Millie

1.

Fu grazie a un pacco che iniziò la prima vera storia d’amore della mia vita.

Fino a quel giorno ero stato un collezionista di disastri sentimentali e proprio quell’insieme, composto di storie sognate e mai iniziate, desideri bramati e mai soddisfatti, e persone perse per strada che non avrei voluto perdere, mi aveva spinto, a nemmeno trent’anni, a buttare in cantina quel lato della mia esistenza.

Mi tenevo quindi aggrappato al mio mondo, che consisteva in un piccolo appartamento in affitto, modesto ma facile da pulire, un lavoro da corriere che mi permetteva di pagarlo e qualche serata con amici, quando capitava che alcuni di loro non fossero troppo stanchi per fare due passi di sera.

Quel pacco conteneva crocchette per animali. I miei itinerari tendevano a essere ripetitivi, perciò mi stupisco ancora oggi del fatto che, per quanto possa sforzarmi, non ricordi affatto visite precedenti in quel canile.

Varcai il cancello con l’allegria di chi, dopo essersi alzato alle sei, era già in giro da tre ore e doveva consegnare trenta chili di roba in un luogo che provava con tutte le sue forze ad apparire un minimo accogliente, ma l’odore era quello che era. Mi vennero incontro un paio di volontari, un ragazzo e una ragazza più o meno della mia età, e mi dissero di lasciare la merce vicino a dove iniziavano le gabbie.

Avevo appena sfilato il carrello da sotto il pacco, quando vidi un piccolo cane bianco avvicinarsi alle sbarre. Avanzava con un’andatura goffa e impacciata, ma sembrava determinato ad arrivare fin dove poteva; guadagnò l’inferriata, vi si appoggiò e, introducendo il concerto con una solenne pausa di due o tre secondi, iniziò ad abbaiare senza risparmiarsi.

Per me non era altro che l’ennesimo cane sfortunato che si lamentava della propria condizione nel solo modo che conosceva, ma i volontari si stupirono. Videro che lo avevo notato e mi spiegarono:

«È stata investita pochi giorni fa e ha perso una zampetta. Fino ad ora non aveva quasi mai camminato né emesso un fiato» la ragazza sorrise, «Non smettono mai di sorprenderti».

Ricambiai il sorriso con formalità, freddo corriere dalle giornate sempre uguali incapace di provare la loro stessa empatia. Poi il suo collega se ne uscì con:

«I cani scelgono i loro padroni. Dovresti adottarla!»

Il pensiero di prendere un cane non mi era mai passato per la mente, fino ad allora. Costretto a valutare una risposta in pochi secondi, mi resi conto che l’idea non mi repelleva, e che se c’era qualcuno a cui poteva giovare avere in casa un’altra forma di vita che non fossero gli acari, quel qualcuno ero io. Tuttavia, come spesso accade quando c’è da decidere su due piedi, scelsi di non scegliere e la buttai su un diplomatico “ci penserò”.

I volontari mi risposero con un “ok” cortese, che suonava più come “la solita storia, non si farà più vedere”. Non che mi interessasse farli contenti. E nemmeno la cagnolina, non a quel tempo, almeno. Diressi il carrello verso l’uscita e continuai il mio giro di allegria quotidiano. Sì, fu più o meno così che andò la prima volta che la vidi.

 

2.

La notte successiva fu inquieta. Mi giravo sotto la trapunta senza riuscire a prendere sonno. Forse riguardava il mio tormento personale: non avere la donna dei miei sogni sdraiata accanto. Poi però i quintali di merce distribuiti nelle ore precedenti ebbero la meglio e il mio poco dignitoso russare (ho scoperto di farlo quando ho smesso di dormire solo) si diffuse nella camera.

Volai via dal letto e atterrai in un parco pubblico, mai visto prima. Era rigoglioso, ben manutenuto, e pieno di gente che aveva portato il proprio cane a giocare o a liberare gli istinti, in ogni senso: alcuni raccoglievano bisogni col guinzaglio nell’altra mano, cercando di non perdere l’equilibrio; altri invece strattonavano le bestiole per impedire passionali sveltine.

Camminai lungo la via principale osservando animali e padroni, fino a giungere a un’antica fontana al centro del parco. Il bordo era costruito in modo da potersi sedere, e una persona ne aveva approfittato. L’anziana signora alzò lo sguardo e lo posò su di me; poi sorrise, facendo cenno di avvicinarmi. Mi sembrò così affabile.

