Banksy a Betlemme
Khadigia si svegliò di soprassalto, aveva sentito il rumore che veniva dalla stanza attigua dove dormiva il figlio, Ismael. Capì subito, dall’intensità della luce che perforando la piccola finestrella arrivava diretta ad illuminare il centro della stanza, che era più tardi delle altre mattine. Svelta, si sollevò dal tappeto, arrotolò la stuoia sulla quale aveva dormito e la ripose nell’anfratto sul muro. Come aveva potuto fare così tardi? Quella mattina, Ismael aveva un esame importante all’università e lei si era ripromessa di preparargli una buona colazione, e ora era tardi!
Aveva riposato male. Era preoccupata per suo figlio. Aveva pensato a lui tutta la notte. E non solo per via dell’esame.
Aprì la finestrella per cambiare aria, la stanza era ancora impregnata del mansaf di agnello preparato il giorno prima. A ripensarci, le veniva proprio bene quel piatto, sarà stato per via del buon kashk che lavorando lei al mercato aveva la fortuna di trovare sempre fresco e di ottima qualità.
Lei, come molti palestinesi, rispettava la tradizione, e cucinava il mansaf nell’Eid al-Adha, la festa del sacrificio. In particolare le piaceva quell’episodio della Bibbia perché era in comune a tutte le religioni. Infatti, era venerato dai giudei ed era presente nel Corano, si riferiva alla vicenda in cui Dio chiese ad Abramo di sacrificare il figlio come prova di fede verso di Lui, poi sostituito all’ultimo come è noto con un ariete. Era stata grande la prova di amore di Abramo per Dio! Per questo, Khadigia, aveva chiamato suo figlio Ismael, come il figlio di Abramo, che vuol dire “Dio ascolta”.
Anche suo figlio amava il mansaf, tanto che il giorno prima ne aveva preso due porzioni. Ma Ismael l’amava per un motivo diverso dal suo, l’amava perché era bandito dalla tavola degli ebrei essendo contrario ai precetti della cucina kosher per via dei due ingredienti: la carne e il formaggio, un abbinamento incompatibile. Per di più, nella cultura kosher è vietato bagnare la carne del figlio con il latte della madre.
Lei e suo figlio, su quel piatto tradizionale, non la pensavano allo stesso modo. E non solo sul mansaf.
Khadigia continuava a sognare che un giorno giudei, cristiani e musulmani potessero vivere insieme come fratelli, integrati tra loro, rispettandosi e collaborando per il bene comune. Ma in realtà da anni, e ancor più nelle ultime settimane, le cose andavano all’opposto; ne era la prova il muro di cemento armato alto otto metri con tanto di filo spinato e torrette di controllo, appena girato l’angolo di casa sua, a Betlemme.
Ismael bruciava di rabbia anche per via di quel muro che delimitava l’Aida Camp, il campo profughi dove erano costretti a vivere da quando, vent’anni prima, la famiglia di Khadigia era stata depredata della loro casa. Una bella casa che suo nonno aveva costruito sulla collina più alta di Betlemme, con un ampio patio e circondata da un aranceto che impregnava l’aria di profumo di zagare e del brusio festante delle api che ronzavano là attorno.
La voce alterata di Ismael irruppe nella stanza e la fece sobbalzare: «Non c’è acqua per lavarsi … prima ce la toglievano di sera, e ora anche al mattino».
Era in preda all’ira e gli occhi neri sgranati fiammeggiavano sul bianco candido della camicia, quella più bella, indossata per l’occasione dell’esame.
«Non crucciarti Ismael, proprio stamani…non pensarci. Eccoti del ful mudammas. Ora, ti preparo il caffè».
«Madre, come faccio a non pensarci? Non possiamo farci passare tutto addosso. Questa non è vita, è meglio morire che essere ridotti a vermi che strisciano a terra. Ci costringono a vivere in un campo di baracche, hanno diviso Betlemme con un muro di cemento armato e ogni volta che andiamo dall’altra parte dobbiamo rendere conto alla polizia… la loro polizia, s’intende. Ci lasciano senz’acqua, non siamo liberi di muoverci, non ci fanno lavorare o curarci in ospedale. Di questo passo dove finiremo?»
Ismael era sempre più alterato, tanto che lei, da mesi, non riusciva a farci un ragionamento; ogni volta che apriva bocca doveva chiuderla per via della rabbia deflagrante di suo figlio che esplodeva come una mina. Certo, Ismael era stanco della situazione. Lo capiva, ma non voleva che fosse la rabbia a guidare i suoi pensieri, o ancor peggio, le sue azioni. Lei l’aveva educato secondo gli insegnamenti di pace e di tolleranza predicati da Gesù e da Maometto e non sapeva più come fargli capire che c’erano altre strade per indignarsi, altri modi di agire oltre agli attentati, alle bombe o al lancio delle pietre, che si doveva mediare, che all’odio non bisognava rispondere con altro odio, che comportarsi con rancore portava a una rovina più grande, per tutti.
Questi pensieri le ronzavano in testa mentre, raccolta la veste per non inciampare, saliva sul vecchio furgone di Rashad, colmo di cesti di verdura pronti per essere venduti da lei e da Halima, la moglie di Rashad, al mercato, appena fuori Betlemme, sulla strada che porta alla tomba della grande matriarca Rachele.
Non appena aprì la portiera del furgone, Halima le fece posto sul sedile, sollevando un cesto di ravanelli che appoggiò sulle gambe.
