Melsì
Io e Agnese ci siamo conosciute sotto questo tavolo della trattoria-ristorante Da Giovanni due minuti fa. Lei ha sette anni e mezzo, io sette e basta: sa le tabelline a memoria, compresa quella dell’otto che è la più difficile. Io ho appena imparato quella del sei, però so fare la spaccata.
Qui sotto siamo io, Agnese e la sua Barbie di Mel C che i miei non mi vogliono prendere: una Barbie con il piercing al naso, il tatuaggio sul braccio e addirittura il dente d’oro io non l’avevo mai vista. Adoro il dentino d’oro di Mel C quella vera, perché lei se ne frega che fa risaltare il suo sorriso pieno di denti un po’ storti. Le altre Spice sono fantastiche e mia mamma è d’accordo: dice che Mel B “è molto bella per essere nera, probabilmente è mista”. Però dice anche che si conciano da ragazze poco di buono con l’ombelico di fuori e le tette al vento, e non va bene perché attirano le attenzioni degli uomini, che perdono la testa. Per questo, oltre a non comprarmi la Barbie, mi ha vietato le Fornarina con le zeppe.
Agnese parla velocemente e lo spazio tra le palette davanti le fa sibilare tutte le esse e tutte le zeta come una biscia. Sembra che le cerchi apposta le parole piene di esse e di zeta, per fare sentire le lettere che dice male. Anche lei ama il dente d’oro di Mel C (melsì detto come se lo dice una biscia). Parla strano, nel senso che la capisco ma dice le parole in modo un po’ diverso.
È stupendissima, Agnese. È pallida pallida ma ha le guance rosse e gli occhi azzurri e grossi. Ha le ciglia bionde che quasi non si vedono, così come le sopracciglia. Gli elastici del suo apparecchio sono rosa e sono fighissimi, io ho l’apparecchio da mettere solo di notte e nessuno lo vede mai. È anche molto gentile perché mi lascia tenere in mano Mel C, nel suo top rosso e i pantaloni della tuta blu con la striscia bianca laterale.
Io mi sono nascosta qui sotto al tavolo della trattoria perché mio papà sta parlando con il nonno di risparmi: una pizza tremenda. Non capisco a cosa serva tenere i risparmi visto che basta andare al bancomat e farsi dare i soldi, lo vedo fare sempre dalla mamma.
Agnese mi ha detto che ha avuto la stessa idea di venire qua sotto perché così sta meglio. Ha il mento appoggiato alle ginocchia raccolte tra le braccia e sorride serena. Siamo in una tenda in campeggio, la tovaglia arancione ci nasconde.
Lei vive vicino, ma prima abitava dove c’è il mare. Mi dice che non può stare tanto al sole perché si scotta. Ha un cane che si chiama Bongo e l’ha dovuto lasciare dai nonni. Suo fratello più grande si chiama Aurelio e lavora a Milano. Io le dico che ho una gatta cicciona che si chiama Onda perché ha gli occhi azzurri, non ho fratelli e al sole mi devo mettere la crema anch’io.
Chiedo ad Agnese se ha voglia di andare a giocare fuori nel parcheggio: se strisciamo sotto i tavoli riusciamo a uscire senza farci scoprire. Lei scuote la testa e dice che sta bene qui. Anch’io sto bene qui, con lei.
Al posto dell’orecchio, Agnese sembra avere una big babol masticata e appiccicata attorno a un buchino dal quale credo senta i suoni. Sembra non ricordarsi che non ce l’ha più un orecchio dietro al quale mettersi i riccioli biondi, perché ogni tanto quando è distratta ci prova con la mano.
Le chiedo perché non ha l’orecchio e mi risponde che i suoi l’hanno ricevuto per posta.
«Non ho capito» le dico cercando di dividere la mèche rossa di Mel C dagli altri capelli neri, stretti nella coda alta: mi piacerebbe fare una trecciolina solo con i capelli rossi.
«L’hanno trovato i miei nella cassetta delle lettere».
La guardo fissa negli occhi cercando di capire se mi sta prendendo il giro: «Perché?»
Agnese si stringe nelle spalle: «Perché non volevano venirmi a prendere e allora i miei custodi hanno cercato di convincerli»
«Come mai non volevano venire a prenderti?»