Quando la accontentai, vidi che indossava un’uniforme o qualcosa del genere; pensai fosse un’infermiera. Sul lato sinistro del petto aveva una targhetta con scritto Millie. Mise una mano ad arco sul lato della bocca, e con l’altra mi invitò verso di lei. Doveva dirmi qualcosa all’orecchio. Mi chinai e sentii le sue strane parole: “se ti prendi cura di me, mi prenderò cura di lei”.

Un attimo dopo aprii gli occhi per colpa di Mick Jagger, che dallo smartphone cantava It’s only rock and roll but I like it senza alcun riguardo per il mio sonno.

Erano di nuovo le sei, e i pacchi mi aspettavano.

 

3.

Passò abbastanza tempo da dimenticare di essere stato in quel canile e di aver sognato l’infermiera Millie, e in quel periodo ero fresco dell’ennesimo investimento infruttuoso: stetti settimane dietro a una ragazza della quale mi ero infatuato e, cosa non banale per uno come me, riuscii a trovare il coraggio di invitarla fuori in tempi non biblici. Andò male, però, e il demone della solitudine e della sfortuna cosmica mi rimise la camicia di forza e mi riportò in cella. Ti sei illuso abbastanza, è tempo di rientrare.

Quando quel giorno lessi l’indirizzo della consegna successiva, non ricollegai subito. Non bastò nemmeno rimettere piede nel canile e mollare altri trenta chili di crocchette ai volontari (che non erano gli stessi della volta precedente). Ricordai solo quando la cagnolina, che era ancora in quella gabbia, si alzò e corse, per quanto poteva, contro le sbarre per salutarmi abbaiando, esattamente come l’altra volta. E, come l’altra volta, i volontari si sorpresero della sua temporanea vitalità e mi proposero di adottarla.

Furono le ferite che mi portavo dentro per l’ennesima delusione amorosa a darmi la spinta decisiva. Credo che il ragionamento fosse stato più o meno in fondo sembra quasi essere l’unica a cui importi qualcosa di me.

Quella specie di mantra caro ai padroni, se non hai mai avuto un cane non puoi capire cosa significa, mi era sempre parso esagerato se non quasi fanatico, l’iperbole di un sentimento che, per quanto sincero, non poteva avvicinarsi a ciò che si prova per un essere umano. Firmare i documenti che i volontari prepararono fu il primo atto del viaggio che mi portò a scoprire quanto mi sbagliassi.

Quando mi chiesero se le avrei lasciato il nome scelto da loro (che non ricordo, ma era così brutto che le avrei fatto un torto a non cambiarglielo) risposi che ci avrei riflettuto; è che insieme al ricordo della prima volta in canile era tornato anche il sogno della notte successiva e visto che, più la accarezzavo, più sembrava rilassarsi e divenire, come dire, affabile, la decisione era presa.

In macchina, al ritorno, lei era già la mia Millie.

 

4.

Sembrava che Millie mi avesse scelto davvero, perché in quei mesi, prima che tutto accadesse, non fu mai quella immobile e silenziosa che dicevano fosse in canile e che non avevo mai conosciuto, bensì quella intraprendente e gioiosa, incurante di avere solo tre ruote, e desiderosa di starmi vicino in ogni momento possibile, compreso quando lavoravo e la assicuravo sul sedile del passeggero del furgone con la sua gabbietta da viaggio, per poi sguinzagliarla durante le pause.

A Millie piaceva la musica. Ogni volta si sdraiava vicino alle casse del PC e poteva rimanere lì per ore, anche se non si può dire che i suoi gusti musicali fossero gli stessi dei miei, perché le piaceva anche altra roba che io non avrei mai ascoltato e che mettevo solo per lei, come Taylor Swift.

Rinunciavo a ore di sonno di cui avevo bisogno per portarla fuori e correvo al supermercato prima della chiusura per comprare le sue crocchette, sperando di non arrivare troppo tardi. E non mi posi mai il dubbio se farle fare una visita o risparmiare soldi, cosa in cui non nuotavo nemmeno prima che la adottassi, figuriamoci dopo.

Senza appartenere alla specie umana, fu la migliore insegnante che abbia mai avuto. Mi mostrò l’amore vero; capii che avevo passato la vita a inseguire l’amore delle favole. Mi spiegò, abbaiando e cacando, che avere qualcuno che si prende cura di te è fantastico, ma che prendersi cura di qualcuno è di più, che ciò che mi serviva era la consapevolezza di essere capace di dare, prima di sentirmi pronto a ricevere.

Durò circa sei mesi, i migliori che avessi mai vissuto. Non che non mi sentissi ancora solo, certe notti, ma il respiro regolare di lei che dormiva accanto al letto mi impediva di abbandonarmi allo sconforto.

