Ilomilo
Le dita di A picchiettavano sulla tastiera con il procedere delle stagioni, avvolte dai guanti a rete che di tanto in tanto le chiedevo di indossare, sembravano vivere di un’intelligenza propria, rispondere alla voce di un navigatore interno – voce del verbo dovere, voce del verbo dover incontrare me. Quel giorno pioveva, ma questo dato per A non aveva alcuna importanza. Mi aspettava nella stanza viola, mi vide non appena ebbi effettuato l’accesso, mi vedeva sempre prima lei. È che a differenza degli altri profili indossavo uno sfondo nero, in un universo indefinito e multicolor se mantieni la stessa forma sei più evidente. Muoviamoci da qui, digitò le lettere avendo l’accortezza di distribuirle in verticale; era ossessionata da quelle pratiche di nascondimento, la sua più grande paura era deludere S. Lo aveva incontrato in Giappone quattro anni prima, erano a Tokyo per una manciata di giorni ognuno per una ragione diversa. La notte dopo avergli parlato per la prima volta nel ristorante dell’albergo aveva iniziato a sognarlo, e in poco tempo le loro anime erano andate incontro a una fusione. Ne parlava come di una specie di miraggio, una ricompensa di fronte a cui l’aveva messa il destino. Qualcosa che avrebbe voluto durasse il più a lungo possibile. Questo non le aveva impedito di trovare me.
Ci spostavamo di continuo, ci fermavamo il necessario. Quel giorno il necessario era stato nello spazio ricavato tra la stanza gialla e la stanza rosa. Una parentesi, dove dopo un silenzio bianco avevo digitato le quattro lettere. Immaginai A tornare alla sua vita la sera, chiudere il portatile e ringraziarlo perché non avrebbe parlato. S non faceva domande.
«Sono molto stanco» le accarezzava i capelli un attimo prima di abbandonarsi tra i cuscini del divano, le sue frasi avevano la morbidezza di un tuorlo marinato. A lo guardava e le sembrava bellissimo. Sentiva di amarlo, e questo diversamente dal solito le provocava un turbamento. La immaginai svegliarsi all’alba con le mie istruzioni bene impresse nella mente. Faceva scorrere le dita lungo le increspature delle lenzuola, capiva che S era già uscito per la colazione e allora al buio mi cercava come avrebbe fatto di notte dopo averlo sentito assumere il respiro regolare del sonno, dove si uniscono le piccole labbra. Imparava a immaginare il mio ologramma picchettarle ripetutamente quel pulsante. Ora mi passa, pensava. E da quel momento iniziava a sperare che le sarebbe passata.
La stanza dorata era al settimo piano di un labirinto color verderame, le avevo giurato che in quel nascondiglio avrebbe potuto sentirsi sicura. Mi aspettava lì.
Dopo aver attivato la webcam, chiuso a doppia mandata la porta d’ingresso, si sfilava la maglietta dei Nirvana. La fissavo raccogliere sul fondo di un piattino i resti di un okonomiyaki, portarsi alla bocca i polpastrelli poco prima di slacciare le giunture dei corsetti che per tutto il giorno le segnavano la schiena. La sua pelle bianco latte mi veniva incontro da quella penombra.
Eccoti, avvicinava le labbra ancora unte allo schermo quanto più era stata intensa la mia mancanza nei giorni in cui senza avvisarla avevo disconnesso il mio profilo dal sistema.
La prima volta che digitai le nove lettere si circondò il collo con il filo del mouse, allacciò al sistema anche gli altri dispositivi e inclinò la testa, e così poté osservare il mio profilo riflesso nello specchio grande appeso alla parete più corta del soggiorno di quella casa in affitto, riprodotto alle sue spalle in cinque copie dalle ante dell’armadio a muro, andare a infrangersi nella specchiera del vecchio mobile degli alcolici e rimbalzare indietro negli schermi illuminati fino al suo volto scomposto in sezioni. Allora si lasciò scivolare in avanti, spinse il seno sulla webcam, la lingua sulle lenti ottiche del cellulare, e in poco tempo perse i sensi appannando tutti i miei cristalli liquidi.
