Fai in modo che sia veloce

Se c’è una cosa che mi manca del mio paese è la calma piatta dei pomeriggi passati in piazza. In città il caos rimbalza tra le mura dei palazzi. Tra le stradine del paesino non esiste nulla.

È la natura, l’unico rumore possibile. Il vento che scompiglia gli alberi, qualche trattore nella dispersa campagna. Il rumore del pallone che rimbalza sull’asfalto. Tutte quelle cose da cui, a un certo punto, avevo sentito il desiderio di scappare. 

 

Cambiare città mi era servito per imparare a conoscermi. Berlino mi ha accolto nella frescura di un’estate lontana dalle torride spiagge italiane. Scoprire che la vita lenta è una scelta zen che si può realizzare in ogni punto dell’equatore mi ha permesso di entrare a far parte della città un passo alla volta. Ho percorso i quartieri con estrema curiosità perdendomi nel Mitte, di notte, affidandomi alla mia ombra che viene e va come il treno rosso della S-Bahn. La torre della televisione è sempre stata il mio centro di gravità, ma più mi allontanavo dal mio paese e meno mi sembrava di capire chi fossi. E non è vero che non sentivo la mancanza, quello sì.

Prima di partire avevo piantato un banano nel giardino di casa. L’avevo fatto perché mio padre capisse che trasferirsi non vuol dire tagliare le proprie radici per piantarle altrove, ma permettere a esse di crescere ancora più forti.

Molte volte mi sono immaginato seduto tra gli spalti del campo da calcio a guardare i miei amici giocare, è come se una parte di me fosse rimasta ancora lì. Una parte che, sì, ho cercato di rinchiudere e dimenticare. 

E quando l’inverno pungente è arrivato in anticipo, il sole ha ristretto il suo giro, la mia pelle rimpiangeva il caldo lontano duemila chilometri. Ho resistito. Due estati, due inverni. Poi mi sono lasciato andare al richiamo, ho ceduto a un passo dalla primavera.

Non ho detto a nessuno che sarei tornato, avevo l’impressione che ripresentarmi dal passato sarebbe stata una mossa scorretta: ognuno ha la propria vita, la propria quotidianità scandita dal lavoro e dalle relazioni sentimentali, e io? Cosa c’entro? Mi sono rifugiato nel giardino dei miei. Guardare le nuvole, leggere, stare in silenzio… credo di non essere in grado di fare nient’altro. Ho lasciato Berlino, ma mi si è aperta una voragine dentro. Mio padre: «Sei proprio un coglione».

Ritornare mi è servito per scegliere di tagliare i ponti con tutto, almeno per un po’. 

«Noi fuorisede, ogni volta che torniamo a casa, è come se dovessimo indossare una seconda pelle che non ci appartiene più»  mi aveva detto una volta Dario. Cerco il suo numero in rubrica.

Kreuzberg era stata la mia ultima casa, lavoravo al 18grams in un palazzo rosso che illuminava la via. Adoravo preparare le uova alla Benedict. Giuro, avrei fatto uova in camicia tutto il giorno. Richiedeva la massima concentrazione. Mi aiutava ad astrarmi dal mondo. La pancetta a rosolare a scandire il tempo delle preparazione complessiva. 

Quando stavo alla cassa leggevo, approfittavo dei tempi morti, dei momenti in cui non c’era nessuno o non avevo molto da fare. E quando il mio turno finiva, mi sedevo a un tavolo e continuavo a leggere fino alla chiusura. Tutti mi prendevano in giro, il proprietario e i colleghi, specie mio padre: «Sei proprio un coglione». E avevo dimenticato il mio libro al bar, nel cassetto sotto la cassa.

«Me lo puoi dire come finisce?»

«Cioè vuoi che lo legga e che ti faccia un riassunto?»

«No, leggimelo al telefono.»

«Bro, stai scherzando?»

«Erano tipo 20 pagine, ho lasciato il segno. Non ti chiedo di ricominciare dal capitolo, solo le ultime 20 pagine… Cosa ti costa?» Dario, italiano come me, era l’unica persona che mi ricordasse vagamente casa. 

Tra persone che parlano la stessa lingua si crea una sorta di micromondo, magari tornati al nostro Paese non ci saremmo più parlati, eppure eravamo reciprocamente necessari: condividevamo le stesse radici.