«Perché non mi volevano abbastanza bene».
I miei credo mi vogliano abbastanza bene da venirmi a prendere anche senza pezzi d’orecchio per posta, anche se le Barbie Spice non me le comprano perché costa troppo. Ne sono quasi sicura.
«Ma scusa, dove ti dovevano venire a prendere?»
«Non mi ricordo tanto bene. Sotto un pavimento, credo. Sentivo sempre i rumori sopra la testa»
Faccio spallucce: «Beh, alla fine sei qui. Vuol dire che ti sono venuti a prendere»
«No. I miei custodi mi hanno lasciata andare. Se no chissà quando sarebbero venuti, i miei genitori. Sono sempre molto impegnati».
Metto Mel C con la gamba per aria, come quando tira il calcio in Say you’ll be there: «Potevi fargli una mossa di karate e scappare da sola»
«Non volevo scappare»
«Perché no?»
«Ero felice con loro».
Sembra che l’argomento la renda triste, allora cerco di tirarla su di morale: «Secondo me i tuoi ti volevano abbastanza bene. Mi sembri una che non fa arrabbiare la mamma».
Agnese punta gli occhi azzurri sulle sue mani e le osserva: «Mia mamma è sempre arrabbiata, adesso. Anche la sera quando mi sono venuti a prendere dai carabinieri, mia mamma ha urlato addosso a mio papà per tutto il viaggio in macchina invece di essere contenta che ero di nuovo con loro. Prima non litigavano mai. Era meglio che non tornavo, si vede».
Agnese sistema la fascia da capelli rossa che ha arrotolata attorno al polso. Mi dice che la mamma la obbliga a metterla per coprire la ferita, ma quando non la vede lei se la toglie.
«Mi dispiace» le dico piano.
«Non fa niente» fa lei con un sorrisino. «Ormai ci sono abituata»
«Erano degli zingari che ti hanno presa?»
«Non credo. Parlavano bene anche se non li ho mai visti in faccia»
«Perché quando arrivano le giostre per la festa del patrono, mia mamma dice di stare attenta alle zingare che ti infilano sotto la gonna e ti portano via. Però a me piacerebbe girare l’Italia e poter andare sulle giostre tutto il giorno, anche quando non c’è la fiera. Ci sei andata sulle giostre?» chiedo, facendo arrampicare Mel C lungo la gamba del tavolo.
«No. Ero in un posto dove non si capiva se era giorno o notte. Tipo come adesso, però non c’era la tovaglia, era tutto chiuso e buio sempre. E sono rimasta lì»
«Quanto?»
«Dicono settantaquattro giorni»
«Che brutto»
«Non era così brutto» dice Agnese. «Mi davano tutto quello che volevo e dovevo solo telefonare ai miei, leggere un titolo del giornale e dirgli che stavo bene. Ho letto tutta la Serie Azzurra del Battello a Vapore e anche Spid, il ragno ballerino della Serie Arancione anche se è per i grandi. Mi davano dei bicchieroni di coca cola e potevo stare sveglia fino alle undici. E non dovevo fare i compiti e andare a catechismo, potevo ascoltare le cassette finché volevo. Un po’ per uno Michele e Gabriele si mettevano lì con me e mi abbracciavano finché non mi addormentavo».
Faccio fare un salto mortale all’indietro a Mel C e guardo Agnese. Il suo discorso non mi convince: «Ma ti hanno staccato l’orecchio»
«I miei non si decidevano, l’hanno fatto per me»
Mel C fa una ruota, una rondata e un palo-ponte. «Sei bella anche senza»
«Grazie» sorride Agnese. «Me lo diceva anche Gabriele. Invece il carabiniere che voleva disinfettare la ferita quando ha tolto la garza ha vomitato»
«Lì davanti a tutti?»
«Non ci crederai: sui miei piedi» ridacchia Agnese.
«Che schifo! Anche un mio compagno di classe vomita sempre. Una volta mi ha vomitato nello zaino e non me ne sono accorta. Tutti i libri puzzolenti e anche la merenda».
Non è vero, me lo sono inventata. È solo che io non ho niente di interessante da raccontare ad Agnese.
«Si è arrabbiata, la tua mamma?»