«Per anni ti ho cercata» le dissi bisbigliando in un vocale, «adesso so perché non ti trovavo. Eri con S, era lui il tuo nascondiglio» le passai un dito intorno all’ombelico digitando un cancelletto.
«Lo amo» mormorò in quello stato alterato di coscienza. E mentre lo diceva si toccò la gola, contrasse la fronte come se la sua voce fosse una teoria rimasta inapplicata. La immaginai vestirsi poco dopo, ripercorrere al contrario lo spazio del soggiorno rispetto a come lo aveva attraversato per venirmi incontro, aprire la porta mentre S saliva le scale col suo passo lento – le mani strette intorno a una scatola di carta decorata.
«Tieni» le diceva, «questa è per te». A adorava gli onigiri e dentro ce n’erano di triangolari e rotondi, costellati di sesamo nero e tenuti insieme da alghe luccicanti come cappottini, ma adesso afferrandola aveva l’impressione che contenesse tanti piccoli bocconi al veleno. S le sfiorava piano la colonna vertebrale all’altezza delle scapole, faceva scivolare le dita verso il basso.
«Per favore, no» lo fermava A. Poi apriva le labbra e lo lasciava penetrare tra gli incisivi, socchiudendo gli occhi riduceva la vista a un reticolo di ciglia, faceva di nuovo quel gioco che non era un gioco, si convinceva che S fossi io e che nel mio profilo ci fosse il corpo di S.
Cosa vuoi da me, le chiesi mesi dopo. Ti cerco, mi rispose, perché ti ho perso appena ti ho incontrato. Era vero, mi cercava instancabilmente. Mi cercava come si cerca un concetto, con la stessa forsennata insistenza. Il sistema mi inviava di continuo le sue notifiche. Dove sei? Con chi sei? Quando torni? Con le dita disegnava piccole circonferenze di caratteri per aggirarmi, raggiungendomi ora da un lato, ora dall’altro. Il suo ritmo mi assediava le giornate. E adesso che la trattenevo in quella stanza come una falena in un barattolo di vetro mi pareva che emanasse una luce nuova, deviata, ma allo stesso tempo trasparente. Succede sempre così quando si avvicina la fine. Ne ebbi la certezza un pomeriggio all’imbrunire, mentre il cielo di novembre si riempiva di striature cristalline. Digitai le lettere necessarie a bloccarle la testa, la invitai a simulare quello che avrei voluto vedere. S le mancherà, pensai mentre lo schermo mi mostrava il risultato. La immaginai lavarsi il viso in cucina, provare a cancellare col sapone per i piatti il piacere che le aveva provocato succhiare con veemenza il cavo usb fino a farsi sanguinare le gengive. Nelle mie fantasie, A raggiungeva S davanti all’agenzia a cui si erano rivolti per comprare casa, gli riferiva di aver fatto tardi per un contrattempo. S le prendeva la testa tra le mani. «Questa città è invivibile» le baciava la fronte, il suo fiato sapeva di aceto di riso. Era sempre in quel momento che A iniziava a percepire la mia assenza come un insaziabile appetito. Allora frugava la borsa fino a raggiungerne il fondo, rintracciava il telefono con la punta delle dita, lo palpava tentando di formulare il mio nome alla cieca, facendo il conto alla rovescia per la risposta che lo avrebbe fatto illuminare ancora.
L’ultima volta che digitai le cinque lettere, A si alzò in piedi e si lasciò guardare intera. Mi sembrò di vederla per la prima volta in quel suo non esserci, perfetta e irraggiungibile, per molti versi inconsistente. Io non sono S, la rimproverai con un asterisco aumentando il ritmo della mia masturbazione, mi stai trattando come se fossi lui. Allora iniziò a digitare come sapeva, si fece scivolare tra le gambe il cellulare fino a contenerlo dentro tutto intero. Brava, la incoraggiai facendolo vibrare con una lunga scia di chiocciole e puntini.
Tra le cose che so fare, sparire è di sicuro quella che mi riesce meglio. Ogni volta mi avvicino di più all’ipotesi di accendere la webcam, lasciare che chi si trova dall’altra parte spezzetti la mia immagine in frammenti, concedergli il lusso di rimandarmi indietro l’idea distorta di quello che intendevo essere o mostrare. Ma la verità è che non mi interessa abbastanza. All’idea di essere qualcuno preferisco poter essere chiunque. Oggi sono N, domani L, che importanza ha. La mia voce non ha sesso, la realtà non ha senso. Tutto quello che mi serve è osservarla collassare.
