La giungla

“I coglioni vanno inculati”
Wanna Marchi

 

 

«Certo che la capisco. Giordano, giusto? Giordano, io la voglio aiutare. Noi siamo obbligati per legge a informare i clienti dei cambi normativi. Certo, sono del Servizio Elettrico.»

Alex si gira verso di me e mima con le mani una canna da pesca – pesca impegnativa, un pesce grosso. Ha le cuffie strette sulle orecchie, i capelli spettinati.

«Giordano, mi segua un secondo. In questo momento lei sta pagando molto di più della media nazionale. A me non interessa comunicarglielo, ma siccome siamo lavoratori pubblici il nostro incarico prevede anche questo»

Alex mi fa l’occhiolino, sorride. La pesca si fa spericolata.

«Facciamo così. Le invio una mail con tutti i dettagli e la faccio richiamare da un nostro tecnico»

Il pesce inesistente si dimena, tira la lenza invisibile, Alex finge di essere trascinato giù dalla sedia mentre tutto l’open space lo fissa e ridacchia.

«Mi conferma i suoi dati? Perfetto. Anche la carta d’identità… ottimo…»

Alex si alza, si rimbocca le maniche mentre il cavo delle cuffie gli fa da cappio e da alloro e gli si attorciglia attorno, poi comincia a muovere i fianchi. La pesca si tramuta in un rodeo, lo sta cavalcando. Le ragazze gli guardano il culo e sussurrano qualcosa tra di loro, il capo si ferma con la penna in bocca e assiste alla scena senza dire nulla.

«Se mi ricorda gli estremi della sua carta di credito…»

Alex è in frenesia, adesso sembra che stia scopando con qualcosa di enorme e impalpabile, mima una sculacciata, lo monta come farebbe un molossoide per dominare un bastardino, se lo sta inculando per bene.

Le tipe accavallano le gambe, si toccano i capelli. Guardo una goccia di sudore farsi strada dalla tempia alla scollatura di Lena, torcendosi, la guardo arrossire e ondeggiare lentamente sulla sedia, socchiudere gli occhi. 

«Ah, mi raccomando: stia attento alle chiamate false. Sono dei bastardi senza scrupoli e le rubano dati e soldi. Si fidi solo di gente affidabile, come me. Come noi.»

È la ciliegina sulla torta. È la fine. Alex mima un orgasmo formidabile mentre riappende e tutta la sala esplode in un boato assordante. Lena sembra sfinita, sorride, si sventola con il copione delle domande.

 

Alla fine del turno ci facciamo una birra, io, Alex e Lena. Il barista ci serve tre lattine di lager calda senza bicchieri. Alla nostra salute.

«Il copione serve solo all’inizio, bambini» ci spiega Alex facendo l’occhiolino. «Gli adulti entrano nella giungla da soli.»

Alex ha vinto anche oggi, ha fatto diciotto vendite. Diciotto fessi fregati, diciotto contratti strappati con l’inganno.

Nel nostro campionato immaginario le prede conquistate hanno un valore diverso a seconda della categoria: i vecchi valgono poco, i giovani di più. I VIP ti fanno conquistare una vagonata di punti.

Oggi Alex ha incastrato un’ex modella devastata dalla droga, dopo un corteggiamento lungo due ore se l’è fottuta piazzandole tre contratti di fila (pentole, abbonamento telefonico, gas). C’è stata poi una discussione abbastanza aspra in merito, perché alcuni di noi volevano conteggiarla come vecchia, altri come VIP. Abbiamo stabilito alla fine che la categoria VIP prevale su tutte le altre. 

Alex si rigira Lena come una marionetta: lei lo guarda come farebbe con un gelato nel deserto, si vede che gli sbava dietro e che muore dalla voglia di farsi sbattere. Eppure Alex non ha fretta, come sempre, sa già di aver vinto.