«Bro, te lo rispedisco se è importante…»

«No, dai, leggimelo tu, facciamo prima.». Esco in giardino, ripercorro a grandi falcate il percorso che dal cancello porta alla veranda, avvolta dai cespugli di edera. 

«Non puoi ricomprartelo?»

«Non c’è una libreria in questo paese, ordinarlo online vorrebbe dire aspettare altri tre giorni… Tu sei più veloce a leggere, sicuro…»

Tentenna, l’ho convinto ma… non del tutto. 

Prendo posto al tavolino esterno, al centro della veranda. Scelgo la sedia più esposta al sole, alto nel cielo.

«Senti, facciamo che ti richiamo alle quattro. Sei da solo, poche persone, nessuno che rompe… va bene? Sì, ti chiamo dopo, ciao.»

Non gli lascio il tempo di rispondere. Chiudo la chiamata.

Mi sono licenziato durante il mio giorno libero. Di solito staccavo il telefono, ero irraggiungibile, sparivo. Dario, al contrario, era in grado di lavorare anche in quei giorni: straordinari, ore extra, sette su sette. E il proprietario lo amava. Perché dava il massimo della disponibilità, perché non chiedeva mai un giorno di riposo, perché non prendeva malattia, perché non faceva pause, perché non aveva mai rotto una tazza, perché non rubava nulla, perché non pretendeva un aumento, perché rispondeva a tutte le sue chiamate.

Ai suoi occhi, questo lo rendeva migliore di me.

«Non capisco questi giovani che non hanno voglia di mettersi in gioco. Devi sudare, devi sgobbare per arrivare in alto…». 

Ma un lavoratore tossico non è altro che un parassita del futuro, e io non avevo nessuna intenzione di fare parte di un mondo malato dove vivere per lavorare mi faceva schifo. E mi facevo schifo per tutto il tempo che avevo dato a quel bar senza nemmeno amarlo. Allora ho mollato tutto.

 

Mi son detto che spegnere le voci delle persone intorno mi farà bene, adesso che ho imparato ad ascoltare la mia voce interiore. Per anni mi son chiesto cosa mi rendesse davvero felice, adesso non lo faccio più. Ho capito che scappare serve per guardarsi dentro. Ho capito che non avrei capito nulla se non fossi tornato al centro della mia insoddisfazione. 

In questi primi giorni di silenzio, preferisco godermi il sole bugiardo all’aria aperta, che quando scende la sera rivela la sua agghiacciante natura. La vera sorpresa al mio ritorno è stata una scoperta: i fiori sul banano. Grappoli di petali rigidi come foglie, sottili increspature gialle nel cuore dell’infiorescenza. Quando cadono fanno un tonfo, sordo, simile a una pallina che cade nella piscina di un bambino. E le prime api, in agguato, si intrufolano tra i petali pronte a succhiare via il dolce nettare. L’anima di un fiore fuori luogo.

 

Frsccc, frsccc…

Oltre il cancello, noto una figura brancolare dietro le foglie. Il fruscio dell’edera mi rivela la presenza, ma le foglie mi impediscono di riconoscerne i tratti. 

Cammino verso il cancello, senza distogliere lo sguardo dal punto dietro il banano. 

Trac, trac…

Una donna stringe un mazzo di fiori di banano, dal petalo rosso scuro, e continua a staccarli incurante di me, lì, il proprietario.

E chiedo cosa sta facendo e la signora, pelle ambrata, si blocca al suono della mia voce. Sposta i petali lungo le braccia, colta sul fatto. Non può scappare, non può riattaccarli sull’albero.

In un italiano stentato si scusa e mi spiega che vorrebbe mangiarli a pranzo. Io resto confuso. 

Come, un pranzo?

Le trema il labbro inferiore. Non parla. È iniziato un monologo nella sua testa dal quale io, unico spettatore, sono escluso. 

Ritorna a me e recupera un fiore che mi mostra. Mima il gesto di tuffare un fiore in una ciotola invisibile e mi spiega che era una ricetta della madre. Fiori di banano in pastella, fritti.

