Noi siamo due

La prima volta non avevamo ancora iniziato a vivere insieme. Almeno, non ufficialmente. Era una cosa più saltuaria, da venerdì sera che sfociavano in sabati di sesso e mal di testa.

Ma stavolta è lunedì, mi sveglio per prima, devo andare in facoltà. Faccio per mettere su un caffè, svito la moka, sbatto ritmicamente la sbratta nella pattumiera. Ho sonno, ci metto un po’ a capire. 

È che due profilattici col nodino sono abbastanza evocativi in una pattumiera, che io ho passato il weekend da Giada a Padova, non prendessi, per di più, pure la pillola.

Inizio a urlare. Inizio a urlare partendo da quella evidenza, perno di tutte le certezze. 

Entro in camera al grido di prendo la pillola, porca di quella puttana troia. Apri gli occhi, dici sì e allora, con quell’aria da guappo che io vorrei avere delle unghie lunghissime per strapparti via come le striscioline dei manifesti leghisti, anche quelli con la colla buona.

Alla domanda perché l’hai fatto, che segue di almeno tre ore l’entrata in camera – siamo passati per una scoscesa negazione, al che li ho presi dalla pattumiera e te li ho lanciati addosso, con tutto lo schifo del caffè e della pattumiera in aloni sul piumone – tu dici perché potevo farlo, come un Bill Clinton qualsiasi. Dici anche che era meno bella di me, pure, senza un senso apparente. 

È quell’arroganza che mi manda ai matti, o forse tutto, non importa.

Prendo il treno che va verso la casa di quando avevo quindici anni, non mangio non piango non chiamo nessuno, dico solo a Guido arrivo alle due e quaranta, Guido alle due e quaranta è al binario, non dice niente, in macchina ha della focaccia alle cipolle che mi strappa un’idea di sorriso.

 

La seconda volta è settantasei giorni prima della data del matrimonio. Li conto poi, come se la situazione peggiorasse nel gradiente che si avvicina alla data, ma è un assunto che non ho voglia di dimostrare.

La seconda volta a me pare persino più squallida. È una schermata facebook con i pop-up automatici delle chat. Lei è separata con un figlio. Ha dieci anni più di te, diciotto più di me.

Diciotto, mi ridico, come se anche questo spostasse l’infamia avanti o indietro, va’ a capire. 

(In realtà, l’unico numero che davvero importa ridirsi è due, è seconda, e non me lo ridico tante volte). 

Ho preso un treno all’indietro, dalla mia casa di quando avevo quindici anni. Ti ho detto che ti amavo. Abbiamo camminato nel freddo di un mezzo dicembre, tu avevi un cappotto lungo. Siamo rimasti a intirizzirci su una panchina mentre sgranavi la tua contrizione. 

Sei andato in terapia, per un narcisismo deviato. Dici che c’entra la separazione dei tuoi. Mi hai detto delle cose bellissime. Io solo che ti amavo.

Ho chiesto a mia sorella di capire, a mio padre di sotterrare le ostilità. 

La seconda volta vorrei che non lo sapesse nessuno. 

Al matrimonio ho un abito a sirena, i capelli raccolti, sorrido.

 

La terza è diversa. Torni a casa alle tre e mezza, sbronzo. Mi dà così fastidio l’odore di alcol che salgo di sopra. Era una cosa che ci eravamo promessi al matrimonio, mi viene in mente. «Ti prometto che non dormirò mai sul divano.» (Mi ricordo il testo che aveva letto mia sorella. Ti giuro che il sottotesto era «mi raccomando», io l’ho sentito).

Ti addormenti con la musica accesa. Che due coglioni, penso, e scendo a spegnerti il cellulare sul comodino. L’ultimo messaggio parte dal tuo cellulare e finisce nel tuo cellulare aziendale, è il numero di Lucia, con scritto Lucia a fianco, a prova di blackout mattutino.

Sono all’ottavo mese. 

 

La terza è diversa perché ti sveglio, non sai niente, provo a parlarti, non sai niente, chiamo Lucia, Lucia alle quattro e venticinque dorme, forse, o comunque non ci fa il piacere di rispondere, la terza è diversa perché ti dico veramente di tutto, anche se tu, probabilmente, continui a non sapere niente, esco, arrivo fino in centro camminando, trovo persino un cazzo di passante che si sta segando sotto i portici, odio tutti, rinfoderate, per dio, rinfoderate, c’ero anch’io a quella cena fino alle dieci e quaranta, abbiamo una fede per uno, sono all’ottavo mese, non sto in nessun vestito, non sono ignorabile in alcun modo, dove cazzo hai gli occhi, Lucia, ma soprattutto, che cazzo ti dice la testa, a te, che se a lei non importa peggio per lei, ma a te che cazzo ti dice la testa, cosa devi cercare, cosa ti manca, se dici i miei si sono separati giuro che inizio a staccarti a morsi dei pezzi di faccia e li sputo interi sul pavimento. 

 

La terza è diversa perché quando arrivo a casa, doveva venire tuo padre, gli hai detto di non venire, arrivo a casa hai una faccia verde, le tue solite arie da cane bastonato come se io ora potessi persino cercare dell’empatia per le tue ricorsività tuo malgrado, ma tuo malgrado un cazzo, ché a prenderti una responsabilità che sia una, quando inizierai, sarà sempre tardi. 

 

Ma la terza volta è diversa perché ti dico questa cosa che forse ti getterà nella disperazione ma è stata la chiave della mia mattina. Occupatene, sistemala, non sistemarla, risolviti, giustificati, deresponsabilizzati come da trentanove anni a questa parte, mettitela via: io non faccio niente stavolta – niente – ma, sai, ho un po’ meno paura. 

 

Ti lascio solo con queste tue miserie: io sono due, non sono mica sola. Noi siamo due.

Immagine generata con DALL-E
“a man sleeps drunk on the sofa while a woman standing in pajamas watches him, painting in the style of Edward Hopper”