Menzogne e altre disfunzioni epatiche

Un rumore mi distrae, alzo gli occhi. No, non sono l’unico a cui piace stare al parco. 

Nessuno che rispetti la legge: mucchi di cani scorrazzano liberi. Con i loro nomi altisonanti, Holly, Terri, Gordon, e senza guinzaglio. I padroni sono donne e uomini di mezz’età, spettinati, mal vestiti. Con il brutto vizio di parlare a voce alta. Qualche ortica, qua e là, con un cocker spaniel; qualche ortensia, qua e là, con un labrador retriever.

Amano i cani, perché oltre ai cani nessuno li ama. Mentono. Sì, mentono a Darwin e all'evoluzionismo: i cani non sono che apparati digerenti a quattro zampe. Quelli sterilizzati, certo, e ovviamente quelli senza amputazioni.

Il cane non ti ama. Ama il cibo che gli compri al Carrefour e che mangia nella ciotola, qualche volta già dentro al Carrefour. Lasciati senza padrone non sono in grado di sopravvivere, neppure quelli del Carrefour.

I cani non si raccontano le palle a cui credono quelli che al Carrefour impiattano calamari giganti.

Il primo giorno negli alberghi è il più duro, fai fatica ad andare di corpo. Nel mio caso paga l'azienda e non mi sento in colpa.

Ogni piano ha la tappezzeria con le stesse proiezioni ortogonali: strette righe sbilenche, una più larga ogni tot, rombi su rombi, quindi stelle, ortaggi e altre situazioni. Nel corridoio e nelle stanze lo stesso motivo. Ogni piano sviluppa il tema cambiando combinazione cromatica. Al mio piano è toccato il mix viola-arancio-verde. Non che metta molta allegria. Al di là dei gusti, stare qui mi avvolge in un torpore inquietante. Hai presente quel personaggio che per sopravvivere a una bufera uccide il cavallo, passando la notte tra le viscere? Ecco, non ricordo dove l’ho letto. Gemmell, forse. Tu ne sai certamente più di me.

La pubblicità su Spotify parla di caduta dei capelli. Gli asciugamani riportano l’etichetta Made in Egypt: è la prima volta che leggo Made in Egypt nella mia vita, giuro. La gente ci si asciuga il culo dagli anni Ottanta. Perché poi proprio dagli Ottanta? La guerra dei sei giorni è del ’67. Non credo di sbagliarmi, nella mia famiglia siamo sempre stati filoisraeliani. Ho spesso vagheggiato di cavarmi un occhio per assomigliare a Moshe Dayan.

Le camere costano un botto. Ho incrociato molti sudamericani a colazione. E una ragazza, che avrei detto francese. No, solo l’accento, quindi poteva benissimo essere del Québec.

La cameriera che rifà le camere assomiglia a un’attrice porno di cui non ricordo il nome: ossuta, tra i trenta e i quaranta. Più verso i quaranta. C’è una certa differenza, sai. 

La cameriera della colazione è bionda. Efficiente, per lo più. E antipatica. Ne deduco che le probabilità che sia teutonica sono oltre il novanta percento. Come quelle che nasconda un piercing in qualche posto non visibile agli estranei.

Non mi aspettavo di rivederti, dopotutto. Nella tua casetta nuova, con il tuo nuovo taglio di capelli. Forse non avrei dovuto abbracciarti. Ti sei accorta che mi sono eccitato. Di queste cose ti accorgi sempre. Ho fatto la figura dell’imbecille.

La cena (sei un’ottima cuoca) si è svolta in un clima irreale. È come se non fossi più tu, come se non ci fosse più la nostra casa. Infatti è così: non sei più tu e non è più la nostra casa.

Il colore platino dei tuoi capelli rasati. O la pelle, ad esempio. L’appartamento senza TV, piccolo e “smart”, non quello fatiscente, pieno di angoli, di scarpe o di stanze vuote, come quella lasciata dall’ingegnere nella quale campeggiava il poster solitario di Ariel Ortega con la maglia del River, assi da stiro, lavatrici e balconi lunghi dove fare interminabili aperitivi ribollenti di tonica, gin e vino da quattro centesimi. Dove facevi l’amore, qualche volta anche con me.

Hai esibito la tua voce da attrice impostata, impreziosita dalla tua vivace ortoepia, nella cucina che ti hanno lasciato i vecchi proprietari, millantando progetti e situazioni inesistenti: la solita bugiarda, che nasconde la vergogna della sua carriera in stallo. 

Invecchiato, ingrassato, sudato: eccomi a te, il provolone.

