma anche le viscere dello stomaco. Scivolo nel sonno come dal pendio di una collina, ricordo che era solo un sogno. Sì, poteva solo che essere tutto un sogno, il sogno di un ricordo, come quella non poteva che essere l’ombra di una felpa. Chiederò a Nati di buttarla via per me, aspetterò che torni e le dirò che va bene, ci vado da uno strizzacervelli, e che sì, ha ragione lei su tutto. Non ci faremo rovinare la vita da dei bastardi pezzi di merda.
Sono sveglia. Lui è ancora qui, un’ombra acquosa, con i contorni frastagliati da un’alba rosea. Un sole indeciso a nascere. Fuori un uccello canta, si sente il silenzio negli intervalli. La stanza ansima.
Indossa la mia dannata felpa e fa tintinnare compiaciuto un mazzo di chiavi con un cuore di glitter viola.
Le mani sporche di sangue, non so se il mio o di Nati.
Siamo uguali.
Immagine generata con DALL-E
“dramatic oil painting of a black hooded sweatshirt hanging on the wall”