Wrestling (Predatori e Prede)

Rabbia: irritazione violenta prodotta dal senso della propria impotenza o da un’improvvisa delusione o contrarietà, e che esplode in azioni e in parole  incontrollate e scomposte. 

Quindi anche furia bestiale, violenza non controllata e moderata dalla ragione. 

In altri casi indica una irritazione grave e profonda. 

Nell’uso popolare è spesso sinonimo di ira.

Diz. Treccani

È sola. È di nuovo sola. In quel bar dove va ogni tanto a bersi una birra e mangiare patatine  fritte, quando fa tardi al lavoro. Vive in un monolocale, con le tende rosse sempre chiuse e non ama cucinare. La birra la preferisce rossa, perché è più amara. La beve a piccoli sorsi, per far passare il tempo, per non avere fretta di rientrare.

Da qualche tempo si è messa in testa di fare equitazione. Un sogno di quando era bambina. Una sera nel bar, ha conosciuto un tizio che addestra cavalli, lei gli ha detto: 

«Era il mio sogno da bambina!» e lui le ha detto:
«Perché non provi?»

 

Sola, per una sera non sono da sola. Le patatine fritte sono ancora bollenti. La birra, non devo berla troppo in fretta o mi da alla testa. Non voglio perdere la testa. Non uscivo con un ragazzo da un anno. E mi sono scottata la lingua. Lui se n’è accorto. Ha riso. Non sopporto quando ridono di me. Non sopporto che si rida di me. Però è carino. Non lo so se è carino. Non m’importa.

Un po’ di compagnia. Mica devo per forza andarci a letto. Io non ci vado a letto al primo appuntamento. Quando l’ho fatto non mi è piaciuto. Sarà successo tre volte e non mi è piaciuto.

Non mi piace la sensazione di farlo per farlo. So che se lo facessi, poi mi disprezzerei. L'ho fatto e mi sono disprezzata

Io comunque lo trovo carino. Non lo sto ascoltando. Non ascolto quasi mai la gente, quando mi parla. Soprattutto le persone poco intelligenti. In generale ascolto solo i discorsi che trovo interessanti. Gli guardo le spalle. È l’unica cosa che mi interessa di lui. Sono enormi. Due spalle enormi. È quello che ho pensato appena l’ho visto. Accidenti che bel paio di spalle. Lui ha sorriso. Aveva la stessa aria da scemo di adesso. Non so, a me sembra che tutti quelli con tanti muscoli hanno quell’aria lì. Sarà anche un luogo comune. Ma è come se si bruciassero i neuroni, insieme alle calorie, in palestra. E poi di cosa parlano in palestra? Di cosa diavolo parlano, tutto il tempo, in una palestra?

 

È sabato, ha preso il treno ed è andata fuori città. Un’ora intera, senza parlare, guardando fuori dal finestrino. L’addestratore è andato a prenderla alla stazione di questo paesino sperduto tra campi coltivati, strade sterrate e qualche albero qua e là. Non è ancora estate, non fa ancora caldo. 

Un’aria vibrante, l’ha accolta, appena scesa dal treno. Come se fosse un luogo più vivo. Un posto dove vivere, ha pensato. Lui la porta al maneggio, e le fa prendere confidenza con il cavallo. Prima di montarlo lo deve spazzolare, parlargli. Sono animali timidi. 

«Come te» le dice lui. 

«Non guardarlo negli occhi. Perché anche se sei timida il tuo sguardo è uno sguardo duro. Il loro istinto è quello delle prede. Non hanno mai smesso di pensare di essere prede. E si proteggono. Per questo devi stare attenta a non toccarli in alcuni punti. Perché sono i punti dove loro si aspettano il morso del predatore. Come sotto la pancia. O dietro, alle gambe, loro sanno che se morsi lì cadrebbero e sarebbero perduti. Quando li spazzoli devi sempre fare sentire loro dove sei. Devi fargli conoscere la tua posizione. Li spazzoli dalla testa alla coda e poi, girando intorno, dalla coda torni alla testa. E la mano che non spazzola gliela appoggi al corpo, così loro sanno dove sei.»

Lei ascolta e prende mentalmente nota di tutto. Vuole imparare. Le è sempre piaciuto imparare. 

