Involucro di femmina
Zia Rosalia compare in cucina in mutande.
Tutti si zittiscono, io abbasso lo sguardo e continuo a soffiare sul caffellatte. Le mie guance si colorano di un imbarazzo che non vorrei provare. Ma non per lei, per me stesso. Non vorrei essere costretto a guardarla. Nessuno dovrebbe essere costretto a farlo, soprattutto a diciassette anni. E lei lo sa.
Zia Rosalia ci fissa con il mento alto, porta le mani ai fianchi e il movimento mostra l’aureola dei capezzoli sotto la canotta, in un invito che sa di materno. Mia mamma sospira, distoglie lo sguardo da quella zoccola della cognata e punta la suocera che finge di non accorgersi della nudità della figlia. Ti sei già svegliata, a mamma?
Mio padre e mio zio si schiariscono la voce e si aggiustano il cavallo dei calzoni; il gesto mi dà più fastidio di vedere l’inguine di mia zia, che ha quarant’anni come mamma ed è come se vedessi la fessa da cui sono uscito.
Zia Rosalia non dà il buongiorno a nessuno, s’assetta sulla sedia libera davanti alla finestra e accavalla le gambe da modella mancata. Dalle mutande preme il rigonfiamento del pelo pubico.
Lo fa apposta, dice sempre mamma.
I maschi nascondono meglio gambe e bacino sotto la tovaglia, si scambiano ammiccamenti d’intesa e zio si gira verso di me, mi coinvolge. Ormai anche isso è uomo, si dicevano con mio padre l’altra sera mentre fumavano. Non partecipo alla loro alleanza, resto a soffiare sulla ciotola.
Zia Rosalia prende una tazza, la nonna le allunga il latte. Hai dormito bene, a mamma?
Zia socchiude gli occhi e sorseggia la bevanda, un ricciolo le sfugge dal mollettone; con la tazza stretta tra le dita, coperta solo dalla canotta e con le gambe in bella mostra, sembra il quadro di Manara appeso in salone.
La mamma ha ragione, zia Rosalia lo fa proprio apposta. Conosce le reazioni che provoca nei fratelli.
Mamma ripete tutto l’anno che qui non ci vuole venire, non è il caso che la creatura, io, veda zia Rosalia, che quella mi mette strani pensieri in testa e poi mi chiudo in camera a fare quello che devo fare.
È un turbamento che non dovrei avere, dice, e ci aggiunge un segno della croce. In realtà la mamma vorrebbe lagnarsi che zia Rosalia turba il marito e non certo me, che già non mi faccio le seghe sulle ragazze figuriamoci su mia zia.
A metà aprile e a metà novembre, puntuale come la messa della domenica, mamma cambia tono e si alliscia la cognata, complimentandosi per quanto sia bella e brava a stare appresso alla nonna tutto l’anno, che, se qualche giorno sbottassi e raccontassi a ognuna quella che si dicono dietro, creerei un colpo di Stato in casa e vorrei proprio vedere che succede se si scannassero apertamente tutte e tre.
Ruffiana a destra e ruffiana a sinistra, mamma riesce sempre a farsi strappare un invito alla villa al Circeo, che zia ha comprato con i suoi soldi “di zoccola” e in cui è andata a vivere con la nonna poco prima che io nascessi, abbandonando il paese sperduto tra i Monti del basso Lazio da cui proveniamo.
Non c’è più tornata.
Per anni non ha fatto mettere piede nella villa a nessuno, ai fratelli men che meno. Ma pretendeva che andassi a trovarla, diceva che le mancavo, che non mi vedeva mai e che si stava perdendo tutta la mia infanzia. Voglio godermi un po’ il bambino anche io, piangeva al telefono con mio padre. Qualcosa dentro quell’involucro di femmina deve essere materno davvero. Mia madre si opponeva, ma per mio padre era giusto che la sorella stesse un po’ con la creatura, sono comunque suo nipote.
Mio padre mi accompagnava alla villa a giugno e mi veniva a riprendere a settembre e io per tre mesi l’anno facevo il viziato tra le tette rassicuranti di zia Rosalia, che mi abbracciava molto più di mia madre, mi sbaciucchiava tutto il tempo e mi regalava qualsiasi cosa le chiedessi.
Finché non sono cresciuto e non ho più voluto che zia mi lavasse di ritorno dal mare.
E la mamma a quel punto perpetuava da anni lo stesso melodramma con la suocera: la famiglia deve stare unita e non è possibile che Rosalia se ne sta lì solo con voi, mamma, e con la creatura, in quella villa con vista sul Golfo, con tutte quelle stanze vuote dove possiamo starci benissimo anche noi, anzi, ce ne basterebbe una senza arrecare troppo disturbo. Vi aiuteremmo, mamma, così Rosalia può riposarsi. Non capisco proprio perché non ci fate venire.