Io li guardo, bevo la mia birra. Racconto della mia unica vendita del giorno ma nessuno sembra ascoltarmi, allora vado in bagno a pisciare ma non ci riesco. Ho qualcosa che mi stringe la vescica e mi fa pisciare a gocce dolorose, alla fine riesco a spruzzare sulla ceramica lercia del cesso un timido getto paglierino: mi bagno i pantaloni, le scarpe, torno a casa.

 

«Buongiorno, sono Massimo dal Servizio Assistenza. Lei è la signora Morganti, dico bene? Perfetto. La devo avvisare che sta pagando un sovrapprezzo sulla bolletta della luce…»

Il capo ci sfila dietro, le mani strette dietro la schiena, le ascelle sudate che sanno di foglie marce e foresta. Ci guarda, annuisce, ogni tanto picchia il dito inanellato sul copione. Attieniti al copione.

Il capo disapprova chi fa di testa sua, ma quando arriva da Alex gli batte una pacca sulla spalla e gli fa un goffo gesto di apprezzamento, tipo Fonzie ma più sfigato. Hey.

Alex annuisce e sorride, Lena annuisce e sorride. Annuisco e sorrido pure io.

Riprendo il copione, ho le dita sudate, giro due pagine per volta. Sento la preda che prova a smarcarsi: «Ho una riunione fra poco…»

«Faremo velocissimi, signora. Mi scusi. Allora»

Le pagine si scollano, ecco la riga giusta. Riprendo a leggere: «Sta pagando un sovrapprezzo sulla bolletta della luce a causa di un cambio normativo che purtroppo ha riguardato il suo attuale fornitore»

«Guardi, non mi interessa»

«Noi siamo obbligati a dare questa informazione per legge, siamo del Centro Assistenza. Una non profit che si occupa della tutela del consumatore. Se mi conferma gentilmente i suoi dati segnalo nella pratica che ha preso visione dell’informativa inerente i sovrapprezzi…»

«Ma mi state aumentando la bolletta? Non sto capendo»

«Signora, la sua bolletta è già aumentata. Io se vuole le posso proporre alcuni metodi per rientrare nella scontistica stabilita dalle ultime norme di settore. Mi conferma gentilmente i suoi dati?»

Alex ha già chiuso tre vendite. Fa la canna da pesca, il rodeo, la scopata, tutti ridono. 

Alla fine mi viene vicino con uno stecchino fra i denti, si toglie le cuffie e mi ascolta mentre arranco e provo a riprendere la mia preda che intanto si è allontanata. 

«Signora, mi sente? Signora»

Alla fine la chiamata viene interrotta bruscamente. Bestemmio. Alex si alza e mi fa un massaggio alle spalle.

«Sei stato bravo, novellino. Hai il flow giusto. Lo senti? Qua dentro» mi posa una mano umida sul torace «Io lo sento ed è esattamente come il mio. Quella era una vecchia ciabatta, non si merita neanche un minuto del tuo tempo. Tu però sei stato grande, continua così.»

 

Il primo giorno mi hanno assegnato Alex come tutor. Lui lo fa di buon grado, è qui da qualche anno ormai e ha imparato tutti i segreti del mestiere.

Gli altri colleghi si esauriscono e si dimettono dopo qualche mese, oppure trovano un lavoro migliore o si suicidano. Lui no, lui qui ci sguazza. Dice sempre che è una giungla, la sua giungla.

Da quando lo conosco Alex non ha mai sgridato nessuno dei suoi stagisti. Si è scopato Claudia e Viviana, questo è vero, ma non ha mai cazziato nessuno. Per lui siamo tutti campioni, tutti bravissimi. In realtà non ci avviciniamo minimamente alla sua produttività. Dice che è questione di esperienza, che bisogna farsi un po’ le ossa.

Viviana dopo qualche giorno ha mollato, ha confessato di vergognarsi come un cane a una vecchia che era quasi riuscita a intortare al telefono, ci ha fatto rischiare una denuncia. Anche in questo caso però Alex non l’ha sgridata, l’ha solo abbracciata mentre piangeva e gridava e le ha detto che la capiva, che questo lavoro ti dilania dentro. Poi l’ha portata fuori tenendola stretta come una bambina. Prima di uscire si è voltato e mi ha fatto l’occhiolino.

