Come uccelli nel cielo
I regali sono per i bambini ricchi. E voi siete poveri. La prossima volta dovete nascere in una famiglia migliore, una di quelle che hanno tanti soldi.
«Mamma ce lo diceva sempre, soprattutto quando ci beccava a guardare le pubblicità dei giocattoli. Io e mia sorella le conoscevamo a memoria».
È inutile fantasticare davanti alla TV. Quelli come noi non hanno il diritto di sognare. È meglio che vi abituate.
«Abbiamo avuto proprio una bella infanzia».
«Quando ripensa a quei momenti, cosa prova?»
Paolo sospira e arretra sulla sedia. «Nulla».
«Quindi non prova niente? Sicuro?»
«Difficile da spiegare…»
Quella è la terza seduta. E se tutto va secondo i piani, sarà l’ultima. Presto sarà libero. Indica il crocifisso appeso alle spalle della dottoressa.
«Vede? Anche Gesù è in bilico».
«Si sente in bilico?»
«È il destino di chi si sacrifica per gli altri».
«Sarà stato fissato male, eppure non cade. Resistere è fondamentale».
Il profumo della dottoressa è familiare: buccia d’arancia e vaniglia. Chiude gli occhi e, per un istante, seduta davanti a lui, oltre il tavolino, c’è sua madre. Quell’immagine dura solo un secondo. La voce della dottoressa lo riporta indietro.
«Allora, me lo dice cosa provava? Facciamo così, finga che io non sia qui. Lo dica a sé stesso».
«A me stesso?» Sorride. «Dottorè, ma a che serve?»
«Mi assecondi».
Inspira, trattiene il fiato e poi butta l’aria fuori. «Mi veniva da piangere. Gli uomini non piangono. Mio padre lo diceva sempre. Anche quando mi frustava con la cintura. Di notte, mettevo la testa sotto il cuscino e piangevo. Allora, come avrei dovuto sentirmi? Me lo dica lei».
Lo sguardo di Paolo segue la fuga tra le mattonelle, sale lungo una sottile crepa nella parete e si ferma sul quadro.
«A lei piacciono i tramonti?»
«Paolo…»
«Sì, lo so, sto divagando».
«Stava dicendo che suo padre la frustava e lei piangeva, di nascosto».
«Nella cameretta c’era un appendiabiti con tre pomelli. Uno per mia sorella, uno per me e uno per la cintura. Quando facevamo qualche guaio era la fine. Ci guardava di traverso. Quello era il segnale. Dovevamo prenderla subito o sarebbe stato peggio».
«In che senso “peggio”?»
«Più tempo passava più le frustrate sarebbero state pesanti».
La dottoressa cerchia qualcosa che ha appena scritto sul taccuino. Lui sbircia. Non gli piace che resti traccia delle sue parole, della sua vita.
«Mi può spiegare che intende per “guaio”?»
«Una volta ho rischiato di ammazzare mia sorella. Avevamo un solo modellino di Mazinga. Ci giocavo sempre io dopo cena, ma quella volta lei urlava che era il suo turno. Mi sono arrabbiato, l’ho spinta giù dalla sedia e ha fatto un colpo di testa con una mattonella. Sette punti di sutura a lei, dieci frustate a me».
«Dieci frustate?»
«Sì. C’erano i guai da cinque e quelli da dieci frustate.»
La dottoressa chiude il taccuino e lo posa sul tavolino che li separa.
«Suo padre vi frustava con la cintura? Ed eravate voi a doverla prendere?»
Paolo non parla. Annuisce.
«Sua madre era d’accordo?»
«No, ma che doveva fare? Una volta litigarono per colpa mia. Mio padre me le aveva date così forte da farmi sanguinare. E non si limitò solo a quello. Mamma ce lo diceva sempre. Siete nati nella famiglia sbagliata. La prossima volta dovete nascere in una famiglia migliore, una di quelle che hanno tanti soldi».
«E i vicini? Nessuno ha mai sentito nulla?»
«Abitavamo in un cortile. I vicini erano i miei zii e mio cugino».
«E non hanno mai visto o sentito?»
«Zio Luigi usava la cintura e qualsiasi cosa gli capitasse a portata di mano. Io e mia sorella siamo stati fortunati…»
«…»
«Come si dice? C’è sempre qualcuno che se la passa peggio».
«Prima ha detto che suo padre l’ha picchiata fino a farla sanguinare. E che per questo motivo i suoi genitori hanno litigato. Ne vuole parlare?»