Non me ne accorsi mentre accadeva, ma a dosi regolari di corse sgraziate, musica di dubbia qualità, feci da raccogliere in giro e passeggiate alle ore più improbabili, Millie curò il mio male.

Poi successe il resto e credo che Millie sapesse già che avrebbe aiutato anche qualcun altro.

 

5.

Il mio appartamento si trovava in periferia di una città grande abbastanza da conoscere a malapena un decimo dei paesani, in un complesso di palazzi vecchi ma non fatiscenti, più in basso rispetto al livello della statale che passava sopra; per uscire di casa dovevo quindi fare una salita sufficientemente ripida da scoraggiarmi dal portare Millie più lontano a fare i suoi bisogni; così spesso rimanevamo nelle stradine del quartiere, e così facemmo anche quella sera.

Da sotto non erano visibili le auto che sfrecciavano sulla strada, ma si sentiva chiaramente il motore e lo spostamento d’aria. Lì si correva come pazzi, tanto che consideravo di gran lunga l’ingresso iniziale sulla statale la fase più pericolosa del mio lavoro.

Stavo spiegando a Millie quanto fosse superficiale considerare il fenomeno grunge di Seattle come una stupidaggine da ragazzi scontenti e incapaci di apprezzare la vita, quando udimmo una frenata precipitosa, seguita da un botto. Dal rumore dei giri del motore capii che il conducente aveva lasciato l’acceleratore, ma poi lo schiacciò di nuovo sgommando e l’auto corse via verso l’uscita della città.

Pensai che avessero investito un animale. Millie iniziò ad abbaiare furiosamente. Le rimisi il guinzaglio e camminai svelto verso la salita. Mentre arrivavo al livello della strada notai che le luci delle finestre di alcuni palazzi si erano accese.

I lampioni illuminavano a sufficienza. Non vidi corpi ma detriti di macchina e alcune macchie di sangue sull’asfalto. Ipotizzai che l’animale ferito fosse scappato, ma per sicurezza iniziai a perlustrare il fossato accanto alla strada. Era buio e dovetti usare la torcia del cellulare.

Millie era sempre al mio fianco e fu lei a capire cos’era successo. Strattonò con una forza che non aveva mai avuto prima e mi trascinò al punto esatto. Lasciai cadere il guinzaglio, e Millie corse verso il corpo guaendo disperata.

Stesa sul prato c’era una ragazza con una giacca pesante; non si muoveva. Illuminai il suo volto. Dolce ma atterrito, con occhi azzurri spalancati e graffi su guance e fronte. Era più giovane di me.

Non la conoscevo ma la mia reazione spontanea fu piangere, perché pensai, appena la vidi, che non doveva andare così. Che non lo meritava. Che non doveva morire in quel modo, anche se non avevo idea di chi fosse.

Millie continuò a guaire girandole intorno, poi si avvicinò alle sue gambe: avevano un angolo innaturale, erano massacrate. Iniziò a leccarle le ferite. Ero paralizzato e non trovai la forza di allontanarla. Non sapevo se la sua saliva avrebbe potuto causare infezioni, ma la ragazza sembrava morta. Le mie lacrime scorrevano arrivandomi sul collo.

Poi emise un rantolo e diede un colpo di tosse. Non avevo nemmeno controllato che stesse respirando, idiota, ma ora lo faceva di certo. Era viva. Mi riscossi e chiamai i soccorsi, che mi spiegarono come sentire il battito. Era debolissimo ma c’era.

Aspettai accanto a lei con Millie. Sentivo voci lontane. Altri residenti avevano udito il botto e si stavano avvicinando. L’avrei protetta. Nessuno che non sapesse cosa fare doveva toccarla.

Mentre la guardavo, all’improvviso, spostò gli occhi su di me. Due o tre secondi. Poi finirono all’insù e perse i sensi.

 

6.

Per le gambe non ci fu nulla da fare: le perse dal ginocchio in giù. Il resto non si sapeva. Sofia finì in coma e, per chi le stava accanto, iniziò il calvario di non avere idea se ne sarebbe mai uscita e, se sì, come. Al tutto si aggiungeva la rabbia per il pirata fuggito e non ancora identificato.

Quella notte dissi ciò che sapevo ai carabinieri e non andai all’ospedale. Avrei voluto, ma mi sarei trovato davanti lo strazio della famiglia e degli amici, e io ero solo uno sconosciuto. Sentivo che sarei stato di troppo, magari anche d’intralcio.

Poi però, visto che ero stato il primo a intervenire e le avevo salvato la vita, andai a trovarla e conobbi i genitori e la sorella. Ebbi la sfrontatezza di sentirmi sollevato quando, per caso, venne fuori che non era fidanzata.

