Io è un altro
Ogni volta che Bernardo ci tira fuori da un guaio, tutti noi ci mettiamo in ginocchio e gli facciamo la serenata dell’amicizia, giurando e rigiurando che non lo faremo più, che si è trattato di un’emergenza, bla bla bla. Bernardo ormai è abituato e non risponde nemmeno. Io dal canto mio trovo inutile dover montare ogni volta questo palcoscenico, primo perché non ci crede nessuno, Bernardo compreso; secondo perché nella maggior parte dei casi, generoso com’è, lui interverrebbe anche senza che lo pregassimo.
Prendiamo il caso di Diego. Come fai, se poco poco gli vuoi bene, a non volerlo aiutare? Quasi due anni fa Diego ha perduto sua sorella maggiore Selene per un aneurisma. La poveretta stava camminando per strada ed è cascata in terra, morta – niente sintomi e nessun preavviso, praticamente un avada kedavra. I due erano molto legati – Diego è stato praticamente cresciuto da lei – e la perdita non è solo irreparabile; è anche stata sentita con molta forza, nel senso che Diego all’inizio lo hanno proprio dovuto ricoverare alla neuro perché delirava. Poi lo hanno dimesso e ci siamo detti che cominciava l’elaborazione del lutto; ma dopo due anni è chiaro a tutti che qualcosa in questa elaborazione si è inceppato. Diego non riesce ad accettare la perdita. Il dolore si sveglia con lui ogni mattina, lo rende pallido, gli toglie il sonno o glielo appioppa per intere giornate, gli rende difficilissimo concentrarsi sul lavoro e lo lascia indifferente o disgustato da tutte le cose che prima gli piacevano. Ha provato con la terapia, coi farmaci, un paio di volte anche ad ammazzarsi, ma la situazione è rimasta invariata. Ne parlavamo proprio poche ore fa a cena, e mio cugino Tommaso se n’è uscito che a questo punto bisognava proprio sollecitare Bernardo.
Ho provato a oppormi, ma senza troppa convinzione. Non potevo fingere che Diego non fosse ridotto al lumicino. Ci siamo divisi in due gruppi: io e Tommaso siamo andati a prendere Diego a casa sua, gli altri a casa di Bernardo.
Diego era murato in casa da tre giorni e non è venuto ad aprirci la porta; ma l’ha lasciata aperta, come fa spesso di recente. Il pavimento era appiccicoso di birra e ci si camminava a malapena per via dei vestiti, che Diego non lava più e non mette più negli armadi. Lo abbiamo trovato riverso sul pavimento, tramortito da un paio di bottiglie di bianco – aveva vomitato sul tappeto pochi metri più in là. Lo abbiamo rialzato, lavato e vestito alla bell’e meglio e gli abbiamo spiegato, mentre mugolava, che lo portavamo da Bernardo. Non ha opposto resistenza, ma ci ha chiesto più volte di poter morire, come se dipendesse da noi. A forza di buttargli in faccia acqua gelata, è riuscito più o meno a camminare, e docilmente si è lasciato condurre fuori da casa sua, nel freddo della notte di dicembre.
Viviamo più o meno tutti, noi amici di Bernardo e Diego, in un quartiere residenziale. Il giardino di un condominio si confonde con quello successivo, separati a volte solo da siepi di rampicanti e file di faretti bassi che illuminano i sentieri di pietra. Il vento veniva da nord e ci soffiava alle spalle. Reggendo Diego, io da un braccio e Tommaso dall’altro, abbiamo camminato con fatica nella semioscurità; alla luce dei lampioni si vedevano ragnatele che danzavano al soffio gelido. Incontriamo finalmente gli altri amici, in cappotto e col fiato che gli svapora dalle bocche, davanti al portone porta del condominio di Bernardo.
«Ciao Francesca, ciao Tommi» ci saluta Filippo appena si accorge della nostra presenza; e corre a reggere Diego: «Come va qui?»
«È conciato male» rispondo io.