 

Alex mangia solo carne rossa a pranzo, dice che gli serve per mantenere la concentrazione. Lo guardo infilarsi fra le fauci un brandello sanguinolento di bistecca.

«È una giungla, qua fuori. O mangi o sei mangiato. Capisci?»

Annuisco, mangio la mia pasta fredda.

«Dovete levarvi questa cosa della pietà, la pietà è un’invenzione dei deboli, serve solo ai deboli per cercare di convincere i forti a non divorarli. Hai mai sentito di un leone che prova pietà per una mucca?»

«Non credo che i leoni mangino abitualmente le mucche»

«Non importa. Il leone mangia tutto. Il leone è il re della giungla, no?»

Ingoio la pasta che mi striscia nell’esofago come una lumaca e si accomoda indigesta nel mio stomaco minuscolo. Provo a bere dell’acqua, mi sento stretto e fasciato come un neonato irrequieto, mi sento stringere la gola.

Alex mangia altra carne, gli resta fra i denti una striscia rossa di sangue.

«Questa è una cazzo di giungla e tu sei il re. Il leone. Ricordalo.»

 

Un giorno, non so perché, guardo un documentario con Alex e Lena, dopo il lavoro. Un cacciatore segue i leoni non visto: la sua jeep riluce al sole asfissiante di un’Africa ipotetica. Il leone metafisico è una sagoma di carne e luce: si erge su una roccia nella savana che diventa giungla e città quando la guardi dalla prospettiva giusta.

Alex ingoia popcorn e si lecca le dita o le pulisce furtivamente sui capelli di Lena. Lei è troppo concentrata sullo schermo per notarlo, non si accorge nemmeno del mio braccio che lentamente le scende attorno alla vita e la stringe. Alex fuma, mangia, va in bagno. Ci siamo solo io e Lena davanti al televisore. Il cacciatore avanza acquattato nella vegetazione bassa e anemica della savana immaginaria che ci sta colando dentro le pupille.

«Il re della giungla.»

Il leone lo fissa con due occhi che sembrano mercurio, lo scruta dall’alto come noi guarderemmo un alieno: le sue mani, la canna del suo fucile.

Il cacciatore smette di respirare e noi con lui: Lena mi tocca la mano, si volta a guardarmi per un istante lunghissimo, nell’attimo esatto in cui sullo schermo divampa lo sparo.

Al lavoro passa un giorno intero senza vendite. Alex finge di non essere preoccupato, quando va in bagno però lo sentiamo gridare e bestemmiare. Anche il capo bestemmia, mentre passa fra di noi come un animale ferito.

Io e Lena invece usciamo a fumare. Le tremano le mani, così la aiuto ad accendere.

Fuma nervosamente succhiando la sigaretta come una cannuccia, la stringe fra i denti, la divora.

«Non ho ancora venduto niente»

«Non importa» le dico, avvicinandomi. Le sfiorò il braccio, sento che è calda. Le posso contare i battiti del cuore attraverso la stoffa sottile della camicia – la camicia di seta che le ha regalato la mamma quando ha saputo che l’avevano assunta in città. Le aveva comprato due tailleur e un set di camicie eleganti.

Lena mi chiede di aiutarla, di spiegarle come fare. Vuole che le stia vicino durante la prossima chiamata. Accetto di buon grado, anche se ho fatto solo tre vendite, accetto perché voglio sentire ancora quant’è caldo e vivo il suo braccio mentre alla scrivania si agita e prova a dimostrare al mondo di essere una leonessa.

 

Il momento più bello è la fine. Quando stacchiamo dopo il turno e torniamo nel parcheggio dove ci sono le macchine addormentate e le aureole sfrigolanti dei lampioni che attirano le falene. A volte fingo di non trovare la mia macchina per passare più tempo coi colleghi: qualcuno abbocca, mi offre una sigaretta. 