Cosa c'entravo io? Cosa volevo? Lei era addormentata in un letto senza metà delle gambe, e io pensavo a me stesso. O come al solito mi stavo innamorando senza nemmeno conoscerla?

Quando la rividi sembrava riposare con tranquillità. I graffi sul viso erano stati curati, ma da sotto le coperte era evidente ciò che non c’era più.

In tutto questo, Millie era sempre con me. Feci un permesso speciale per farla entrare. Un giorno, mentre ero seduto vicino al letto di Sofia, sgattaiolò dalle mie braccia, atterrando sul materasso e sdraiandosi accanto al suo corpo. Mi scusai e feci per toglierla, ma la madre sorrise e mi disse di lasciarla, perché Sofia amava molto i cani. Restò accucciata lì fino a sera.

Tornai ancora nelle settimane successive, ma le cose non miglioravano. Sofia dormiva e non si svegliava.

 

7.

Chi invece sembrava peggiorare era Millie. Stava cambiando. Non mi faceva mai mancare il suo amore, ma aveva perso la vivacità. Non sapevo se un cane potesse soffrire di depressione, ma sembrava che travolti da un’auto fossero finiti i suoi cuccioli e non un’umana sconosciuta. Scacciavo pensieri come questi cercando spiegazioni più logiche, come il fatto che fosse semplicemente triste perché lo ero io.

Iniziò a mangiare di meno. Non correva più e smise di abbaiare. La stringevo a me più di quanto avessi mai fatto prima (e prima la coccolavo già molto) ma non riuscivo a farla stare meglio. Non la aiutava nemmeno Taylor Swift.

Così mi decisi a farla visitare e le mie paure trovarono riscontro: Millie era malata. Tra me e lei si mise un carcinoma a uno stadio sorprendentemente avanzato, visto quanto poco tempo era passato dall’inizio dei sintomi. Le diedero circa sei mesi di vita. Aggiunsero che avrebbe potuto vivere anche di più, forse, ma soffrendo e, visto che giovane non era, significava condannarla a un supplizio solo per la mia incapacità di lasciarla andare.

Per giunta, Sofia era ancora lì nel suo letto. Eppure non riuscivo a rimpiangere la mia vita prima di loro. Una l’avrei persa presto, l’altra era intrappolata in un limbo di silenzio, e nonostante questo sentivo la mia esistenza piena come non lo era mai stata. Tutto pareva avere un significato. Mi resi conto che preferivo la sofferenza alla solitudine, il dolore al nulla e le lacrime all’indifferenza.

Non cambiai idea nemmeno quando, a una visita successiva, mi dissero che Millie stava peggiorando molto più del previsto e che era ora di iniziare a pensare al suo bene.

 

8.

Il giorno in cui Millie se ne andò era tutto pronto.

Sapere cosa ti aspetta non sempre ti prepara a ciò che devi affrontare. Se fosse finita di nuovo sotto una macchina il dolore mi sarebbe piombato addosso all’improvviso, e avrebbe almeno avuto il pregio di non spremermi l’anima minuto dopo minuto in attesa della fine.

Giunse il nostro turno ed entrammo. L’iniezione fu veloce, dopodiché il veterinario mi posò una mano sulla spalla e mi sussurrò che avevo tutto il tempo che volevo per salutarla. Lo ringraziai già in lacrime ed uscì.

Millie respirava molto lentamente come faceva già da tempo, ma sembrava molto più rilassata e tranquilla di me. Mentre singhiozzavo in attesa che colei che mi aveva spiegato l’amore meglio degli umani mi lasciasse per sempre, piazzò i suoi occhi nei miei come a volermi rassicurare. Era così affabile. Vidi qualcosa in quegli occhi che avevo già visto da qualche altra parte.

Poi le sue palpebre scesero e non tornarono su. Il suo respiro si fermò. I muscoli si lasciarono andare e le zampe penzolarono tra le mie braccia senza più forza. La strinsi a me e bagnai il suo dorso di lacrime. Rimasi così, cullandola, per un tempo che non saprei quantificare. Dieci minuti, forse quindici. Sapevo che staccarmi dal suo odore sarebbe stato forse peggio del momento in cui era morta.

Per questo maledissi con tutto me stesso il cellulare quando si mise a squillare in quel momento, il meno opportuno che potesse esserci in un’esistenza intera. E maledissi anche chi mi stava chiamando, chiunque fosse.

La suoneria non smetteva. Posai delicatamente Millie sul tavolino e lo tirai fuori dalla tasca, ma non feci in tempo a rispondere. Lessi il nome e, con un respiro profondo, revocai la maledizione mandata. Richiamai e mi scusai, spiegando dov’ero e di Millie.