A mia madre, di aiutare la nonna, non frega proprio niente, se potesse cecherebbe lei, la cognata e pure il marito. Ma vuoi mettere la soddisfazione, Mimì, di farmi le foto al Circeo? Devono schiattare tutte d’invidia, le amiche mie.
Così da dieci anni partiamo tutti insieme e zia ha smesso di portarmi con sé al mare e di rassicurarmi nel solco confortante del suo seno.
Quando lei esce, mamma ammorba la nonna. Non dite mai niente a vostra figlia, va girenne sempre accussì, guardate accome sta scosciata, sempre a tette da fora, e di fronte a Mimì, che è ancora una creatura! E vedete che combina a maritemo e al fratello.
La nonna si gonfia, la lascia sfogare ed emana il decreto: Rosalia può fare quello che vuole, il problema è di chi la guarda e se quei due cornuti dei fratelli attremendano la sorella sono due porci che vanno infilzati con lo spiedo. Va bene che sono figli a me, ma io non li ho cresciuti accussì. Dovrebbero baciare in terra dove cammina la sorella, se non ci fosse stata lei…
La mamma si placa, ma non si dà per vinta e rincara con la storia della presenza mia.
Mimì è intelligente, ribatte la nonna, sicuro più di chi l’ha fatto.
La questione potrebbe risolversi così, ma dato che la nonna non perde occasione per dare della malafemmina a ogni donna che sta un poco scosciata, forse per non essere proprio del tutto faccia di bronzo decreta che la figlia è l’unica che le sta sempre vicino. Altrimenti, aggiunge, ora sarei in casa di riposo e tu a pulire i cessi di signore più ricche e zozze di te.
Mamma a quel punto sta zitta e compassata, e zia Rosalia, che sicuro le ascolta, spunta chiamando il mio nome a gran voce. Mimì, Mimì! Vieni ad aiutarmi, a zia, vieni.
Vado incontro a zia e a qualsiasi incombenza voglia affidarmi, che sia portare in casa le casse d’acqua o tirarle su la zip del vestito.
Zia Rosalia l’ha capito prima che lo capissi io.
Non ha minimamente timore che io possa eccitarmi, nonostante abbia un corpo da maschio e più di una volta si sia infiammato. E io mi sono odiato e ancora di più ho odiato lei, che non chiede mica ai fratelli di farsi alzare la zip con il reggiseno di pizzo sotto e il perizoma che spunta dalla curva a cuore delle chiappe.
Mi odio, e la odio, perché il mio corpo non mi appartiene. Quelle tette così materne le vorrei io. Vorrei quel culo perfetto e quella promessa nascosta tra le gambe che sa usare a piacimento, come io non potrei fare mai.
E lei ne è consapevole.
A casa non posso parlare, ma certi sguardi di zia Rosalia sono inequivocabili. Trovo un senso al fatto che se ne sia accorta per prima: l’unica donna navigata e colta della famiglia, quella che con le gambe ha cresciuto due fratelli, li ha fatti laureare ed entrare nei circoli che contano, quella che, nonostante le dicano le peggio sconcezze, è raffinata, mai scomposta, nemmeno quando è nuda.
L’ho vista, nuda, eccome.
Quando mi lavava da piccolo e, adesso, che la spio dall’occhiello della porta mentre si fa la doccia. La spio per vedere che effetto fa essere una femmina, come deve essere lavarsi la vulva, che fastidio deve dare passarsi la lametta sulle cosce.
Zia Rosalia soffia sul latte, mi punta e i suoi occhi neri si scaldano. I maschi si spostano, tossicchiano. A loro quello sguardo provoca altre emozioni, a me malinconia per una cosa che non potrò mai avere.
La nonna continua a interrogarla, mia madre si alza sbattendo le mani sul tavolo e sparecchia il piatto suo schiaffandolo nel lavello. Fissa a lungo la suocera e richiama all’ordine il marito, che ridacchia con il fratello.
Quel trambusto non scalfisce zia Rosalia. Non risponde alla madre e non dà manco uno sguardo alla cognata e ai fratelli. La sua voce è zucchero. Mimì, a zia, non hai bevuto niente. Il latte ti si fredda.
La nonna si volta con la stessa premura che riserva alla figlia. Mimì, a nonna, che hai fatto? Tieni mal di pancia che non bevi?