Poi finalmente lo monta. Prima va al passo, poi trotto e poi persino al galoppo. 

Un animale immenso. Forte. Timido e forte. Tutto muscoli e nervi. E tanta timidezza. Una incurabile timidezza. E la paura del predatore. Che non lo abbandona mai.

 

Non pensavo facesse un mestiere così. Non pensavo nemmeno che fosse un mestiere. Non pensavo fosse uno sport. Un lottatore. Avevo capito che era uno sportivo. Ma non pensavo una cosa del genere.

Sale sul ring e fa finta di picchiarsi con altra gente. Magari qualche botta se la danno. Gli ho detto che non ha l'aria di uno che picchia. Per questo usiamo la maschera, mi ha risposto.

La maschera serve a renderci cattivi. Fa parte dello show. Mi ha detto. Io non sopporto le parole inglesi. Non le reggo. Quando vengono infilate in un discorso, producono sempre una specie di stonatura. Come un sorriso forzato. Lo vedi e ti fa un po’ schifo. E un po’ pena. Lo show. Che stronzata. Però adesso lo trovo interessante. È una cosa ridicola, ma lo trovo interessante. Per la prima volta esco con uno che fa una cosa interessante. Oddio, non che mi capiti molto spesso di uscire con qualcuno. Ma questo non è solo per colpa mia. Dicono che non sono bella. Io di sicuro non mi vedo bella. Ma neanche brutta. Non si può dire nemmeno che io sia un tipo. Che poi cosa vuol dire un tipo? Oddio, non lo sto di nuovo ascoltando. Mi sta raccontando del suo ultimo incontro. Era l’ultimo? Dovrei imparare ad ascoltare le persone quando mi parlano. E se mi domanda cosa ne penso? No, io non sono un tipo. E non sono né bella né brutta. E allora cosa sono? Ecco, non sono nulla.

 

La seconda volta al maneggio. È già estate, fa caldo. Una giornata che non potresti dire né bella né brutta. I campi trasudano umidità e odore di diserbanti chimici. Un cielo quasi lattiginoso. Nessuna ombra di temporali all’orizzonte. 

L’addestratore le fa provare un altro cavallo. Le racconta di quanto è stato difficile domarlo. Che era un cavallo davvero ribelle. Le spiega che per domarli devi proprio toccarli nei punti dove gli fa più paura. Quelli dove loro, per istinto, sanno che morderà il predatore. Che quel terrore li disorienta. E li doma. Perché capiscono che puoi fare loro del male. Che sono nelle tue mani. Lottano come pazzi. Ma poi imparano a riconoscere la tua supremazia. E la rispettano.

«Si fa così anche con le persone» le dice l’addestratore. E le strizza l’occhio. Lei ascolta, prende appunti mentalmente. Le piaceva prendere appunti, a scuola. Scrivere e riscrivere le lezioni. Perché niente le sfuggisse. Perché tutto fosse catalogato e ordinato. La faceva sentire sicura. 

Altre carezze per abituare il cavallo. Altre parole sussurrate ai suoi orecchi inquieti. Le mosche lo tormentano. 

«Dovevo mettergli la maschera» dice l’addestratore. 

«Quale maschera?» domanda lei. 

«Quella per le mosche. Perché non lo infastidiscano. Ma ormai è fatta. La prossima volta la vedrai.»

E vanno a galoppare per un sentiero che si allontana tra i campi, verso un orizzonte che è come una piccola cerniera che tiene legati cielo e terra. 

 

Odio le cerniere. Non riesco ad aprirla e sto facendo la figura della scema. Questi pantaloni sono così stretti. Tutti i tipi muscolosi li portano stretti. Sento il suo pene già rigido sotto la stoffa del jeans. Che cosa ridicola dover fare queste cose per non sentirsi soli. Che condanna. Ecco che lui decide di aiutarmi. Odio questi istanti. Vorrei che fosse già tutto finito. Non sarei dovuta salire in casa sua. Odio essere nel suo territorio.  Sul divano del suo salotto. Odio che abbia acceso le candele. Come se fosse necessaria una qualche atmosfera per convincermi a fare quello che avevo già deciso di fare. Come se dovesse domarmi.