«Era la Vigilia di Natale, avevo undici anni. La cena era appena finita e costringemmo nostro padre a darci il regalo che teneva nascosto. Uno solo, per entrambi. Apriamolo ora! Apriamolo ora! Avevamo ricevuto un regalo. Troppo felici per aspettare la mezzanotte. E va bene, apritelo ora, disse mamma. Ricordo la sua faccia. Gli occhi, il sorriso, i capelli legati in una lunga coda. Me la ricordo come in una foto. Non so se mi spiego».
«Beh, ci provi. Mi faccia capire».
«Quando penso a lei, non riesco a ricordarmela intenta a fare qualcosa. In testa mi compare una specie di foto in cui sorride. Ha capito?»
«Sì, ho capito. E poi, cosa accadde?»
«Ci lanciammo sul pacco come due cani rabbiosi. Mia sorella aveva solo dieci anni e me la levai subito di dosso. Papà rideva. Una pistola ad aria compressa! Bellissima! No! Perché? Perché? Non è giusto! Stai zitta, scema! Tu sei scemo! Mio padre amava la caccia e le armi. Quando metteva i fucili sulla tavola per pulirli, me ne stavo immobile sul divano. Osservavo in silenzio ogni suo movimento. Volevo andare a caccia anche io. Volevo imparare a sparare. Lui era contento. Gli uomini vanno a caccia. Gli uomini sanno sparare. Sei contento? Domani andiamo in montagna e ti insegno a sparare. E sei fai il bravo, il prossimo anno ti regalo un bel fucile! Eravamo poveri, ma trovava sempre i soldi per le armi.. Mia sorella iniziò a piangere. Voleva i libri di Harry Potter. E chi è ‘sto Harry Potter? Ma a che ti servono i libri? Le femmine devono imparare a cucinare, a fare i servizi in casa. Hai i libri della scuola, leggi quelli. Stai con tua madre, tra poco diventerai signorina. Devi imparare a fare la femmina. Caricai la pistola e la puntai verso mia sorella. Volevo solo spaventarla, farla stare zitta. Mia madre si abbassò per farle da scudo. Perse un occhio per colpa mia».
«La visione di sua madre con un solo occhio la fa soffrire. Per questo riesce a immaginarla solo come in una foto. Sorridente e con entrambi gli occhi, immagino. È un processo di rimozione che la sua mente mette in atto per proteggerla. Lei si sente in colpa».
«Ovvio. Ho appena detto di aver sparato a mia madre, come cazzo dovrei sentirmi?»
«Me lo dica lei. Come dovrebbe sentirsi un bambino che spara alla madre con la pistola che ha ricevuto in dono dal padre?»
«Dottoressa, ma sfotte?»
«Sono serissima. Allora?»
«Sicuramente dovrebbe sentirsi triste. Insomma, dovrebbe stare male».
«Che strano. E il senso di colpa? Se l’è dimenticato».
Paolo resta in silenzio per qualche secondo.
«Dottorè, scusi, ma non capisco che vuole dire».
«Secondo lei, di chi è la colpa?»
L’ombra delle sbarre si proietta sul pavimento fino ai piedi di Paolo. Fuori, uno stormo di uccelli volteggia nel cielo.
«È stata colpa di mio padre. Ero solo un bambino…»
La dottoressa annuisce e gli fa cenno di continuare.
«La Vigilia di Natale sparai a mia madre. Si appoggiò alla tavola, poi svenne trascinandosi dietro la tovaglia con tutto quello che c’era sopra. Dolci, frutta secca e tutto il resto si sparpagliarono a terra. Mio padre iniziò a urlare. Mia sorella non capiva. Assisteva immobile. Era in trance. Io piangevo. Pezzo di merda! Ma che cazzo hai fatto? Urlava, imprecava, disse che mi avrebbe ammazzato.
«Diede la colpa a lei?»
«Già…»
«E poi, cosa successe?»
«I miei zii avevano sentito le urla e vennero a vedere che era successo. Zio Luigi se la prese con mio padre. Sei un coglione! Pezzo di merda! Hai regalato una pistola a questo scemo? Non rispondeva. Si era inginocchiato vicino a mia madre e le parlava dondolando avanti e indietro. Lucia, svegliati. Lucia, come stai? Zio lo spinse via, raccolse mamma dal pavimento e la caricò in auto. Partirono sgommando. Zia Teresa restò con noi insieme a mio cugino Stefano che da quando era entrato, vedendo quel macello, s’era seduto sul divano e piangeva.
Zio chiamò verso le due di notte. La stanno operando. Sta bene ma perderà l’occhio. Aspettammo un’altra chiamata che arrivò alle sette di mattina. Zia e Stefano ritornarono a casa».
Smette di parlare. Lo stormo disegna forme sinuose al di là delle sbarre.
«Vorrei essere un uccello. La vita deve essere più semplice da lassù. Lei ci crede nella reincarnazione? Mi piacerebbe rinascere in una famiglia di uccelli. Che ne dice?»