Guardo il caffè che ha macchiato il latte e penso al pelo che macchia la pelle rosa di zia tra le labbra, immagino come sarebbe potermi toccare quella spaccatura senza incontrare altro, rialzo lo sguardo e lei per una volta abbassa il suo.
Oggi devo andare su in paese, vuoi venire con me, a zia?
La mamma, in sala, spalanca la porta finestra ed esce nel patio.
La piazza bianca di San Felice Circeo sfrigola nelle pupille, accecate dal sole, e le cicale riempiono la calura della tarda mattinata. Qualche avventore biascica al bar all’angolo, un gatto si lecca la zampa, steso sulla fontana di marmo. Dalle finestre si sente lo sbatacchiare dei preparativi del pranzo.
Tengo le mani nei pantaloncini con tutto il sudore, fisso i sampietrini pur di non fissare lei o di incrociare gli occhi di qualche passante.
Zia Rosalia sfila con un’andatura da pantera sui tacchi quadrati, il vestito rosso ondeggia appena sui fianchi. È dritta e composta, la pochette nera poggiata con grazia sul ventre.
La sbircio con un groppo in gola, maledetto me e quando l’ho seguita. Sembra la padrona del paese. I vecchietti al bar sollevano la coppola quando passa, altri la fissano in modo volgare, ma nessuno la ignora.
Fortuna che siamo usciti a quest’ora, non ci sta quasi nessuno. Se solo si fermasse a parlare con qualcuno e quel qualcuno mi riconoscesse, Accome te si fatto grosso, Mimì, e lei mi ostenterebbe tutta fiera, mi verrebbero le convulsioni.
Zia Rosalia non fa un fiato, guarda dritto senza abbassare gli occhi nemmeno in faccia al sole, arriccia solo un poco le labbra tinte di rossetto, come fosse perennemente schifata, o annoiata. Non tiene manco una goccia di sudore sulla fronte.
Sarò mai così?
Vorrei tirarle i capelli e riempirla di mazzate, che ha la sfacciataggine di sfoggiare tutto quello che desidero di fronte a me senza vergognarsi un po’ e forse senza nemmeno meritarselo. Io dovrei sudarmeli, la fessa e le tette e i fianchi e quest’incedere da dea.
Ci fermiamo sotto un portone di legno con una targhetta d’oro. C’è scritto il nome di un dottore. Zia suona al citofono e mi fa cenno di seguirla. Saliamo una scala stretta e scivolosa, lei mi precede e io rimango stregato dalla maledizione delle sue chiappe sotto quel cazzo di vestito di seta.
Mi fermo al primo divanetto, lei si gira con la sua voce di zucchero, la voce della mia madre estiva. Mimì, che fai? Vieni.
Sbircio la sala d’attesa, c’è solo una signora che si stringe la borsa al petto e fa una smorfia, e mi alzo di scatto, seguo mia zia. Lei saluta il dottore, balbetto un buongiorno e mi siedo, incrocio gli occhi del medico, mi sorride e fisso la moquette e mi sudano le mani e lei inizia a parlare e lui la rassicura che andrà tutto bene e non voglio stare qui con questo dottore che magari la spoglia e la tocca, possibile che non capisca che non sono più un bambino?
Invece il dottore è uno psicologo, si sporge verso di me e chiede se conosco già il percorso.
Sollevo piano la testa. Puoi stare tranquillo, se non vuoi che tu zia assista la farò uscire.
Mi volto a cercarla, e incontro la stessa donna che da bambino faceva con me castelli di sabbia, mi insegnava a tuffarmi dagli scogli e mi preparava i rigatoni al pomodoro che mi piacciono tanto. Incontro la donna che la sera mi leggeva le favole a letto, magari inventandole, e che rideva con me, mi abbracciava, aspettava mi addormentassi. La donna che correva nel mio letto se avevo un incubo, mi portava nel suo e mi teneva stretto fino alla mattina.
Il suo corpo mi è sempre stato familiare quanto il mio. Ha iniziato a darmi fastidio solo quando si è messa in mezzo la mia vera madre.
Con lei ho provato a parlare, ho lanciato la cosa a mo’ di battuta durante una cena, ma mi è tornato addosso un grido isterico e un segno della croce. Madre Santa, Mimì, che vai pazziando? Che schifezza, è fuori dalla grazia di Dio! I maschi che si vestono da femmina sono malati, vanno curati e riportati sulla via della Chiesa! Fosse per me, a suon di cilicio come si faceva una volta. Mimì, non li fare mai più questi discorsi, per cortesia. Ma è successo qualcosa? Ti ha importunato qualcuno di questi?
Con zia Rosalia non c’è stato bisogno manco di mezza parola e non so davvero il momento preciso in cui l’ha realizzato.