Avvertivo con disgusto l’odore del mio derma. Ho camminato un’ora per essere puntuale. Non mi sono mai fidato dei mezzi in questa città. E non mi andava di beccare una multa. Biglietti finiti, mi hanno detto in due edicole. Solo in questa città finiscono i biglietti.

Quando stavamo insieme non si fumava: gargarismi al Campari, già non più giovani e anche un po’ patetici. Adesso siamo diventati astemi (problemi di salute a puttane per me, problemi di carriera in stallo per te), ma quante sigarette piovono dal cielo: Marlboro rosse nelle tue vene, Chesterfield blu tra la mia forfora.

Cosa c’entra tutto questo con la tua assurda idea di mollare l’ortodonzia e riprendere la danza classica a quasi quarant’anni?

C’è un grande specchio dietro al letto, luci a picco sulla fronte, e un sistema antincendio che dubito sia funzionante. 

In questo odore di lenzuola pulite, che mi cambiano ogni giorno (anche queste Made in Egypt. Fa ridere, vero?), in barba al riscaldamento globale e alla normativa che impone di lavare meno la biancheria negli alberghi, rivedo i tuoi peli in quella camera imprigionata tra i palazzi, in quel lurido motel, dove il mare si poteva vedere solo proiettandosi dalla finestra, rischiando di cadere.

Quel mare denso e scuro, come una minestra di farro.

Qualcuno mi ha lasciato un biglietto tra le lenzuola. Deduco dall’ortografia che sia stata la cameriera che ho incrociato al piano. Non è una dichiarazione d’amore, no, ma una semplice offerta di prestazioni. Supplica la massima discrezione, anche se sono certo che alla reception sappiano tutto e si piglino la percentuale. Il prezzo è buono: costa come le orientali, un po’ più delle nigeriane, molto meno di una slava, sempre che nessuno si offenda se definisco le albanesi slave. Rispondo, nei modi che mi ha indicato, per vederci questa notte, qui.

Quando arriva è gentile, ben vestita. Con uno stile tutto suo che la fa sembrare più giovane di quello che le rughe intorno alla bocca confessano. Si spoglia, senza imbarazzo. Io non alludo, né estraggo il denaro pattuito e lei non me lo chiede. Da Spotify esce una canzone di John Frusciante: la musica la scelgo io. Lei non fa una piega. Potrei mettere Béla Bartók o Bette Davis Eyes, e lei continuerebbe a non fare una piega. Ha un bel corpo, tutto sommato. Niente seno, le costole in mostra, i capezzoli scuri. Spalle dritte.

Culo e fianchi da dimenticare.

Oggi sono andato in un bar, oltre il fiume. Mi sono fatto due birre medie alle quattro. Non il massimo per chi è nelle mie condizioni. Non ricordo chi ha detto che l’alcolismo è il modo di suicidarsi dei vigliacchi. Ho detto che ho smesso di bere? Dài, mentivo. Dopo ho fatto fatica a camminare: cadevo. Borracho, Siempre voy descontrolado, Vamo’ a ver al Millonario, Vamo’ a ver al tricampeón! I giovani queste cose non le capiscono.

Rido quando mi giurano che non dimostro cinquantacinque anni. Per forza, ne ho tre in più. Dentro sono guasto. Fegato, colon, vertebre e prostata, una gamba più lunga dell'altra.

Dopo aver scolato l’ultima birra, mi è scappato un rutto. Non l’ho fatto apposta, credimi. Superati i cinquanta fatichi a contenere: tubature scadenti, tappi usurati. Una coppia di spagnoli, con la puzza sotto il naso, è andata via, disgustata. Due russi dietro di me hanno riso. L’Europa riassunta in un rutto.

Al posto degli spagnoli si è seduta una coppia di inglesi. Orrendi, come solo gli anglosassoni sanno essere. 

Mentre ero lì, stordito dal caldo e dall’alcol, ho pensato che avrei preferito essere violentato dai russi che leccarla alla lady d’oltremanica. Nel caso se ne fosse presentata l’occasione e avessi potuto scegliere.

La cameriera ha il pube rasato. È flaccido e ciondola. Si sdraia vicino: un corpo estraneo e bollente. Ha l’alito che sa di frutta. 

Allunga la mano e mi sfiora l’uccello, che non dà segni di vita. Mi sembra di avere un mollusco tra le cosce. Ma lei è brava, toglie la mano dal cazzo e accarezza il petto, mi lecca il collo, le labbra, mi ricopre di saliva zuccherina. Il membro si indurisce, mi sbrigo e la penetro, prima che si perda l’erezione: sono sorpreso da quanto è bagnata. 

