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Ho due anni e mezzo. Mia madre e mio padre ne hanno rispettivamente ventinove e trentadue. Sono giovani e belli e circondati da amici giovani e belli come loro. Con il lavoro hanno acquistato una grande casa a due piani e io adesso mi ritrovo proprio a metà tra i due, né esattamente al primo e nemmeno esattamente al secondo. Seduto sulla scalinata che porta alle camere, li osservo attraverso le fessure del corrimano in legno, e immagino che nessuno possa vedermi.

Mi hanno portato a letto alle undici, nella mia camera, dandomi un tenero bacio sulla fronte che a me fa sempre salire un formicolio dalla nuca fin dietro le orecchie, non so se per il contatto delle labbra morbide di entrambi o per la consapevolezza che presto sarò solo al buio. Vorrei dirgli che so che mi amano, lo sento quando mi baciano e attendono un secondo in più del necessario per staccarsi. Quel momento, in cui abbassano le palpebre senza rifletterci, mi lascia intendere ciò che a parole non riuscirei ancora a comprendere. E loro si chiedono chissà, se già lo capisci. Magari lo sperano. Vorrei dirgli che sì, già lo capisco. Che non saprei spiegarne esattamente il motivo, ma lo so che sono importante per queste persone, anche se non ho fatto davvero nulla per esserlo.

Sono lì sulle scale, ora. Loro mi hanno salutato e sono poi ridiscesi giù in salone coi loro amici, per proseguire questa festa di persone tutte uguali.

Parlano e ridono e tengono il volume della musica abbastanza alto da farlo arrivare fin qua, e così quando sono andati via io non ho fatto altro che continuare ad ascoltare, finché non ho tirato giù le coperte e poggiando i piedi nudi sulla moquette verde, morbida come un prato appena tagliato, attraversata dai tubi del riscaldamento interrato che nemmeno per un attimo mi hanno fatto sentire freddo, sono uscito dalla stanza.

E ora non so che fare: se restare qui nascosto per paura di essere rimproverato oppure scendere questi altri sei scalini. Sono perlopiù in piedi e sorridono divertiti mentre si muovono disordinati nella piccola cucina con la porta a vetri che dà sul giardino, aperta ma chiusa da una zanzariera, sempre avendo come centro di gravità il tavolo, da cui raccolgono patatine e bevande senza nemmeno osservarle, continuando a parlare e ridere guardandosi negli occhi, come fa chi sa esattamente cosa sta per dire l’altro o sa perlomeno quali saranno le conseguenze delle sue parole, ovvero una risata, in cui infatti scoppiano ancor prima che la frase sia terminata.

Decido di scendere. E quando entro mia madre si avvicina e non mi rimprovera, anzi, mi prende in braccio non perdendo il sorriso che aveva fino a quel momento, e attraverso quel sorriso mi dice qualcosa. E io sento la sua bella e giovane bocca rosa, sul volto più candido che pallido, incorniciato da capelli biondi ben pettinati, puzzare di vino.

La vedo aprirsi e poi richiudersi immediatamente, la lingua toccare il palato e poi tornare tra i denti e le labbra e infine stringersi, spingendosi in avanti incoraggiante. Emette suoni fluttuanti, che giungono lontani eppure caldi, familiari. Suoni che ho imparato a riconoscere ancor prima di venire al mondo.

Si accosta a me e mia madre anche un uomo, che non è mio padre: alto, snello, i capelli corti e scompigliati. Anche lui dice qualcosa, si rivolge proprio a me, avvicinando la sua faccia alla mia, tant’è che avverto quasi un’esigenza sconosciuta, quella di formulare una risposta. Ma senza attendere sorride e mi infila una mano, quella che non regge il bicchiere, tra i capelli, e li scompiglia mentre intanto già si volta per tornare a orbitare intorno alla tavola.

Mia madre mi riposiziona a terra senza dire nient’altro, e nel momento stesso in cui poggio i piedi, o forse anche prima, prendo a vagare per la stanza, come se mi avesse caricato a molla, e con la testa guardo in alto verso tutte queste persone che paiono statue di un’antica civiltà precolombiana.

Parlano di cose che non capisco, ma posso dire che nel farlo sembrano felici. Da qui, il contenuto scuro dei loro bicchieri è attraversato dalla luce del neon che sta proprio al centro del sotto, sopra al tavolo, e crea degli strani riflessi, come quando apri gli occhi dal fondo di una piscina e ti volti a guardare il sole.

