Perchè scriviamo se tutto sembra rovina?
Scrivere un romanzo è una prova di forza fisica. Quando una prima idea si affaccia nella coscienza si cade nell’errore di pensare che tutto il processo di creazione sarà totalmente intellettuale. Per me, niente di più ingannevole.
Scrivere è una questione di resistenza a lungo termine – resistenza del corpo – che mette a dura prova l’integrità del sonno, della fame, la costanza dei battiti del cuore, il colorito della pelle, la tenacia dei capelli, la tenuta muscolare.
Ti svegli a un certo punto della notte, come il tormentato Ivan Nikolaevic de Il Maestro e Margherita che si acquieta solo a fine romanzo, immerso nella luce lunare, e non ti senti più le mani o le gambe. A volte ciò che ti fa riaddormentare – la tua personale Margherita – è una camomilla, una pillola magica, mezza bottiglia di vino, del gran sesso, oppure niente, non ti riaddormenti, fissi il soffitto, che nel frattempo ha acquisito un fascino irresistibile, e speri di vedere apparire soluzioni geniali.
Sei costretto a stare seduto davanti al pc per dieci, dodici ore, e ti dimentichi di bere, di pisciare, di prendere una boccata d’aria, di vivere. Ti scolli dalla sedia che è già buio, e la giornata è passata senza che te ne rendessi conto. Un’altra giornata. E magari, spesso, non hai nemmeno messo in croce quattro parole degne.
Chi scrive e fuma mette a durissima prova i polmoni; chi scrive ed era abituato a fare sport deve essere pronto a constatare la progressiva perdita di tono dei muscoli, il culo diventa piatto e tutto ciò che di sodo e compatto è rimasto si trova solo nei polpastrelli.
Scrivere un romanzo significa rinunciare al sonno dei bambini e abbracciare un costante stato di semi-veglia alla ricerca del termine perfetto, della costruzione stilistica che soddisfa, dell’ascolto di quella voce che sussurra – più spesso, urla – e che ruba il riposo.
Scrivere un romanzo ti mette in costante stato di allerta: tutto il mondo pare dire “guarda qui, c’è quel dettaglio che cercavi”: mangi una pizza e il modo in cui il cameriere che ti serve sorride ti fa venire in mente quel tuo personaggio che non sorride mai – e che però, a questo punto, potrebbe; cammini per strada, un’anziana signora inciampa e mentre tu la aiuti noti che i suoi occhi sono verdi, lo stesso verde degli occhi della tua protagonista.
Quando scrivi un romanzo non sei più padrone dei tuoi pensieri: prendono strade in cui non è possibile seguirli e una volta tornati indietro, con tutta comodità e senza fretta, portano cose, oggetti, persone, parole che all’improvviso sono indispensabili, e servono proprio perché, fino a quando non si sono palesate, non sapevi fossero necessarie.
Iniziare a scrivere un romanzo significa mettere in pausa tutto ciò che esula ai fini della costruzione di quella storia. Il resto è superfluo, inutile, distrae, risulta persino insopportabile: il tuo protagonista è medico? Tu diventi un medico. Non ti interessa più il tuo lavoro di insegnante, non ti serve, non ti interessa più essere geometra, pittrice, cantante, il medico è medico e fa il medico. Allora tu diventi un medico.
La tua protagonista è orfana di padre? Tu diventi orfana di padre, smetti di chiamare tuo padre, tuo padre non esiste. Il tuo personaggio secondario, uno dei tanti, finisce sotto una macchina in corsa? Tu resti sul marciapiede, con la borsa piena di libri che non dovevi comprare ma che servono assolutamente per la tua “ricerca”, e ti chiedi come sarebbe andare a finire sotto una macchina e poi in ospedale. Sarebbe conveniente, avresti la morfina – per dormire, finalmente – e più tempo per scrivere, ancora.
Imbarcarsi in questa follia che è scrivere un romanzo vuol dire non pensare ad altro per mesi, forse per anni. Vuol dire non avere il minimo controllo del proprio tempo, non avere le energie per intraprendere un altro progetto che non sia sbattere la testa in faccia a uno schermo perché il tuo protagonista – quello che non sorride mai ma che tu, all’improvviso, grazie a una buona pizza, hai deciso che comincerà a sorridere – non segue la strada che stai tracciando per lui, perché la tua figura di Creatore non è esattamente così onnipotente come pensavi.