«Madonna che puzza. Quanto ha bevuto?»
«Non voglio saperlo».
«Ragazzi, c’è Bernardo».
Ci voltiamo all’unisono, come i dinosauri di Fantasia quando si accorgono che fuori scena è arrivato il tirannosauro. La telecamera, per modo di dire, slittavorticosamente verso destra fino ad inquadrare il mostro a bocca aperta, immobile tranne per il respiro affannoso. Nel nostro caso, è un innocuo Bernardo a comparire sulla soglia del portone di casa sua, con la luce dell’ingresso accesa dietro di lui che lo rende una sagoma nera.
«È ridotto proprio male», lo sentiamo dire con la sua voce bassa.
Allude a Diego, che in quel momento alza la testa, arriccia il naso e dice:
«Berni…?»
Poi la testa gli crolla di nuovo verso il basso. Se non fosse attaccata al collo, l’avremmo vista cadere a terra. Bernardo ci viene incontro con flemma.
«Ci è venuto in mente di chiamarti, così, all’improvviso» si scusa Filippo, «perché insomma, vedi bene che ormai la situazione è ingestibile».
«Lo vedo» risponde Bernardo avvicinandosi a Diego. «Volendo, potevamo anche parlarne prima. O poteva venire in mente a me di aiutarlo, senza che doveste mettervici voi. Questa vita quotidiana ci fa tutti egoisti»
Ora è davanti a noi tre. È alto, robusto, ha riccioli biondi che gli cadono sulle spalle e un cappotto di lana. Copre le mani con due guanti neri di pelle.
«Ciao Francesca. Ciao Tommaso. Diego, mi senti?»
Diego non risponde.
«Lo abbiamo trovato così. È sbronzo fracico, mi sa» spiega Tommaso.
«Non devi dire di essere egoista» intervengo io. «Questa cosa ti costa fatica. Non possiamo aspettarci che ti venga in mente di farla così, come fossero confetti»
«Che questa cosa sia faticosa, è un eufemismo» risponde Bernardo. Poi si toglie i guanti e apre le braccia.
«Lasciatelo a me».
Ci allontaniamo verso gli altri amici, che hanno fatto capannello tutt’intorno. Con delicatezza, Bernardo abbraccia Diego e si inginocchia, appoggiando la testa di lui sulla sua spalla. Pare che stia a sentire la sua confessione, e il paragone non è così a sproposito. Le cose intorno a noi iniziano a pulsare. I vasi conduttori all’interno dei tronchi lampeggiano di un blu intenso. Diego viene ricoperto da una sagoma di luce, che libera scariche elettriche in cielo come fuochi d’artificio; Bernardo a sua volta comincia ad accendersi come un fornello a gas, fiammella dopo fiammella; e tanto più acquista luminosità, quanto Diego ne perde. Tutto quello che Diego butta fuori viene assorbito da Bernardo, che pare farsi più grosso e indistinto; i due tapini fumman come man bagnate il verno, e l’atmosfera intorno si fa rovente. Nel giro di pochi minuti Diego è tornato una massa umana buia e fumante, e Bernardo brilla come una cometa. È in quel momento che lo spinge lontano da sé, e arretra, muovendosi carponi come una lucertola, fino a scomparire nel portone del condominio.
Tutti gli amici si buttano senza esitazione su Diego, riverso per terra; lo aiutano a rialzarsi. Ha gli occhi spalancati, si porta la mano alla testa.
«Come ti senti, Diego?»
«Leggero» risponde. «Non capisco».
«Cosa non capisci?»
«Il dolore. Il dolore non c’è più».
Ci vuole un po’ perché accetti anche nel suo cuore, non solo razionalmente, che ha elaborato il lutto. Merito di Bernardo, che ha accelerato il suo metabolismo neurologico, o così lo chiama lui, costringendolo a passare attraverso tutte le fasi che Diego da anni non riusciva nemmeno a cominciare. Naturalmente il dolore non se n’è veramente andato; ma come accade per tutti noi, ognuno a suo tempo, si è fatto tenue, sopportabile – e non è più un ostacolo a che Diego sia felice di nuovo.