Rifletto sul fatto che mio padre, il famoso chef Carlino, tre stelle Michelin, non mi ha mai preparato nulla a cui sono legato. Mai. A cucinare in casa era sempre mia madre. Lui non ci stava mai. Solo il lunedì. E quando ci incrociavamo: «Sei proprio un coglione…».

La donna prova a ridarmi i petali, si scusa dicendomi di aver sbagliato.

Faccio un passo indietro, oltre il cancello, allontano le mani dietro la schiena e abbozzo un sorriso forzato. Le dico che può venire quando vuole. Dei fiori non so che farmene.

Mi chiudo alle spalle il cancello e invidio i suoi ricordi, il legame che ha le sue origine. Nulla di tutto ciò mi ha riportato qui.

Entro in cucina e il telefono vibra. È Dario. Rispondo: «Ti ho convinto».

«Recupero da dove hai lasciato il segno, Bro.»

«D’accordo. Prima pagina. Fai in modo che sia veloce.»

Il libro parla di uomo qualunque, figlio di agricoltori, che si laurea in Letteratura, s’incastra in un matrimonio infelice e… la sua è una vita basata sul nulla eppure non riesco a percepirla come ordinaria. In un uomo che riesce a sfuggire da se stesso, vedo solo immensa straordinarietà. 

E io? Sono mai riuscito a essere straordinario? 

Dario inizia a leggere.

Mi dirigo in cucina e prendo una mela rossa dal cesto di frutta. Cerco un coltello e taglio la mela a metà. Poi a spicchi. 

L’ultima discussione con mio padre, proprio lì. 

Ero arrivato di notte, lui non era ancora rientrato dal ristorante. Avevo deciso di non aspettarlo sveglio, volevo dormire. Al mattino, mi aspettava in cucina. Mi ero preparato un caffè in silenzio, lo avevo bevuto sull’isola centrale che separava i fornelli da un tavolo. Non si vedeva il sole, ma la luce filtrava dalla finestra sul lavandino. Il cielo era rosso e arancione come solo alcune mattine in periferia sanno essere.

Nei suoi occhi riuscivo a prevedere la rabbia pronta a esplodere.

«Te non c’hai un briciolo di sogno, se ti aprissi in due saresti vuoto. Sei andato via, hai lavorato… lavorato… per cosa? Sei un uomo mediocre, senza passione. Un’ameba.»

Mio padre ha sempre cucinato. Prima in un fast food, gratis. Poi nelle taverne, zero giorni di ferie. Adesso ha un ristorante che porta il suo nome. Non è mai mancato, si è presentato anche quando stava male, anche quando mia madre è morta, sempre. Mi sono spesso chiesto, dietro quel suo annullamento, quanto amore ci fosse dietro questa sua passione. 

«Sei tornato qui per fare cosa? Sei proprio un coglione…»

I primi mesi a Berlino, quando ancora cercavo un lavoro, mi era capitato di fare diversi colloqui in centri, amministrazioni, studi: stage non retribuiti per tre o sei mesi. E c’avevo anche provato. Il lavoro al bar era iniziato così: il giorno in un ufficio contabile, la sera dietro il bancone. Mesi insonni, stipendio misero, senza alcuna certezza per il futuro. Scaduti i sei mesi, nessun rinnovo.

Mio padre parla con odio degli anni di gavetta e miseria, prima di essersi affermato come chef, eppure non si è mai opposto alla linearità della storia: la generazione dopo di lui doveva accettare gli stessi sacrifici. E in questo sono diverso: io non accetto più che qualcuno dopo di me sia costretto a seguire lo stesso percorso. 

«Ci sei? Continuo?» Lo sbuffo di una caffettiera, la porta che si apre e chiude. Immagino che in quel momento, sull’Oberbaum Bridge, la S-Bahn sta attraversando lo Sprea. Ma Dario è lontano, il rumore delle rotaie non può raggiungerlo.

«Sì.»

Una linea rossa, di sangue, si propaga sulla mano. Prima chiara, poi diventa di un rosso sempre più scuro. Un po’ d’acqua, un fazzoletto, e sparisce. Ma il calore m’incanta. Accarezzo il palmo della mano tesa con la lama del coltello. Nessun dolore. Faccio in modo che sia veloce.

«Mi stai ascoltando?»

Immagine generata con DALL-E
“a banana tree in a garden of a house, pop art painting”