Scrivere un romanzo ti mette in condizione di esistere come se tra te e il mondo ci fosse una cortina di fumo: la mente lascia entrare solo ciò che valuta proficuo, tutto il resto può marcire. La tua storia diventa un parassita: te la porti in giro – nel tuo corpo, dentro il tuo corpo – e lei si nutre degli elementi che la faranno, forse, diventare un romanzo. Nella maggior parte dei casi non succede, la storia resta una storia e non diventa mai Romanzo. Allora ti maledici perché ti rendi conto – dopo un immane lavoro, dopo aver ridotto la schiena in pezzi e aver schiacciato l’orgoglio sotto i piedi, dopo aver fracassato la pazienza di chi ti ama e che non sente parlare d’altro da tempi immemori – che questa storia non è degna, non aggiungerà nulla di nuovo, non avrà niente da dire al mondo. È stato già detto tutto, pensi. Ti guardi allo specchio, probabilmente di notte – il momento più adatto per le cupe elucubrazioni mentali – e di riflesso vieni esaminato dal viso di un impostore.
“Cos’è che stai facendo, esattamente?” sembra chiederti. Non rispondi. Torni a letto seguito da quella domanda e da tutti i tuoi fantasmi.
Perché, allora, scrivere? Perché scegliere volontariamente di andare incontro a questa tortura? Ed è poi davvero una tortura?
Perché vuoi essere immortale. Perché nel lasso di tempo tra il parto dell’idea e la sua trascrizione sei qualcuno, sei qualcosa. Non importa che gli altri, quelli del mondo di “fuori”, non lo vedano, ciò che conta è essere. Per se stessi.
Lo fai perché non ti senti più solo. Lo fai perché vuoi essere amato, lodato, desiderato, perché ogni tanto ti illudi (e il piacere sta tutto in quell’illusione) che la tua storia sia diversa, sia ben fatta – o meglio ancora, mai fatta – e tu, per la prima volta nella vita, sarai sul podio di qualcosa, anche se non sai ancora cosa.
Perché quel tarlo scava troppo a fondo e tu devi tirarlo fuori, a mani nude, altrimenti morirai. Ti sembra davvero di morire quando lo sfiori, sei lì lì per prenderlo, ne senti i bordi e la forma, ma ti sfugge e le parole non vengono bene, leggi leggi leggi in continuazione e ti accorgi che quello che hai scritto non significa niente.
Scrivere un romanzo è un’apnea incostante ma perenne: quando riesci a trovare quel termine, quando infili una costruzione corretta dietro l’altra, ti dai una spintarella con le punte dei piedi e riesci a prendere una boccata d’aria, ma per la maggior parte del tempo scrivere è un inganno auto-imposto, è un imbuto nel fondo del quale ti isoli con la scusa del genio, dell’arte, del fare letteratura.
Michel Foucault disse che la scrittura e le cose non si somigliano. Forse scrivi per questo: per renderle uguali. E per ricordare. Scrivi perché dimentichi tutto, e questo è anche il motivo per cui scatti fotografie. Perché non solo tu, ma anche le cose che non assomigliano a ciò che vuoi scrivere devono diventare immortali.
C’è qualcuno che scrive perché ne ha bisogno. Anche in quel bisogno c’è la carezza dell’ego. Scrivi per essere letto, per essere applaudito. Hai però scelto la strada sbagliata, hai più probabilità di successo mettendoti a fare pizze o aprendo un profilo OnlyFans. Eppure ti intestardisci, perché niente potrà mai essere all’altezza di quella scintilla, di quel guizzo quando all’improvviso capisci che hai trovato la tua storia, quella che vuoi raccontare. Di fatto, tutti i sacrifici successivi, tutte le notti insonni, le parolacce, il degrado, obbediscono solo a quell’attimo, l’esatta scheggia di tempo in cui la tua mente ha registrato un evento e ha pensato “ecco, è questo che voglio scrivere”.
Scriverescriverescriverescrivere. Un circolo vizioso. E quando hai finito (ma quand’è che hai finito?) ti alzi, guardi quello che hai fatto e l’unica domanda che viene fuori è: “E ora?”.
Hai dato vita a un oggetto che è tuo, davvero tuo, il simulacro in forma fisica dei tuoi pensieri, e chi se ne frega se sono giusti o no, sono lì, esistono, li puoi toccare, manipolare, li puoi donare al mondo.
Ci vuole coraggio, a scrivere. E ci vuole ancora più coraggio a non scrivere. Se farlo significa andare incontro al sacrificio, alla noia, al mettere in dubbio ogni cosa, al rischio di allontanare tutto e tutti, allora non scrivere significa non esistere. Forse è per questo che scrivi. Scrivi perché in nessun altro posto, in compagnia di nessun altro, ti senti.
Sei. Vivi davvero.
Anche se tutto è rovina, hai le tue mani, il tuo pensiero, non ti serve altro.
Immagine generata con DALL-E
“a surrealist-style painting of a writer sitting at a desk inside a monitoring room where his behaviors are studied”