«Anche io faccio fatica a trovarla, ogni tanto» anche se il parcheggio è minuscolo, le auto sono pochissime, i lampioni illuminano tutto con uno sguardo indagatore e malvagio. A volte sembra che qualcuno ci osservi, da lontano. Io e i colleghi smettiamo di parlare e ci guardiamo attorno. Le sigarette ci bruciano le dita.

 

La sera mi addormento davanti al televisore, c’è un vecchio presentatore che parla a un pubblico raffermo. Ci sono i telefoni che squillano e le cuffie, il pubblico ride come una marea di annegati gonfi con le bocche spalancate, ci sono i loro sogni che come trapani ci stuprano le orecchie e ci scavano nel cervello un dolore inedito, ci paralizzano, ci svuotano. Qualcuno mi telefona, quando rispondo sento solo un respiro o forse un’interferenza.

«Pronto?»

 

Mi gratto la nuca, la forfora mi piove sulle spalle come neve dolorosa. Lena accanto a me si morde un labbro, si tortura un orecchino con le dita.

«Pronto? B-buongiorno signora, sono Maddalena del Centro Studi di Settore. Abbiamo individuato un campione di consumatori che stanno pagando più del dovuto per la p-prestazione di… di servizi… essenziali…»

Le poso una mano sulla spalla, sembra farsi coraggio. Vedo che mi sorride senza alzare gli occhi. Sospira, si riprende: «Dovrebbe confermarmi le sue spese per permettermi di valutare il danno che finora ha subito. Certo, possiamo aiutarla a recuperare i soldi. Assolutamente»

Le giro le pagine del copione come a una pianista. Lena prende a ondeggiare lentamente sulla sedia. Ora è calma. Il suo corpo dondola – a occhi chiusi, al buio – dondola sulla sedia e si prepara all’attacco finale.

«Mi ricorda il suo codice fiscale?»

 

La porto fuori a bere. Mi racconta di sua madre, dell’università. Alla fine siamo ubriachi, ci trasciniamo nel suo appartamento arrancando sulle scale come naufraghi, mentre ridiamo e piangiamo e ci spogliamo con le mani che tremano. Alla fine Lena è sul letto, le gambe aperte, la testa che sporge dal materasso e guarda il mondo a rovescio. Provo a penetrarla ma non mi diventa duro, dopo un po’ mi stacco e la fisso mentre guarda il soffitto come se fosse un cielo stellato, lei non se ne accorge nemmeno perché sta già piangendo. Dopo qualche singhiozzo rotola sul pavimento e viene devastata dai conati. Mi dice di andarmene, mi graffia, mi spinge fuori dalla porta. Poi mi telefona e si scusa, restiamo al telefono per un’ora. Piangiamo tutti e due, alla fine.

 

Alex sta parando col capo da un po’ di giorni, penso voglia una promozione. Quando esce dal suo ufficio – un cubo di vetro in un angolo dell’open space appena meno miserabile delle nostre scrivanie grigie – ha un bel sorriso corsaro sulle labbra. Ancheggia mentre ritorna alla sua postazione con una posa da vincente.

«Avuto l’aumento?» gli chiedo.

«Un leone ha sempre quello che vuole. Cibo e leonesse.»

Lena si tocca i capelli, gli sorride. In pausa pranzo li guardo accordarsi per vedersi, quella stessa sera. Non mi invitano.

 

Ho le emorroidi. Mentre sono sul cesso per provare a cagare, di notte, mi contorco e sudo. Sento qualcosa che si strappa dentro, forse c’è del sangue. Poi il telefono comincia a squillare.

Mi alzo di scatto e corro a rispondere saltellando coi pantaloni abbassati alle caviglie. Sarebbe grottesco morire così. Un brivido mi passa lungo la schiena, chissà perché penso a certe cose. Afferro la cornetta, rispondo. Intanto guardo fuori dalla finestra che sembra la cornice vuota di un quadro nero: non si vede nulla, solo palazzi identici anneriti dalla notte.

«Pronto?»