Io e Tommaso ci scambiamo uno sguardo.
«Andiamo a vedere come sta Bernardo?» chiede lui.
«Ci mancherebbe» rispondo io.
Andiamo ad abbracciare Diego, ci raccomandiamo con gli amici di tenerlo ben coperto e di portarlo a riposare a casa sua.
«E chiamate qualcuno a pulire quel merdaio» aggiunge Tommaso, che ha un debole per le case pulite.
Bernardo ha lasciato aperto il portone del condominio. Nell’androne che di solito è buio pare stia nascendo una nuova stella. Non riusciamo a guardare Bernardo, raggomitolato sotto la scalinata che conduce ai piani, senza coprirci gli occhi. Non solo è in fase di brillamento a dieci, forse ventimila lumen; ma sfrigola pure come un pesce che frigge nell’olio. Quando finalmente la sua luminosità diminuisce e riusciamo a guardarlo, ci accorgiamo che è in posizione fetale, le mani davanti alla faccia. Il cuore, il fegato ed il cervello sono tre masse di colore rosso che pulsano all’interno della sua struttura corporea fatta trasparente. Bernardo ci ha spiegato che il processo di denaturazione e assorbimento della sofferenza altrui somiglia a quello che il fegato utilizza per liberarsi dell’alcool, l’alcol-deidrogenasi. Anche in questo caso il fegato ha un ruolo. Ma la fatica maggiore la fa il cuore, che vediamo battere come sotto intenso sforzo. Lentamente la luce smuore, il fegato e il cervello tornano opachi e il corpo di Bernardo, solido; ma quel cuore che batte all’impazzata è sempre lì, nel suo petto trasparente. Apre gli occhi e si accorge di noi.
«Non voglio che mi vediate in questo stato» mormora.
«Ci preoccupiamo per te» rispondo io.
«Possiamo aiutarti? Riportarti a casa? Magari prepararti qualcosa?» chiede Tommaso.
Bernardo si rialza a stento; lo sorreggiamo e lo portiamo fuori dal sottoscala.
«Vorrei che mi lasciaste solo. Molta della roba di Diego è ancora in circolo, sentite il battito?»
E si tocca con indice e medio la vena del polso.
«Troppo forte. Non sta calando. C’è ancora da smaltire. Gli effetti possono essere complicati».
«Non possiamo proprio fare niente, a parte andarcene?»
«Potete accompagnarmi fino al mio appartamento. Sono molto debole. Una volta lì, non avrò bisogno di nulla. Solo di riposare».
Ma non riusciamo a fare due passi verso l’ascensore, che Bernardo recupera una forza insospettabile, e ci spinge via entrambi.
«O forse mi riposerò nella bara», esclama, gli occhi spalancati. «Via. Via tutti! Mi togliete l’aria».
Saetta verso il portone del condominio, lo riapre, si dilegua nella notte.
Gli corriamo dietro, cercando di non farci seminare. Bernardo svicola di sentiero in sentiero, salta siepi a pie’ pari, approfitta di rotture nelle reti per infilarsi dentro altri giardini lasciandosi dietro il cappotto impigliato. Intanto si sbraccia come un pupazzo gonfiabile al vento, urlando frasi senza senso come sensibile decremento ubiquo, permette Contessa e una marcia in fa, una marcia in fa, una marcia in fa maggior.
«Ma che sta dicendo» ansima Tommaso mentre corre.
«Roba di Diego» rispondo io, sempre ansimando. «Ricordi che suona il piano?»
