Famiglia illimitata

Eugenia quest’anno aveva la parrucca. Tutti nei loro sottogruppi familiari si erano accordati, i bambini sapevano di non dover dire “zia che bei capelli” o “hai cambiato colore” o peggio di non dover tirare, toccare o guardare fino a svelarlo. Emilia era arrivata con l’ultimo volo del 24 dicembre da Bergamo, apparente disagio che l’aveva salvata dai litigi dei suoi e dagli ammonimenti per affrontare il pranzo coi parenti. Antonietta, sua madre, non aveva comunque mancato di ammorbare le chiamate delle ultime settimane con le vicissitudini sulle varie diramazioni genealogiche. La ragazza in settimana aveva sognato, da tempo non le capitava più o non se ne ricordava: camminava su un prato che diventava puzzo e vomito, adesso tutto quello che stava sopra andava sotto. Rimanevano solo lei e voglia di scappare via. Ogni tanto per mettere un argine al delirio telefonico materno Emilia riponeva il cellulare tra i barattoli delle spezie e chiudeva lo sportello. Dopo un quarto d’ora la madre era ancora lì, dall’altro capo del dispositivo, senza il sospetto di aver perso l’interlocutrice dietro la barricata di truciolato. Chissà quanti pezzi di discorso avevano trovato rifugio al sapore di curcuma e noce moscata.
Chiamate illimitate, minuti illimitati, si era lasciata convincere a ridosso delle feste ad aderire a un’offerta telefonica, “non sentirete più la distanza” recitava lo spot pubblicitario.
Volerle bene era difficile, i feedback familiari la facevano sentire come cartaccia ai piedi del cestino, ricolmo di troppo schifo per ospitare anche lei. Qualche passante l’aveva persino pestata e calciata. In pochissimi l’avevano raccattata per capire cosa ci fosse scritto sopra.
E quindi zia Eugenia aveva il male. E avrà dei capelli che non sono i suoi. La frangetta non le sta male, ma sarà meglio chiudere lo sportello, pensa Emilia. Le orecchie già non sopportano più nessun peso, tantomeno quello delle sue affezionate solitudini familiari.
La tavola è ovale. Le bibite al centro, muraglia che impedisce ai parenti assetati di pettegolezzo di guardarsi bene in faccia. La Coca Cola è distante. Che buona, è frizzante e sorseggiarla anestetizza indigeste colpevoli inadeguatezze. Emilia, con il puro piacere di essere difforme, ha indosso un abito di strappi che la madre al solo pensiero aborrisce. Le lancette dell’orologio danno il tempo al rubinetto che perde in cucina.
«Lo zio lo avrebbe dovuto aggiustare»  si giustifica la moglie con cui dormono separati da tempo.
«Mi passi la parrucca?» Un lapsus. Sempre la solita, Emilia. Voleva dire Coca Cola. Ma ormai quello che vuole non lo sa nemmeno più. Si è mescolato con quello che non voleva dire.
I parenti hanno iniziato il banchetto. Il primo è servito e ha provveduto la figlia di Antonietta direttamente dal cuore dalle valli bergamasche. Neanche un briciolo di delicatezza per zia che ha il male. Melissa, fino a quel momento rapita dallo schermo del telefono, adesso fissa sorniona. Vediamo che altro deve combinare, sembra pensare. Il silenzio si è acchittato di imbarazzo. Il rubinetto continua a gocciolare. Gocce di forchettate sbattono sul piatto. La figlia di Antonietta vorrebbe solo tirare la tovaglia e far crollare tutto quello che c’è sopra.

Non scendo più. Questa terra mortifica dal primo momento in cui la respiri.

Solo l’aria suggerisce di aver sbagliato destinazione. E il mare è una latrina di bugie, uno specchio di cielo che riflette tutto quello che non puoi avere. Si infrange e sa infrangere ogni leccata di desiderio di rimanerci. Quello che pensa Emilia glielo cavi dagli occhi. Eugenia gioisce, si sente meno malata, è stata svelata. Il grumo di vergogna che le si poggia sulla testa diventa più leggero. L’ha scelto con cura. Tanto improbabile da presentarsi in tutta la sua falsità. Color di fuoco e frangetta sono probabilmente ciò che meno si accosta al suo incarnato, ai suoi lineamenti. Al negozio di parrucche ha scelto furtiva una capigliatura imbarazzante più per gli altri che per se stessa, che escano tutti allo scoperto, vaneggia, battitori di petto, perbenisti praticanti, egoisti credenti. È impossibile non fissarla. La correzione la deturpa più del difetto. Il modo migliore per mettere allo sbaraglio le ipocrisie familiari. Va in sollucchero nel vederli in difficoltà. Compunti, contriti.