Zia mi sorride, con il rossetto e con quel corpo premuroso, famelico. E io ho brama di quella premura.
Il dottore mi ripete la domanda e non fingo di non sapere di che parla.
Mi spiega tutto ciò che devo fare: ormoni, tipi di operazioni, procedure legali, recupero e mantenimento post-operatorio, chirurgia plastica per il seno.
Appena compirai diciotto anni, purtroppo, prima è vietato.
Zia Rosalia mi copre la mano con la sua e io guardo le nostre dita intrecciate sulla sua gonna rossa. Non mi sono accorto di avergliele strette.
Potrai cambiare i documenti e scegliere il tuo nuovo nome.
Questa è una cosa importante, risponde zia, prendendo la parola per la prima volta, il nome decide chi sei.
Lo dice con un sottofondo di rammarico. Lei, come tutti, non ha avuto questa scelta. L’hanno chiamata come sua nonna, che ha conosciuto solo il marito e si è vestita di nero tutta la vita, e a me hanno dato il nome del nonno, che teneva l’amante in casa finché non è schiattato e ogni frase era un’allusione alla sacralità della fessa.
Che smacco far indossare a noi due i loro nomi.
Ho paura di uscire da qui e morire, questo sogno non può essere vero. Zia Rosalia sta rendendo fattibile l’impossibile.
So quale nome sceglierò.
Zia non mi riporta subito a casa, ci fermiamo a un ristorante sul belvedere e mi offre il pranzo. Io non parlo, tremo e rido. Ordina una bottiglia di vino, mi riempie il calice anche se non bevo. Lei sorride, si fuma una sigaretta, non ci diciamo nulla se non per commentare gli spaghetti alle vongole, la frittura di calamari e il tiramisù. Mangia un boccone alla volta, composta. Mi sforzo di imitarla. Un giorno, pare, potrò essere davvero lei.
Vogliamo fare una passeggiata al mare, Mimì?
So che sta perdendo tempo. Se tornassimo ora, la famiglia sarebbe seduta a tavola e dovrei dare spiegazioni. Non chiederebbero a lei, ma a me farebbero l’interrogatorio. Quando rientriamo, non c’è nessuno in casa, tranne la nonna che guarda la tv sul divano. Non è sorpresa del mio rossore e di come le schiocco un bacio sulle guance, su di giri. Mi prende il volto tra le mani. Amore mio, Mimì, che il Signore ti benedica!
Zia Rosalia mi porta in camera sua, mi dà accesso a quel luogo da cui mi sono bandito da bambino.
Si spoglia, per una volta sono libero di guardarla. Si mette una vestaglia e mi fa sedere sul letto. Prende i trucchi. Mi allontano, ma lei chiude la porta a chiave e mi dà un’occhiata di comando.
La lascio fare, lascio che mi trasformi, seppure per pochi minuti.
Mi infila il suo vestito rosso e mi trascina davanti allo specchio. Mi copro, ma non è pudore, è che a casa mia ho messo i vestiti di mia madre ma non mi stavano così bene. Non ero io quella.
Zia Rosalia mi scosta le braccia, mi guarda dal riflesso e io non so più se lo reggo uno sguardo così. Mi cinge le spalle, mi scosta i capelli dalla fronte.
Io ci sarò sempre, Mimì. Quando vorrai fare questa cosa, non ti privare. Vieni da me, la faremo insieme. Hai capito, Mimì? Da me devi venire, lascia stare a tua madre e a tuo padre e mettiti sul primo treno. Ti vengo a prendere io. Non lo saprà nessuno: diremo che stai studiando, che t’ho trovato lavoro, che ho bisogno di una mano, qualcosa ci inventeremo. Con la nonna ci parlo io. È brava a tenerli al loro posto, ci penserà lei. E quando avremo finito e sarai te stessa, il primo che fiata lo azzanno. A te non ti devono toccare, Mimì.
Non replico, mi gira la testa e mi viene da svenire.
Zia scurisce la voce di un’amarezza a cui non sono preparato. Me lo prometti, Mimì?
E non reggo più.
Zia Rosalia mi avvolge, raccoglie le mie lacrime e i miei singhiozzi e mi culla finché non mi vince il sonno.
E io ubbidirò e tornerò da lei, certo che ci tornerò, correrò dietro a quel corpo finché non diventerà il mio.
Questo racconto è stato editato da Elisa Zamataro, studentessa di Egida – fare editing con rispetto, il corso di editing di Itaca Colonia Creativa curato da Leonardo Ducros
Immagine generata con DALL-E
“a woman in a red dress walks through a sunny square in an Italian town and holds a teenager, Renaissance painting”