Bernardo prende la discesa verso Via Schirinzi, dove c’è un porticato che conduce al santuario della Madonna del Buon Consiglio. Il porticato è a due piani; un piano terra, all’altezza della strada trafficata, e un piano superiore, sempre a colonne, cui si accede tramite diverse rampe di scale, ciascuna dietro una nicchia nella parete. Le luci dei bar, delle gelaterie e dei negozi sono ancora accese e Bernardo prende immediatamente a correre sotto il portico, doppiando i passanti con urla da belva, spesso fermandosi e provando a spaventarli. Una signora che spinge un passeggino gli rompe in testa un ombrello, ma Bernardo non sembra darsene pensiero; continua a correre, e noi dietro. Superiamo i negozi ancora aperti e il porticato diventa buio. Uno dopo l’altro ci scorrono a destra le rientranze del muro dove le icone della Vergine sono appese e circondate di candeline.
«Una marcia in fa, una marcia in fa, una marcia in fa maggior» ulula Bernardo.
«Bernardo fermati, per carità» urlo io. Tommaso fa di meglio:
«Diego, fermati!»
A sentire quel nome, Bernardo si blocca. Ci fermiamo col fiatone e le mani sulle cosce.
«Diego, bisogna che ti fermi, ti schianterai il cuore» rantolo io. «Perché non ci sediamo qui sotto il portico?»
«No no, guai a fermarsi» replica lui cominciando a saltellare. «Ci viene freddo. È dicembre. Sapete che l’altroieri ho fatto cento flessioni con un braccio solo?»
E ci mostra i bicipiti. Non c’è pezzo del suo corpo che tenga fermo.
«Vado in palestra quattro volte a settimana. Sono insaziabile. Mi ha convinto Selene. Viene anche lei con me».
Non sappiamo che rispondere.
«Ma non parlo quasi mai con nessuno» aggiunge, «perché sono tutti dei boriosi insopportabili. Poi andiamo a cena io e Selene».
Tommaso abbassa gli occhi.
«Venite anche voi in palestra? Così vi fate il fisico. Personalmente mi diverto di più a suonare il pianoforte, ma sono gusti. Una marcia in fa, una marcia in fa, una marcia in fa maggior».
Riprende a correre, e noi dietro, spompi e pieni di acido lattico. Ad un certo punto però si ferma sgommando sulle suole delle scarpe, e urla al cielo notturno:
«È morta!»
Comincia a roteare su sé stesso da fermo, ogni volta sbilanciandosi e andando a sbattere contro un muro, una colonna, un bidone della spazzatura:
«Girava le pagine dello spartito – è importante quando cominci – cantare, no – ma sarebbe stata brava – io sapevo che non amava il suo primo ragazzo – il giorno del suo colloquio in ditta aveva un dildo in borsa, portava fortuna – girava le pagine del mio spartito ma glielo chiedevo sempre per fa – vo – re»
Esausto, si inginocchia ed è percosso da conati. Tommaso tira fuori un pacchetto di fazzoletti, io cerco di tenergli la fronte mentre vomita. Sento la percussione compatta delle sue pulsazioni e non capisco, con questa pressione, come faccia a non scoppiargli qualcosa. Ma appena sente il mio tocco si rialza, mi spinge via, e si dilegua nelle tenebre di una nicchia laterale, dove si vedono delle scale.
«Ha la forza dei matti» commenta Tommaso. «Non pensa a quello che fa».
Sentiamo le urla di Bernardo sopra di noi:
«Morta, morta, morta!»
Allunga le vocali in un sinistro ululato. Provo a imbucarmi anch’io sopra le scalette, e Tommaso dietro di me. Salendo una scala di pietra a chiocciola nelle tenebre fitte, arriviamo al secondo livello del porticato, anch’esso in pietra. Dalle ampie arcate del portico si vede la strada per il santuario, le ville addormentate dall’altro lato, e il resto della città illuminata nella notte. Ci guardiamo intorno frenetici, in cerca di Bernardo. Lo troviamo in piedi sull’orlo di un pennone di pietra che si protende sulla strada, e regge un lampione. Bernardo si tiene in equilibrio su un piede e ha le braccia orizzontali, come in croce. Continua a ululare.
«Se cade, lo salviamo?» chiedo io.
Tommaso guarda in basso.
