Prima, durante, dopo

PRIMA

È nelle parole che si nasconde ciò che vogliamo comunicare. O nel silenzio.
Quando l’ho conosciuta la sua parola preferita era crollare.
La ripeteva continuamente. Se la riavvolgeva, sulla sua stessa lingua, come i vecchi nastri VHS dopo aver premuto il tasto Rewind.
Che bel verbo, diceva, esplicativo e limpido. Incredibilmente distruttivo e profondamente devoto alla ricostruzione. Perché quando tutto precipita, cosa c’è di più spontaneo, poi, del provare a rimettere insieme i pezzi in tutta fretta?
Quel verbo racchiudeva il senso di una vita. Ma ai tempi non lo sapevo ancora. E non parlo di retorica. Non c’è nulla di retorico in un corpo che crolla, che si piega su sé stesso. Come un palazzo. Uno di quelli belli – magari di un dolce color pastello – con le finestre decorate e i balconcini rivolti a est che un giorno decide di essere stanco di ospitare modi di fare, andirivieni di atti e pensieri, piatti preferiti e serie tv infinite e pensa che sai che c’è? Quasi quasi mi lascio andare. Mi piego. Tump. Un attimo e carta da parati e persone non ci sono più.
E il suo corpo è così che era crollato, lasciando sotto le macerie ecosistemi ed equilibri instabili. Anti, anti, tanti anti disposti in fila come soldatini nel mobiletto del bagno pronti a combattere anni di cliniche, lacrime, abbracci ricevuti e mancati, sensi di colpa e la ricerca ossessiva di una qualsivoglia forma di normalità.

Mi ha confessato, un giorno, che la prima volta in cui ha sentito il Tump era un pomeriggio di giugno del suo ultimo anno di Università. Skinny Love di Bon Iver, finestra aperta, sigaretta accesa e occhi che guardano giù in strada a immaginare la vita degli altri.

Mi sembra di vederla. Ha 24 anni ed è un cliché. 

Si siede sul davanzale, la prima gamba penzola nel vuoto. Arriva la seconda. 

Tump.  

Non le interessa più cosa attraversa la mente degli altri, ma piuttosto cosa penseranno quando la vedranno atterrare. Prova un immenso dispiacere all’idea che qualcuno possa restarne traumatizzato. 

Tump.

Sua madre piange. Suo padre fissa un punto nel vuoto. Sua sorella non sarà più la stessa. Tutti crollano. 

Tump. Tump. Tump.

Rientra e chiude la finestra, ma è da quel momento – dice – che morire non la spaventa più. 

Altre centinaia, migliaia, di Tump scandiscono la sua quotidianità meglio di qualunque orologio. 

Ogni volta che il dolore diventa insopportabile, chiudere gli occhi e pensare che potrebbe crollare, dona regolarità al suo respiro. 

Sotto ai palchi dei concerti, ubriaca al bar con gli amici, è l’idea della morte a tenerla in piedi. 

La domanda che porrà continuamente a sé stessa e raramente ai pochi che riusciranno a capire cosa si nasconde dietro le tendine di un bel palazzo affrescato sarà sempre una: è più egoistico il suicidio o tenere legati a sé – anche se per amore – qualcuno che vorrebbe non esserci più? Crollare è ricostruire. Anche una vita senza di me.

DURANTE 

Dopo dieci anni il suo verbo preferito è cambiato. 

Ora è Annidare

Continua a ripetere – come una litania – che il dolore, come il fumo, si annida

Che il fumo è ciò che più di vicino c’è al dolore.

Basta accendere una sigaretta per impregnare tende, cappotti, cuscini, divani, di un odore forte – acre – fastidioso – che, come il dolore, difficilmente scivola via con il sapone.

E il fumo, come il dolore, si è annidato. Lentamente. Giorno dopo giorno. 

All’inizio pensava bastasse aprire una finestra, respirare piano. Pensare.

Tump. 

Sputare fuori dal corpo il fastidio a colpi di tosse, lacrime e parole.

Tump. 

Uscire di casa con indosso i vestiti fumosi dopo aver spruzzato loro sopra un po’ di profumo.

Tump. 

Vivere. Ridere. Camminare. Convinta che di quel fumo addosso se ne potesse dimenticare. 

Tump. 

Ma poi ha smesso di funzionare. 

Il fumo le ha riempito le narici per rendere chiaro che era lì, annidato, nelle tende, i cuscini, i divani, le ossa, l’anima. E il fumo – come il dolore – non si può toccare. Non si può spiegare. Non si può spegnere. Si annida. E a poco a poco prosciuga.

Perfino i Tump sono diventati flebili a forza di andare avanti con gli occhi lucidi e il suono delle risate che diventano roche.

DOPO

Ci piace aggiungere il suffisso RestiamoUmani al nostro cognome sui Social Network. Provare empatia per chi soffre. Divorare articoli che raccontano storie terribili con gli occhi lucidi e le mani strette intorno a una birra ghiacciata. Mandare messaggi all’amico che vorrebbe urlare in faccia al mondo tutta la rabbia che ha in corpo dicendogli che andrà tutto bene, che noi ci saremo sempre. Sentirci in pace con noi stessi, buoni, caritatevoli, disponibili, presenti. Ma la verità è che il dolore altrui non ci appartiene.

Ce ne dimentichiamo l’attimo dopo averlo incrociato, annusato, visto, ed esserci dati una pacca sulla spalla come a congratularci con noi stessi per la nostra fortuna e generosità.

Quella mattina mi è apparsa chiara e incontrovertibile la verità che solo chi lo prova conosce il dolore e che a un certo punto potrebbe – semplicemente – decidere di non volerlo provare più. 

Il momento in cui il nido di fumo è diventato cenere; il palazzo è crollato; il Tump ha smesso di essere solo nella sua testa, me lo ricordo bene. Ero lì. E ho capito che io non dovevo essere egoista. Era arrivato il momento in cui farmi carico io di quel dolore. 

Erano le 7.30 del mattino di una giornata qualunque. La luce che filtrava dalle tende rendeva chiari i suoi lineamenti. L’ho sentita respirare accanto a me e ho capito che questa volta la consapevolezza del dolore, della malattia, non sarebbe rimasta ancorata alle lenzuola. Si sarebbe mossa con lei. Mi ha guardato negli occhi e con il tono di voce risoluto di quando vuole ottenere qualcosa mi ha detto: «io la questione lo devo sollevare: non è peggio pretendere che qualcuno che non vuole vivere debba restare su questa terra perché noi l’amiamo? Perché non riusciremmo a starne senza?»

Poi, dolcemente, mi ha accarezzato la guancia e ha sussurrato per favore.  

Le ho dato un bacio. Ho pensato a quanto sia stato fortunato. A quanto sia stato sfortunato. 

Ho sempre creduto che si sarebbe lasciata andare giù da una finestra, per provare nuovamente la sensazione di libertà toltale anni prima.

Ha scelto un’altra strada. 

Le ho tenuto forte la mano e ha recitato una poesia.

Immagine generata con DALL-E
“a beautiful pastel-colored building with decorated windows is collapsing, in the style of dalì”