Dal ricevitore parte un gorgoglio che si trasforma in una serie di scatti meccanici. I suoni si stipano, si alzano: diventano una voce. Quando il telefono ride e latra lo getto a terra e corro a letto, ho l’impressione che qualcuno mi segua: chiudo la porta, m’infilo sotto le coperte col fiato che mi squarta il cuore, conto i battiti come a Lena attraverso la camicia, la coperta mi nasconde quello che succede nel resto della casa. Uno, due, tre, quattro.

Il telefono è in cucina, per terra, sta continuando a stridere come un animale al macello. Mi sanguinano le orecchie, qualcosa si spezza, un guscio, un incanto.

Cinque, sei, sette, otto. Grida il dolore di tutte le notti passate da solo, di tutte le chiamate senza risposta, amori non corrisposti, fogli di carta taglienti, nonni morti, stelle spente che continuano a mandare stancamente la loro luce maledetta nella pancia vuota della periferia più sperduta. I battiti aumentano, la coperta basterà a difendermi da tutto questo? D’improvviso torna il silenzio e scopro che è ancora più terrificante di qualsiasi rumore umano o inumano. Quando mi risveglio è l’alba, il telefono ha sparso a terra le proprie viscere elettriche, le coperte sono lacerate da graffi e morsi.

 

Lena inarca la schiena, le mani di Alex le avvolgono i seni. Li vedo ogni volta che chiudo gli occhi.

Chiamo tre numeri in rapida successione. Pronto? Mi gratto la nuca sino a staccarmi un pezzo di pelle coriacea delle dimensioni di una moneta. 

«Pronto?»

Quando deglutisco immagino di ingoiare boli di sangue o peli che mi s’impigliano fra i denti, il telefono squilla ancora nonostante sia staccato, nonostante abbia lo schermo infranto in una ragnatela di frammenti taglienti. Chiudo gli occhi e vedo Lena che si accoscia, che abbassa con le mani assetate i pantaloni di Alex.

Il capo passando mi schiocca le dita davanti agli occhi. Sei sveglio? 

Annuisco, sorrido. Pronto. Anche Lena annuisce e sorride mentre Alex le lecca la gola e le entra dentro come una malattia, filtrato dai pori, inalato dalle narici, assorbito dalla superficie bagnata delle mucose. Alex e il lavoro sono dovunque, ci assediano. Poi tutti i telefoni dell’open space cominciano a suonare contemporaneamente. Ci guardiamo, guardiamo il capo che fa segno di rispondere con un sorriso incerto. 

«Pronto?» le nostre voci si fondono in un unico canto condiviso: sento Lena che sospira, il capo, i colleghi. I leoni. Alex alla mia destra è l’unico che si è tolto le cuffie e si guarda attorno spaesato. I telefoni sospirano, sbavano, poi esplodono in un urlo assordante che spacca i vetri delle finestre: è la fine, è la giungla. Il vento ci ricopre di schegge lucenti mentre cerchiamo di capire, di richiamare, di restare in linea. Anche i muri tremano, ormai, si scrollano di dosso le nostre paure come parassiti: siamo soli. 

Il capo corre nel suo ufficio che ora è un cubo tagliente di macerie. Prova a chiamare la direzione. Bisogna avvisare qualcuno, bisogna fare qualcosa. Prova a cercare aiuto? Le orecchie di tutti si spengono a turno – il suono di un vuoto familiare, la circolazione del sangue, il silenzio – e ci lasciano galleggiare nell’istante eterno fra due squilli consecutivi. Lena si volta, mi chiama ad alta voce ma è quasi impossibile sentirla dietro il frastuono dei telefoni impazziti. È un canto, è un lamento funebre, è un epilogo. Alex nel preciso momento in cui lo guardo si alza in piedi e fissa un punto buio oltre la finestra divelta che ha di fronte. Lo indica con il dito che trema. C’è qualcosa che ringhia nel buio. Pronto, pronto, pronto.

Immagine generata con DALL-E
“a lion in a suit and tie with call center headphones and microphone, oil painting”