«Siamo a sei, sette metri dal suolo. E qui sotto c’è l’asfalto. Se cade di testa è fatta. Forse se cade di piedi o di gambe si rompe solo qualcosa ma non crepa».
«Purché non lo metta sotto una macchina».
«O un autobus!» esclama Tommaso. «No no no, bisogna che lo riacchiappiamo».
Bernardo si volta verso di noi. Poi siede sul pennone e lo vediamo fissare il vuoto. Lo chiamiamo ancora e ancora: non risponde. Provo a strisciare sul pennone per toccarlo; lo raggiungo, lo pizzico, lo schiaffeggio, gli tiro i capelli, ma non si muove e continua a fissare il vuoto senza nemmeno chiudere le palpebre. Ecco che ad un certo punto richiude gli occhi e sembra accasciarsi. Tirandolo per il collo, e aiutata da Tommaso, lo trasciniamo sul mezzanino. Pare svenuto: gli mettiamo sopra il cappotto. Ha ancora tracce di vomito attorno alla faccia.
«Io chiamo un’ambulanza» annuncia Tommaso.
«Però bisogna che lo portiamo giù dalla scala».
«Ci aiuteranno loro. Non è che possiamo fare i mira-»
Bernardo apre gli occhi e comincia a gridare. Stavolta non sta dicendo alcunché, sta solo gridando, ed è come preso da convulsioni. Gli sento il cuore: batte sempre forte, ma non è più esplosivo come prima. Faccio il tentativo:
«Berni, calmati. Stai calmo. Sei con noi ora».
Bernardo sembra riconoscerci.
«Franci. Tommi» dice con voce roca.
«Berni, ti ricordi cos’è successo?»
Si concentra, fa una smorfia:
«Ho aiutato Diego e ho sbroccato».
«Bravo».
«Ho mal di testa» aggiunge con un’altra smorfia.
«Ho del brufen nello zaino» commento io.
«La solita figura di merda» sussurra Bernardo.
«L’ultima cosa che devi fare è sentirti in colpa» lo ammonisce Tommaso. «Te l’abbiamo ripetuto cento volte. Non puoi farci niente se quando aiuti qualcuno, finisce… finisce così, ecco».
«Io direi che è una vera e propria violenza, questa che ti lasci fare» aggiungo io, porgendogli la pasticca e la mia bottiglietta d’acqua. «Passi l’episodio manico, che ti dà molto disagio. Ma oggi veramente non ti si calmava il cuore. Quanto puoi resistere così senza diventare cardiopatico?»
Gli occhi di Bernardo, inghiottito il brufen, iniziano a riempirsi di lacrime. Veniamo frustati dal vento notturno. Tommaso chiama l’ambulanza.
«Ti senti di alzarti e scendere? Altrimenti facciamo salire la barella qui».
Berni scuote la testa e mi fa cenno di avvicinarmi. Poi mi dice all’orecchio, a bassa voce:
«A un certo punto Diego è stato riassorbito. Ma non sono tornato subito io. Sono rimasto lì, un corpo senza cervello, solo le funzioni essenziali, il cuore, i polmoni – basta. Diego se n’era andato, ma Bernardo non tornava. C’era solo un pizzico di coscienza, giusto per rendersi conto vagamente che ero lì».
«Berni…?»
Mi afferra per la collottola, digrignando i denti in una smorfia assassina.
«È come essere morti» mi dice, «solo che sei lì per saperlo. Sei presente alla tua assenza. Sai che non ci sei. Ho visto com’è essere morti, Fra. So cosa c’è dopo».
Mi lascia la collottola.
«Non c’è niente. Neanche l’orrore».
Scrivere un romanzo significa rinunciare al sonno dei bambini e abbracciare un costante stato di semi-veglia alla ricerca del termine perfetto, della costruzione stilistica che soddisfa, dell’ascolto di quella voce che sussurra – più spesso, urla – e che ruba il riposo.
Immagine generata con DALL-E
“a shadow of a tall and imposing man emerges from the door of an apartment building surrounded by its own light, oil painting”