«Ciao Eugenia, come stai?» e arrossiscono inconsapevoli per la banalità dei loro convenevoli sguinzagliati nell’aria così, inanimati, senza sapersi guardare più negli occhi, primitivi deteriorati, non più capaci di annusarsi gli uni con gli altri né le paure né i rimasugli di intenzione.
Grazie Emilia per aver messo al centro la protagonista della serata, la mia malattia, il mio cancro.
Nel tuo errore hai condensato la mancanza di umanità di ogni pezzo di questa famiglia. Probabilmente sei l’unica che si salva e finirai come me, capretto sacrificale azzannato dai loro canini.
«Adesso sarà meglio andare».
Le vene della mano avvolgono schienale dopo schienale, Eugenia sente il bisogno di poggiarvisi per arrivare fino ad Emilia, tutti fingono di non seguirne la traiettoria. Il rubinetto gocciola tre volte. Il passo tremulo diventa incedere maestoso. Si ferma alla vetrina degli amari e ne estrae uno alla liquirizia. Le sue mani continuano a coprire rampicanti le cose su cui cadono. Qualcuno ha ripreso a parlare. Occhi di brace attendono l’ultima stazione. È Emilia.
«Amore, non sono molto in forma, andiamo?» la nipote le dà il braccio e il miele delle apprensioni è solo ostacolo da schivare per arrivare in cameretta e tuffarsi sul letto.
Finalmente si può iniziare. Si può recuperare ogni goccia di tempo. Qualcuno bussa e porta un piatto di antipasti coperti da un tovagliolo. La prima cosa davvero utile mai fatta da branco di consanguinei. Le donne si sorridono e la lingua di zia Eugenia si tuffa nel collo di quella bottiglia nera, zuccherina. In ospedale le hanno detto che le cose dolci “nutrono il male”, dovrebbe evitarle, ma chi se ne fotte, non si farà rovinare le feste né da loro né da nessun altro. Emilia squarta un rustico e lo mangia come faceva da bambina, prima il ripieno, poi l’impasto che lo avvolge. Che bello mangiare lontano da Antonietta. E che meraviglia poter parlare come vuole. Nessuna compassione per i suoi modi non adeguati a una donna di trent’anni, “ingegnera”. Avrà dei figli? Non lo sa, ultimamente non ha avuto molto tempo per scopare. Come sarebbe bello rispondere così a quei falliti delle risorse umane. E sarebbe propensa a delle trasferte? Solo se mi ricoprite d’oro e fino a quando non ho di meglio da fare, gli avrebbe risposto con tutta la naturalezza predata da quella fottutissima multinazionale.
La bottiglia passa all’altra commensale. Zia ha intriso di nero ogni spigolo.

Il male l’ha sorpresa in maniera bastarda, proprio adesso che voleva godersi tutto.

Suo padre era stato violento con lei e da quando viveva sola e lavorava nella piccola biblioteca comunale stava meglio. Certo, a cinquant’anni in quel paese di merda ti considerano vecchia, gli uomini coetanei sbavano dietro alle badanti giovani e una donna che non ha figliato non può neppure chiacchierare con un uomo sposato che già pensano male. La malattia non ci voleva. Le voleva rubare altro tempo.
Promettimi che appena sto meglio ci facciamo un viaggio in un posto di mare diverso dal nostro e che non infranga la promessa di una vita migliore, si rivelano nel silenzio di parenti acquattati dietro la porta. La mano di zia traccia una carezza con dita che scivolano fino a che il nevo più prepotente del viso di Emilia scompare e riappare. Sembra un sogno.

La bottiglia finalmente è vuota, il fondo appiccicoso. Emilia ci fa nuotare uno sputo. Eugenia strappa il vetro vuoto dalle mani della nipote e con voce di sberleffo echeggia:
«Aspetta, manca il mio messaggio!»
Ci sputa anche lei e ride.

Immagine generata con DALL-E
“still life painting of a table at the end of a meal with dirty dishes on it, a bottle of coke, a bottle of liquor and several shot glasses”