Non credevo che un tipo come lui avrebbe fatto il romantico. Mi ha già toccata un po’ dappertutto. Mi ha già messo un dito dentro, infilando la mano sotto la gonna e scostando di lato le mutandine. Mi ha messo un dito dentro e l’ha mosso senza convinzione, mentre mi baciava sul collo. Come se fosse incerto se fosse quella la tecnica giusta. Come se avesse dei dubbi se era quello che veramente volevo. Io so solo che voglio che tutto questo finisca.

Che finisca la cera delle candele e che nel buio finisca tutto.

È dentro alla scuderia. Al buio. I cavalli per riposare hanno bisogno del buio. È passata una settimana. L’addestratore si è allontanato per andare a prendere una sella adatta a lei.
«Una sella comoda”» ha detto. E l’ha lasciata lì, nella scuderia, un lungo corridoio completamente buio. La luce entra alle sue spalle e muore nella polvere pochi metri di fronte a lei. In fondo, altra luce filtra dall’uscita. Lei cammina nel buio. Ai lati i box dei cavalli. Alcuni con i cancelli spalancati e vuoti. Altri chiusi. Non vede nulla. Solo ogni tanto sente dei tonfi nel terreno, degli sbuffi, qualcosa di enorme che si muove nel buio e che resta in un silenzioso timore. Quando è quasi al centro del corridoio, da un box chiuso, l’improvviso abbaiare di un cane, legato ad una catena. Si mette a correre, con il cuore in gola, e arriva quasi all’uscita. Rallenta, si deve sedere. Si siede su una panchina di legno. A pochi metri dalla luce, dove tutto è già un po’ meno buio. Una penombra in cui la polvere vortica lentissima. Ha voglia di piangere e non sa perché. Poi appaiono. Vede prima gli occhi. Incomprensibilmente vede prima gli occhi. Due paia di occhi nerissimi. Che la scrutano dai box chiusi di fronte a lei. E poi le maschere. Quelle maschere. Le maschere di cui gli aveva parlato l’addestratore, quelle che servono a proteggere i cavalli dalle mosche. Sono maschere nere, di un tessuto lucido simile al raso. Ricoprono le orecchie e parte del muso, lasciando libere le narici, gli occhi e la bocca. I cavalli mascherati la guardano dai loro box. Le ricordano qualcosa di molto pericoloso. Qualcosa che non ha un nome. Arriva l’addestratore con la sella in spalla. La aiuta a rialzarsi. Le prende il viso tra le mani e le da un lungo bacio. Con la lingua. Poi le dice: 

«Andiamo.»
Lei lo segue e sente quelle due teste mascherate voltarsi lentamente, per seguirla mentre si perde nella luce.

 

La sua camera. Mi vergogno sempre del mio corpo nudo. Mi tiene la mano e mi sta tirando verso il letto. È nudo anche lui. È eccitato. Ma io non riesco a smettere di guardare quella maschera sul suo comodino. È rossa e gialla. Di raso lucido. Mi guarda. Mi sembra proprio che mi guardi. La testa di manichino su cui è calzata non ha occhi né bocca. Ma sento che mi guarda e che fa come un ghigno. Come se ridesse di me. Lui mi tira forte e mi fa cadere con lui sul letto. Mi bacia. Mi bacia la bocca e i seni. Mi mette una mano tra le cosce. Io mi afferro alle sue spalle. Accarezzo i suoi muscoli, cercando di eccitarmi. Sono così tesi e duri. Né tocco tutti i rilievi, stringo i fasci tra le mie dita, cercando di fargli male. Lui mi monta sopra. È sopra di me, con tutto il suo peso. Gli chiedo di mettersi il preservativo, inarcando il pube per impedirgli di penetrarmi.

Lui dopo alcuni tentativi, sbuffa, si alza, apre un cassetto del comodino su cui c’è la sua maschera e tira fuori una scatola di preservativi. Se ne infila uno stando in piedi davanti a me, con il pene eretto, mentre io non smetto di guardare la sua maschera, che sembra essersi leggermente voltata per guardare meglio la scena. Di nuovo il suo peso sopra di me. Il suo pene che entra. Incomincia a muoversi ritmicamente. Sembra convinto che mi piaccia. Si regge sulle sue enormi braccia e mi da dei colpi sempre più forti. Il suo pube sbatte contro il mio, ed io cerco di bloccarlo con le mani mettendogliele sul bacino, perché mi arriva fino in fondo e mi fa male. Lui crede che i miei gemiti siano di piacere, ma io sento solo male. Ma mi vergogno a dirglielo. Non voglio parlare con lui, adesso. Ma più io gemo e più lui colpisce forte, si muove come un ossesso sopra di me, ed io sento che potrei sanguinare, sento che mi potrebbe far sanguinare, ma non parlo. E gemo.