«Mi dispiace tanto» disse con dolcezza la madre di Sofia. Poi le si ruppe la voce: «Ti stavo chiamando perché… è tornata. Pochi minuti fa. Non ci credo ancora, ma Sofia è tornata».

 

9.

Nel giorno più surreale della mia vita scoprii che si può piangere di dolore e ridere di gioia insieme, contemporaneamente. Possono coesistere alla perfezione. Soffrivo per Millie e poi ridevo per Sofia. Poi tornava Millie, e poi di nuovo Sofia, e io come un matto passavo da un estremo all’altro con disinvoltura, finché il desiderio di correre in ospedale ebbe il sopravvento.

Le mie mani si separarono da Millie per l'ultima volta. La coprii con un telo, tranne la testa, come se stesse dormendo. Le diedi un lungo bacio. Poi avvertii il medico e andai.

Vidi per prima la madre. Mi spiegò che non poteva ancora articolare parole ma che c’erano buone possibilità che avrebbe riacquistato la capacità di farlo. Inoltre sembrava espressiva e rispondeva alle domande con piccoli gesti.

Aprii la porta. Non era molto diversa dai giorni precedenti, però aveva gli occhi aperti e, seppur a fatica, li muoveva. E li mosse verso di me. Posai la mia mano sulla sua.

In quel momento mi chiesi se avesse capito chi ero, se ricordasse di quel momento in cui ero accanto a lei nel fosso sotto la strada, poco prima di svenire. Amai credere di sì ma non mi feci illusioni. Invece tempo dopo me lo disse lei stessa: mi aveva riconosciuto subito.

 

10.

L’amore non è facile. C’è sempre un prezzo da pagare, che di solito è una combinazione tra impegno, costanza e sacrificio. Per me e Sofia è stato così e anche di più.

Sono passati due anni da quando si è svegliata, il pirata è in carcere e io e lei stiamo insieme da un anno e sette mesi. Non ho mai saputo dire se la mia prima storia d’amore di cui parlavo all’inizio sia stata con Sofia o con Millie. Mi piace pensare che lo fossero entrambe.

Sofia è tornata a parlare e poi a ricordare, ma le sue gambe non avrebbero mai fatto lo stesso. Scoprire di essere mancante, come si definiva lei quando si odiava, la devastò. Puoi fare quello che vuoi, affidarti al sostegno di qualunque psicologo, leggere tutto sulla vita di Alex Zanardi, guardare cosa sono in grado di fare alle Paralimpiadi, ma non puoi risparmiarti il costo del periodo in cui rimpiangi un pezzo di te che non tornerà.

Non sopportava che toccassi o anche solo vedessi le sue gambe. Ci volle molto tempo prima che me lo permettesse, ma la notte in cui capì che io avrei baciato, toccato e amato ogni punto di lei qualunque cosa avesse o no, facemmo l’amore per la prima volta e poi piangemmo di gioia insieme.

Se ho sostenuto l’urto del suo dolore e della sua riabilitazione, lo devo a Millie. Se fossi stato ciò che ero prima di lei, sarei fuggito via dai momenti di disperazione di Sofia. Invece siamo ancora qui e siamo felici.

 

11.

La notte, se mi sveglio e non mi sento tranquillo, mi avvicino a Sofia e poso il mio viso sul suo seno, mi aiuta a riaddormentarmi. Anche se in certi casi, soprattutto quando fa caldo e lo trovo nudo, più che altro finisco a baciarlo, a scivolare sulla pancia e poi più giù, fino a convincerla a restare decisamente svegli.

Ieri, poco dopo essermi accoccolato a lei, sono tornato in quel parco pieno di verde, di gente e di cani. C’era la stessa fontana e, seduta sul bordo, la stessa affabile infermiera Millie. Solo che stavolta, sul suo grembo, c’era la mia Millie, che si lasciava accarezzare la pancia.

Ora, io ancora non so chi o cosa fosse davvero Millie, se un’infermiera, una cagnolina, un angelo o qualcos’altro che non potrò mai spiegarmi. Forse è stata tutta una suggestione, una coincidenza. Forse era solo una donna anziana, semplice personaggio di un sogno, o un animale che per puro caso è morto proprio mentre Sofia tornava a vivere, ma ricordo ciò che mi ha sussurrato stanotte all’orecchio, facendomi cenno di avvicinarmi come la prima volta: “hai mantenuto la promessa, e io ho mantenuto la mia”.

Immagine generata con DALL-E
“a little white dog is crouched at the foot of a hospital bed, realistic oil painting”