«Dico che sta divagando, di nuovo».
Lui sorride. E ritorna in silenzio.
«Paolo?»
«Non l’ho mai detto a nessuno».
«Che crede nella reincarnazione?»
«No, quello che è successo quando mio padre è tornato dall’ospedale. Arrivò verso le otto. Picchiò mia sorella perché fu la prima persona che si trovò davanti. Questa è la spiegazione che mi sono sempre dato. Si era addormentata sul divano, in cucina. Io ero rimasto sveglio tutta la notte. Volevo andare di là, volevo aiutarla. Invece mi nascosi sotto il letto. Le urla mi rimbombavano in testa. Ho sperato che qualcuno ci salvasse, anche se sapevo che nessuno lo avrebbe fatto.
Mio padre mi afferrò per le caviglie, mi trascinò sul pavimento e iniziò a picchiarmi. Penso di essere svenuto a causa di un pugno alla testa. Il rumore delle frustate mi risvegliò. Poi venne il dolore. Anzi, prima il bruciore, poi il dolore. Persi il conto delle frustate. A un certo punto, smisi di sentire dolore. Rimasi rannicchiato per terra. Mia sorella, non so dopo quanto tempo, venne a chiamarmi. Aveva il labbro spaccato e la faccia gonfia. Zoppicava. Capì di essermela fatta sotto quando mi alzai. Ripulimmo tutto. Preparai la colazione per entrambi. Mio padre si era addormentato.
Io e mia sorella non abbiamo mai parlato di quello che accadde quel Natale.
Quando mamma tornò dall’ospedale, dopo una settimana, mi sorrise. Mi aveva perdonato. Sapeva cosa era successo a noi. Finse di entrare in bagno per sbaglio, poco prima che mi facessi la doccia. Vide i segni. Vide il sangue rappreso. Iniziai a piangere. Anche lei pianse. E quella notte litigarono. Con lei alzava la voce, la riempiva di parolacce e capitava che la prendesse a schiaffi. Quella volta fu diverso».
Paolo si ferma. Chiude gli occhi e si aggrappa con le mani alla poltrona.
Passa un minuto.
«Paolo, come si sente?»
Si copre il volto con le mani. Piange.
«Va bene Paolo, va bene così. Quello che è successo non è colpa sua».
«Se l’è presa pure con lei, quel pezzo di merda!»
La dottoressa resta in silenzio. Sta per dire qualcosa, ma Paolo la interrompe.
«Mia madre gli disse che aveva esagerato, che non ce la faceva più a vivere col terrore che ci ammazzasse di botte. Doveva smetterla di usare la cintura. Lo avrebbe lasciato se non la smetteva. La prese per i capelli e iniziò a picchiarla. Schiaffi, pugni, calci…»
Paolo si ferma. Guarda fuori, lì dove prima volavano gli uccelli, ora c’è solo il cielo.
«Ha visto?» chiede alla dottoressa.
«Cosa?»
«Anche loro mi hanno lasciato indietro».
«Paolo…»
«Mia madre era debole per l’operazione… ha resistito fin quando ha potuto… poi è crollata a terra. E lui ha continuato».
Si ferma di nuovo. Scuote la testa. Poi si colpisce con uno schiaffo. Un altro ancora. Sta per colpirsi per la terza volta ma la dottoressa urla.
«Paolo! Ora basta. La deve smettere di punirsi per cose di cui non ha colpe. Lei era solo un bambino. Non è colpa sua se suo padre le ha regalato una pistola. Non è colpa sua se lei ha sparato a sua madre. E non è colpa suo se suo padre era un uomo violento. Ha capito?»
«Sa cos’è che più mi fa rabbia?»
La dottoressa sta per chiederlo ma Paolo ricomincia.
«Non aver potuto fare niente. Anzi no, non aver voluto fare niente. Mi sono bloccato. Che figlio di merda».
«Paolo, io non direi che -»
«Non davanti a loro! Non davanti a loro! Quella notte l’ho sentito respirare come un animale. Lei stava in silenzio. Ogni tanto si lamentava. Ha provato a resistergli. Allora non capivo, ora so…»
I due restano in silenzio per qualche minuto. Le guardie sono arrivate, attendono fuori.
«Paolo, cos’è successo? Se lei parlasse, potrebbe alleggerire la sua posizione. Si apra con me. Si fidi».
«Ho fatto quello che dovevo fare. Sarebbe stato meglio farlo prima».
«E il prossimo chi è? Lei?»
Si tocca le garze intorno ai polsi.
«Potrei rinascere aquila, non sarebbe male».
Il timer squilla.
Il suo tempo è finito.
Immagine generata con DALL-E
“a flock of birds in the blue sky, impressionist painting”