 

L’ultima cavalcata agli inizi di settembre. In una giornata leggermente ventosa. Con il cielo così terso che le montagne sembrano più vicine e tutti i colori della campagna sembrano poter esplodere da quanto sono vividi e intensi. Ormai ha preso il ritmo del galoppo, riesce a sentirsi, anche se per brevi istanti, tutt’uno con l’animale che sta sotto di lei. Un animale immenso, poderoso, animato da una forza incontrollabile, eppure sottomesso alla sua volontà, pauroso, timido, che obbedisce al suo comando. L’addestratore è al suo fianco. Le sorride. La incita e le dice brava. Non ha mai più provato a baciarla da quel giorno. Non c’è stato nemmeno bisogno di parlarne. È solo una cosa che è successa, tra loro, una delle tante. In un giorno qualsiasi delle loro vite. I cavalli non hanno le maschere, non ce n’è bisogno in quella giornata di vento. Si fermano a riposare vicino ad una piccola radura, mentre i cavalli brucano l’erba. Lei accarezza il suo cavallo, mentre l’addestratore sta coricato sotto una pianta, fumando. Accarezzando l’animale sul fianco, scende con la mano verso la pancia, verso la parte del corpo che non bisogna toccare, perché è dove attaccano i predatori. Il cavallo è tranquillo. I suoi muscoli tremano, facendo scintillare il suo manto, alla luce del sole che comincia a declinare. La sua mano sfiora la sacca del pene. La sfiora soltanto. Una pelle ruvida come cuoio non conciato, e calda. Senza peli. Il pene del cavallo sbuca fuori per metà dalla sacca e penzola all’aria. Lei si volta e guarda verso l’addestratore, che ha finito la sigaretta, e sta guardando il cielo, con le braccia incrociate dietro la testa.

Allunga la mano verso la punta del pene. La accarezza, questa si ritrae e rientra nella sua sacca. Lei si porta la mano alla bocca, succhia le dita. Poi si volta e dice:
«Torniamo?»

 

Mi sono messa a cavalcarlo, così magari smette di farmi male e riesco a provare un po’ di piacere. 

Così mi posso muovere come piace a me. Il suo pene è durissimo. Lo faccio rimbalzare contro le pareti della mia vagina, muovendo avanti e indietro il bacino, mentre mi tengo con le mani appoggiate ai suoi pettorali. I suoi muscoli fremono per l’intensità del piacere. Ma non riesco a smettere di guardare la sua maschera. Mi sento osservata da quegli occhi neri, incorniciati di giallo. Mi sembra che rida di me. Che sappia tutto di me. Che mi legga i pensieri. Che conosca i miei segreti. E non voglio. Sento che quella maschera sa qualcosa di me che nemmeno io so. E che potrebbe iniziare da un momento all’altro a parlare e a dire chi sono. Chi davvero sono. Ed io non potrei sopportarlo. Senza smettere di muovermi, senza chiedergli il permesso di farlo, prendo la sua maschera, la sfilo dalla testa del manichino e la indosso. Lui ride, lo trova un gioco divertente. Forse eccitante. Dice qualcosa che io non ascolto. Ed io mi muovo sempre più forte. Fino a fargli male. Fino a farmi male. E poi salto con il pube sulla sua testa, la incastro tra le mie cosce, e mi giro di lato, di scatto, senza smettere di stringere, mentre lui cerca di colpirmi, fino a quando le sue braccia non cadono lungo i suoi fianchi. Fino a quando non smetto di sentire il suo respiro contro il mio sesso. Fino a quando non smetto di sentire la sua maschera parlare, e ridere, di me, attraverso di me.

Immagine generata con DALL-E
“a red and yellow wrestling mask is displayed on a bedside table, oil painting”