Uso il suo corpo per venire. 

Mi accascio, ansimante. Nello specchio dietro al letto intravedo il mio riporto scomposto: mi viene da vomitare. 

Lei rimane vicino e mi accarezza. 

Dopo mezz’ora dice che possiamo rifarlo, se voglio. La sua voce mi fa stare meglio. Vorrei che non se ne andasse. Poi si infila una mano tra le gambe, mentre mi soffia sulla barba. Mi spalma la mano sotto il naso e, benché lo faccia con dolcezza, il gesto mi disgusta. O forse è l’odore, l’odore della mano che si è messa tra le cosce. L’odore ortofrutticolo che senti quando smontano il mercato.

Le chiedo di andarsene. Si riveste, dopo essere stata un po’ in bagno. 

Prendo il portafoglio, mi faccio trovare vicino alla porta con quello. Non dice niente, estrae due banconote, lasciando le altre.

Riempio la vasca. Acqua bollente. Clicco il pulsante per far partire l’idromassaggio. Non succede nulla. 

Mi immergo, come un uovo da fare sodo. Vorrei concludere con una doccia gelata, che dopo il bagno bollente potrebbe provocarmi un infarto: non sarebbe un brutto modo di andarsene. Meglio di quello che mi è stato diagnosticato. 

Poi però penso che, con la pressione alta che mi ritrovo e il passaggio caldo/freddo, mi verrebbe un ictus e rimarrei su una sedia a rotelle a sbavare per il resto dei miei giorni.

Niente doccia gelata, quindi.

Torno a letto. L’odore di verdura è svanito. 

Tiro fuori un libro preso al mercatino, Revolutionary Road. Ci hanno fatto pure un film, con DiCaprio e la Winslet. Non l’ho mai visto.

La Winslet è l’attrice più sopravvalutata di Hollywood. Credo lavori tanto perché è grassoccia. Piace alle donne che si sentono brutte.

A te lei non è mai piaciuta. Anche se pure tu non ti sei mai piaciuta. Non so più quello che ti piace, non l’ho mai saputo.

Vengo a pranzo da te, prima di ripartire. Vorrei comprare un mazzo di fiori, poi mi vergogno. Tu sei lì con i due rumeni che ti hanno portato il divano nuovo. Sono maleducati: forse perché stai al quinto piano? Quando se ne vanno, faccio qualche battuta vagamente razzista, qualcosa tipo «Ecco i rumeni di qualità!». 

Sento il tuo disprezzo cadermi addosso come merda di gabbiano. Hai ragione, sono un vile. Avresti preferito che glielo avessi detto in faccia, come un vero uomo, tipo tuo padre, che ne fosse scaturita una rissa, davanti a te, che mi avessero rotto l’uretra a forza di calci e ginocchiate, lasciandomi esanime in un lago di pantaloni fragranti.

Il pranzo è cattivo.

Prima di partire tocco l’argomento della nostra relazione e litighiamo. Cioè, tu litighi con me. Io subisco, che posso fare? Mi attardo e perdo il treno. 

Decido di fermarmi un’altra notte nello stesso hotel, a spese mie. Mi danno una nuova camera. Questa è blu-marrone-gialla, più piccola. La cameriera torna a farmi visita. Mi va bene pure il suo odore di broccolo. Meglio che stare solo. Comincia a succhiarmi, resto molle e mi addormento. Il giorno dopo il treno è puntuale, lascio questa città in orario.

Sono seduto al parco. Ho il libro e vorrei finirlo: April resta incinta, ma c’è troppo sole. Indosso il cappotto, ho caldo e non riesco a leggere.

Una donna con un cane, un incrocio tra un pitbull e un ornitorinco, è in mezzo al prato. Non è carina, non è giovane, ma ha le gambe toniche. Il cane la tira verso di me, è il doppio di lei. Ha uno sguardo triste, il cane. Pure lei. Alla fine mi lecca una mano, il cane. Quella che tiene il libro. Lei dice che il cane si chiama Alex e vuole fare amicizia. 

Mi piacciono i suoi capelli, sono puliti. 

Ci mordiamo sul collo, io e lei, come se niente fosse, come vecchi e stinti mammiferi, dietro ai cespugli. Il cane fugge e qualcuno lo cucinerà dentro a un cheeseburger: i barboni lo mangeranno tra i rifiuti. Io morirò prima di questa donna. E lei troverà un altro. Poi moriranno anche loro.

Immagine generata con DALL-E
“a hopper-style painting of a small, antiseptic hotel room with purple, orange and green diamond-patterned carpeting”