«Ahlan, Khadigia. Stamani hai gli occhi umidi. Non essere preoccupata, vedrai che tuo figlio farà un buon esame»
«Halima, sorella… non è solo per l’esame… e che ho paura che Ismael possa fare qualche gesto sconsiderato; ora, segue quelli di Hamas e non so…è molto arrabbiato con i fratelli giudei. Non so cosa può accadere»
«Khadigia, i giudei non sono nostri fratelli. Con noi, sono dei cani e tuo figlio ha ragione. Non possiamo più sottostare…i giovani devono agire, ne va del loro futuro. Sennò cosa se ne fanno degli esami e dell’università?»
«Rashad, non preoccupare Khadigia. Lei aspira alla pace, e …»
«Pace? Voi donne non capite nulla, avete la testa piena di sciocchezze. Che pace è mai possibile con i pescecani?»
«Ci sono i movimenti moderati» l’aveva detto con un filo di voce, anche se per lei i movimenti politici che predicavano l’integrazione erano la voce più alta e grande, l’unica sensata.
«Ma smettiamola. Non ci si cava nulla con i movimenti moderati!»
Mentre Rashad sentenziò il suo pensiero, un pulmino bianco e moderno con a bordo dei turisti aveva affiancato il loro furgone. L’autista, un palestinese con il viso gonfio, sporgendo il capo dal finestrino chiese a Rashad: «Salute fratello. Sai dove si trova il murales di Banksy? Quello con i fiori. So che è qui vicino. Io sono di Haifa e di Betlemme conosco solo la strada per la chiesa della Natività. I turisti che trasporto sono italiani, e si sa come sono…impetuosi, curiosi… scalpitano per vedere il murale. Pare che tengono più al murales che a visitare la chiesa dove è nato Gesù»
«Oh, certo Fratello, so dov’è! Io sono di Betlemme ma non mi sono mai fermato per vederlo bene. Ti ci porto, cosi lo vedo anch’io. Ne parlano laggiù al mercato…Seguimi, si trova sul tramezzo di un fabbricato, dietro un benzinaio»
«Ma …Rashad, facciamo tardi al mercato e magari gli altri venditori non vedendoci ci occupano il posto.»
«Zitta donna. Parli sempre a vanvera. Siamo di strada».
Rashad, strombazzando si fece largo nel traffico scombinato della mattina e prese una strada secondaria a destra, guardando di tanto in tanto dietro, per essere sicuro di avere alle calcagna il pulmino con i turisti.
Khadigia aveva capito di chi parlavano. Si trattava dell’artista che aveva dipinto su quel brutto muro, uno di Londra, di cui non si conosceva l’identità, che aveva aperto persino un albergo, il Walled Off Hotel, con la vista più brutta del mondo: proprio davanti al muro. Lei, una volta, si era fermata a vedere i suoi dipinti. Eh sì, facevano pensare… Erano un simbolo, una difesa ideologica del suo popolo sfortunato. Ma cosa può fare l’arte? Poi, non cambiava nulla: anzi, l’aria che tirava era sempre peggio. Lei si sentiva sola, cercava di resistere, ma era travolta dal clima di odio di tutti verso i giudei. Del murales di cui parlava l’autista del pulmino con Rashad, non ne sapeva nulla, e si era incuriosita.
Girò il capo per guardare indietro e dare una sbirciata dentro il pulmino. Vide delle facce di età diversa, tutte sorridenti e spensierate. Introvabili fra la sua gente. Un genere di persone, questi europei, che vivono liberi e in promiscuità, come i cani randagi delle strade di Betlemme. Capace che non erano parenti e viaggiavano lo stesso insieme, una libertà possibile solo in quei paesi lontani.
A un certo punto li vide alzarsi e urlare come invasati, tanto che il furgone dietro di loro si arrestò di botto. Scesero di corsa, impugnando le macchine fotografiche come armi e si disposero uno di fianco all’altro sul ciglio della strada, ordinati, come un plotone militare. Per un attimo Khadigia sentì un fremito lungo la schiena, ma poi capì che volevano fare solo delle foto al murale.
Rashad, dopo un attimo di esitazione, oltrepassò il pulmino e si fermò un metro più avanti: «Diamine che foga… tutti impazziti per uno scarabocchio»
«E noi magari ci siamo persi il nostro posto al mercato» sospirò Halima.
Khadigia abbassò il finestrino troppo sporco per permetterle una visione nitida, e diresse lo sguardo seguendo i click delle macchine fotografiche dei turisti.
E lo vide. Lo vide tra gli intagli a rombo della rete di ferro che delimitava la strada. Il dipinto non era posto in basso come gli altri. Questo faceva alzare lo sguardo, era alto più di cinque metri.
Restò immobile. Non riusciva a staccare gli occhi dal mazzo di fiori…l’unica macchia di colore del dipinto. Le ricordavano i fiori selvatici che spuntano in primavera sui bordi delle strade dell’Aida Camp, risparmiati dalle pedate dei passanti.
Già, proprio quei fiori: teneri, spauriti, dal colore vivo seppure coperti da una coltre di polvere e che parevano urlare la vita, l’inizio di una nuova stagione.
Ismael l’aveva visto quel murale?
Doveva dirglielo che c’era. Ma poi sarebbe cambiato qualcosa?
Immagine generata con DALL-E
“orange blossom flowers surrounded by a few bees on a sunny day, impressionist oil painting”