«No, no. Non era mica colpa mia»
«Mia mamma e i carabinieri dicono che è colpa mia perché non dovevo andare in macchina con uno sconosciuto. Però non è che fosse uno sconosciuto, mi aveva detto che era il papà di una mia compagna di classe e si era messo d’accordo con mia mamma per venirmi a prendere lui fuori da scuola. Però poi mi ha detto che avrebbe dovuto dirmi una bugia, se no non sarei andata con lui. Era una bugia a fin di bene, per farmi capire che i miei genitori non erano brave persone. All’inizio mi sembrava una bugia anche questa, solo che poi non mi venivano a prendere davvero anche se i miei custodi insistevano tantissimo»
«Non potevi chiamare tu la polizia di nascosto?» le chiedo.
«No, no. Mi è venuta paura della polizia. Era come se ci stavano cercando per farci del male. I miei custodi mi stavano proteggendo, come due angeli. Mi era venuta la febbre e mi avevano curata, mi faceva male l’orecchio e mi avevano dato le medicine. Mia mamma pensa sempre che quando dico che non sto bene è perché non voglio andare a scuola, invece loro mi avevano creduta subito. A volte penso che vorrei essere ancora là, insieme a loro»
«Chiusa da qualche parte al buio tutto il giorno?»
Agnese annuisce: «È meglio che qua fuori. I miei non mi lasciano più stare da sola neanche un secondo, neanche per fare la pipì»
«Neanche la cacca?»
«Neanche»
«Aiuto!»
Agnese si dondola un po’ e poi fa un sorrisetto:
«Non è vero che non li ho visti in faccia, Michele l’ho visto. Mi ha detto che se non dicevo niente ai carabinieri, quando divento grande mi viene a cercare e ci sposiamo. E quando avremo dei bambini di sicuro non diventiamo come i miei, che non si amano.»
«È carino, Michele?»
«Però giura che non lo dici»
«Giuro»
«Sembra Justin»
«Che sogno, essere rapita da Justin»
«Se ti dico una cosa all’orecchio giuri che non dici neanche questa?»
«Ri-giuro».
Agnese si piega in avanti, avvicina la guancia alla mia, si porta la mano a lato della bocca, prende un respiro e mi parla all’orecchio.
Le chiedo se hanno fatto l’amore perché lei indossava le Fornarina. Lei mi dice di no, l’hanno fatto perché sono innamorati.
Una donna grida fortissimo e zittisce tutta la trattoria-ristorante “Da Giovanni”, si sente un trambusto di sedie che si spostano.
Agnese si immobilizza, quasi sembra non respiri per non farsi sentire. Guarda all’insù, sopra la propria testa, verso il sotto delle assi del tavolo. Poi ha un brivido, fa sfarfallare le ciglia bionde e mi sorride. Si sfila la fascia per capelli dal polso e la indossa, coprendo l’orecchio che non c’è.
«Tienila pure, te la regalo» dice Agnese, indicando Mel C. «Tanto mio papà mi compra tutto quello che chiedo, adesso».
Con un sospiro gattona oltre la tovaglia, come se dovesse andare sul palco per la recita della scuola. Porca miseria, che bello sarebbe se i miei mi comprassero tutto.
Sento dei tacchi veloci e una donna che parla un po’ diverso da noi ma che si capisce:
«Ti avevo detto di guardarla, cretino, e tu te la perdi di nuovo». Sta piangendo ma è anche arrabbiata. Stringo Mel C tra le braccia. «Ma non capisci proprio un cazzo?»
«Scusa, mamma. Non lo faccio più, per favore non litigate» dice Agnese, come se avesse così tante volte quella frase da averla imparata a memoria, come una poesia. O come una canzone delle Spice.
Mi affaccio da sotto la tovaglia arancione: Agnese è tutta rossa in faccia e non più solo sulle guance, e tiene gli occhi bassi. Qualcuno dall’alto si mette a strattornarla per un braccio. Davanti a lei ci sono delle gambe avvolte da collant neri.
Se non avessi giurato ad Agnese di tenere il segreto, direi a mia mamma che non è solo se ti vesti con l’ombelico di fuori che gli uomini si innamorano. Forse glielo dico lo stesso, così magari mi compra anche Mel B.
Immagine generata con DALL-E
“an oil painting of two little girls talking under a table”