Osservo l’orologio rotondo a muro, le tacche nere su fondo bianco. Anonimo al limite dell’amnesia. Segna la mezzanotte.

A terra tappi di sughero, pezzetti di carta e patatine frantumate, troppo piccoli perché loro li vedano, si perdono tra i riccioli della moquette dove resteranno incastrati per sempre.

La musica qui è ancora più forte, satura la stanza di frequenze e anidride carbonica, e non c’è modo di distinguerla dalle voci, che si sovrappongono in un discorso vacuo dal punto di vista comunicativo, ma logico in termini armonici.

Mi piego e gattono fin sotto al tavolo. Vedo solo le loro gambe, da qui. Pantaloni grigi che digradano morbidi su lucide scarpe nere, polpacci sottili e caviglie strette che terminano in graziose ballerine. Gambe che si muovono e si incrociano, fino a confonderne i proprietari. I loro movimenti attorno al tavolo, tagliata via la parte superiore del corpo, quella razionale, hanno un ritmo e un linguaggio che loro non sanno nemmeno di parlare. Nessuna di queste persone sarà mai più così giovane quando comincerò a ricordare.

Mi siedo senza pensare. Non ho passato né futuro ancora. Sono solo un agglomerato di possibilità infinite che covano dentro di me come radici luminose, pronte a diramarsi nell’una o nell’altra direzione. È trascorso così poco tempo dalla nascita che mi sembra di poter ricordare cosa significhi non essere ancora in vita.

Mi sento al sicuro, qui.

E proprio quando inizio a rilassarmi, ad avvertire una leggerezza, le gambe attorno al tavolo cominciano a muoversi sempre più rapidamente, come impresse su una registrazione mandata avanti veloce.

Gonne e pantaloni si ritirano, diventando corti e colorati, e ai piedi degli uomini e delle donne appaiono scarpe aperte. E poi le gambe tornano a essere coperte come all’inizio, in un’alternanza che si fa sempre più veloce nel turbinio dei movimenti che riesco appena a scorgere. Vedo la figura di un bambino senza volto entrare in cucina, camminare incerto sporgendosi incautamente in avanti, le sue braccia sostenute da una persona alla sua destra e una alla sua sinistra. E poi quella stessa figura allungarsi nell’orlo di un grembiule, e uno zaino a un certo punto, gettato a terra di fianco al divano. Scarpe da calcetto, sportive e colorate, ma sempre accompagnate da due paia di gambe che non gli stanno mai troppo lontane. E poi sneakers slacciate in fretta e lanciate via assieme a un altro paio, femminili, e quattro gambe che s’inerpicano per poi scomparire furiose sul divano. Vedo la disposizione dei mobili, in alcuni momenti, cambiare improvvisamente. Il frigorifero venire avanti e poi tornare meccanicamente indietro. Carta di giornale sistemata a terra, un secchio di vernice e i piedi di una scala. E poi di nuovo figure di bambini, stavolta due, seguite da scarpe da uomo e tacchi da donna, e giochi sparpagliati a terra, mentre le solite due paia di gambe appaiono sempre più magre, ora, più spesso sedute che ritte in piedi. E nuovamente una selva di gambe tutte attorno al tavolo, come il giorno della festa, coi pantaloni e le scarpe, le gonne e i tacchi, stavolta tutti neri.

E poi più nessuno per un po’.

Quando esco da lì, a malapena sono in grado di riconoscere dove mi trovo. Solo la porta a vetri che dà sul giardino è ancora nello stesso punto, e la moquette è più ispida ora, e l’orologio a muro segna sempre la mezzanotte. Tutto il resto ha modificato la sua posizione o è scomparso.

Attraverso la soglia che dalla cucina porta all’ingresso, dov’è ancora la scalinata. Nel farlo mi guardo attorno, alla ricerca di qualcosa di familiare.

A fatica risalgo su per gli scalini, stanco e malfermo, tenendomi al corrimano, fino a giungere al piano superiore. La porta della mia camera è socchiusa. Entro. Coperte e lenzuola sono ancora disfatte come le avevo lasciate. Mi sistemo a letto, coprendomi fin sopra al mento. La luce è spenta, la stanza è buia. Mi volto su un lato, sdraiandomi sul profilo sinistro, entrambe le mani tra la guancia e il cuscino.

Non sento più musica né voci provenire da giù. Nessun bacio sulla fronte.

«La festa dev’essere finita», mi dico.

Immagine generata con DALL-E
“legs of people under a table, impressionist painting”