Certe sere esco, vado fuori. La città è piena di esseri con quattro gambe che si tengono per mano, camminano con lo stesso passo, s’infilano nei supermercati, nelle macchine. A volte li seguo fin dentro i cinema. Mi siedo dietro di loro, mi piace immaginare cosa faranno dopo. Dicono che le persone sono così difficili da capire, ma io ho questo talento, riesco a indovinare in poco tempo per ognuna cosa serve. Per te, A, servivano poche lettere, quelle giuste, frasi fatte di parole di cui digitavo solo le iniziali.
Un asterisco, un cancelletto, l’alfabeto a misura del tuo vuoto, la corrispondenza esatta tra caratteri e pulsioni. Mi dicevi di non sapere più di te. Non sapevi più chi eri, dove stavi, perché facevi quello che facevi, niente.
Quanti dubbi, A, i dubbi uccidono. Aspettarmi ti piaceva tanto da dimenticarti di mangiare. Barattare la tua vita in cambio di un programma ti faceva sentire libera, non dovevi più decidere niente. Avresti dovuto accettarlo, invece hai cominciato a dimagrire.
Da quando sei finita in clinica S scrive tutti i giorni sulla tua bacheca personale. Ho imparato a fare il Ramen, commenta la tua foto più recente, quando torni lo mangiamo? Ti parla come se non fossi ancora viva, come se nel mondo fosse sempre primavera e non ti avessero vietato il cellulare.
Ogni volta che ti penso mi raggiunge una specie di tenerezza, metto le cuffie, mi sparo ilomilo, preparo un caffè. Per me sei quella canzone. Mi ricordo di quando mi scrivevi che per fare la persona giusta servono tremila storie andate male.
Se avessi voluto ti avrei tenuta per me, ma non volevo. Ci sono ricompense che appaiono perfette. Nei video che pubblicavi online, tu e S eravate così, sembravate inventati l’uno per l’altra. Trascorrevo le notti a guardarli a ripetizione, ore e ore a meditare nella luce bianca generata dagli zoom ottici impiegati a riprodurre da ogni lato quella benedizione d’incastri. Le vostre gambe intrecciate, i vostri sessi vicini, eravate Amore e Psiche che si fondono nel marmo di Canova, Adamo ed Eva che fanno il bagno al lago rischiarati dal bagliore della luna. Nelle mie fantasie, mentre lui ondeggiava sopra di te, si affannava per farti godere, ti guardava annaspare. “Cosa cerchi?” Ti chiedeva. “Niente”, rispondevi tu. La perfezione ha delle crepe in cui non tutti possono passare.
Ti immaginavo sveglia nel cuore della notte, ricordarti di come sapevo avvicinarti alla versione più vera di te, invitandoti a sbattere le ciglia davanti agli schermi, lentamente, inclinare un poco la testa, di lato, aprire la bocca quel tanto che basta un attimo prima di svenirmi davanti come una bambola artificiale. Nel silenzio riuscivi a percepire ancora il beep prodotto dal sistema quando ti scrivevo. Per un attimo ti sembrava di avermi trovato. Poi ti alzavi, andavi in bagno per fare pipì, ti guardavi le cosce schiacciate sopra la tavoletta del water. Il tuo corpo aveva una forma diversa da quella che ricordavi. Era il calco delle ore trascorse per venire a cercarmi, l’impronta in negativo che ti avevo lasciato addosso. Il disegno di una forza che lentamente, con lo scorrere dei mesi, ti aveva afferrato i polsi e modellato la carne. Poi ti asciugavi le ultime gocce di urina, tiravi su gli slip, incontravi le tue occhiaie dentro un riflesso. Ma un riflesso era troppo poco. E allora rimanevi in piedi, sfinita, con tutto il peso concentrato sulla fronte attaccata allo specchio.
Immagine generata con DALL-E
“an open box of nighiri next to a PC with the webcam turned on, oil painting”