Dinosauri

Si iniziava con l’Iguanodonte.
Appena arrivati, la prima tappa della via crucis. La prima stazione a cui il trenino rosso li aveva accompagnati. Deludente, ma già lo sapeva, lo aveva visto mille volte sfogliando il libro, in casa, che quello non era il suo, che non ringhiava né si muoveva come piaceva a lui, e che nemmeno i denti aveva, quella fila doppia che poi poteva disegnare sui quaderni e dire: ecco mamma, ecco papà, ecco il mostro! E infatti si era trovato davanti un lucertolone malfatto, con le zampe posteriori montate al contrario, una di quelle anteriori su un altro erbivoro, gli artigli ben fitti nella plastica, la carne del mostro informe. Non era nemmeno la verità, secondo lui, pare che l’iguanodonte non usasse gli artigli per cacciare ma per difendersi dai carnivori, se qualcuno lo scuncicava, messo con le spalle a muro.
Poi il trenino faceva tappa davanti a un laghetto da cui facevano capolino le teste di due plesiosauri in amore, il maschio, più grosso, che lambiva col lungo collo la testa dell’innamorata, che la corteggiava e faceva quella cosa dolce degli occhi negli occhi che Giuseppe non aveva mai visto fare ai suoi genitori. Nel laghetto c’era anche qualche carpa koi che nuotava placida accanto ai plesiosauri, solo che i pesci rossi che vedeva per la prima volta e con sorpresa erano orrendamente cresciuti. Bestie di venti, anche trenta centimetri. E allora pensava: ecco, i dinosauri avevano fatto il loro maleficio e tutto avevano reso enorme nell’intorno, e i pesci e gli uccelli e anche l’uomo che gli aveva vidimato i biglietti che con le sue grosse mani aveva staccato i ticket per lui per la mamma e per il papà.
Non è lì che è successo.
Fuori dagli arbusti selvatici di more, cresciuti anche loro per lo stesso maleficio, ecco lo Stegosauro, poggiava le zampe sul giallastro dell’erba mal cresciuta, grandioso era e verdastro e con delle placche ossee sulla schiena brune e piene di scanalature, lui e la mamma si sono fatti anche la foto davanti alla staccionata dello Stegosauro.

Si sono fatti la foto mentre la voce registrata a intervalli regolari parlava di lui, raccontava la sua storia, che il suo nome significa lucertola tetto, che è un genere estinto di dinosauro stegosauride vissuto nel Giurassico superiore, 150 milioni di anni fa.

Viveva nei territori occidentali degli Stati Uniti, alcuni esemplari sono stati recuperati anche in Portogallo. Era un quadrupede di grandi dimensioni, con gli arti anteriori più corti di quelli posteriori e la combinazione distintiva di queste ampie piastre cornee verticali sul dorso e lunghe punte sulla fine della coda. Ma non è nemmeno lì che è successo. Mentre Giuseppe aveva una canottiera blu e un cappellino rosso e guardava i ramarri abbandonare frettolosamente le pietre accanto alla staccionata su cui stavano prendendo il sole siciliano, mentre sua madre si avvicinava e gli prendeva la mano e lui la toccava quella mano fredda e umida, di ghiaccio, di salamandra, di rospo, di carne estinta. Nella foto aveva poi i suoi grossi occhiali scuri e non sorrideva. Non ha sorriso mai.

Ma Giuseppe stretto nella mano anfibia della mamma, le placche ossee in doppia fila, guardava, vascolarizzate e disarticolate dal resto dello scheletro, che come diceva la voce funzionavano anche come sistema di riscaldamento, perché potevano essere orientate verso il sole.

Questo aveva detto la voce, mentre loro tornavano sul trenino rosso e ripartivano e Giuseppe indicava già l’Anchilosauro, a significare che un nuovo intrattenimento era entrato nel loro campo visivo. 

Camminava su quattro zampe e aveva sul dorso una corazza di placche ossee, diceva la voce, queste erano strutture di forma ovale, spesso dotate di carene sulla superficie, ma ciò che più impressionava era la mazza d’osso e, gli pareva, di chiodi che aveva al termine della coda: l’impressione era di spavento, un carro armato al centro della savana doveva essere. Erano distribuiti su tutti i continenti, tranne in Africa, il primo resto, dice la voce, fu ritrovato in Antartide, una mascella in mezzo ai ghiacci, hanno dovuto tirarlo via da una placca, scavando coi cani molecolari per sentire l’odore di ciò che una volta era vivo e che poi non lo è stato più.

E allora Giuseppe si era chiesto se anche con sua madre e con Sergio e con lui gli esseri del futuro faranno così, se dovranno scavare Bologna o la Sicilia per trovarne una falange o un pezzo di mandibola o una costola con le cartilagini intatte.

A questo aveva pensato, era lì che era successo, che aveva pensato di lui ossa e carne e si era visto a un tempo dentro le fibre della storia futura e passata su questa Terra e allora aveva avuto paura, come ce l’hanno tutte le altre creature di finire come i grossi pupazzi dei dinosauri, in un cimitero di plastica e simboli.
Tutto questo Giuseppe aveva pensato senza pensarlo, mentre l’ombra del tettuccio in plastica del trenino lo soffocava e cercava, accanto alla mano della madre, di mettere quella di Sergio.
Lo Pteranodonte non aveva fortuna. Era stato messo su una roccia, indistinguibile nelle forme dal trenino e davanti, grigio contro il cielo terso, il collo lunghissimo e la curva del dorso esattamente sotto quella della montagna, stava il Brontosauro, davanti al quale, nuovamente, il treno si fermava.
Per ore, gli era sembrato, per ore bisognava aspettare il proprio turno per la foto davanti al brontosauro. Mentre le facevano Sergio se ne stava in disparte, dentro la mano, tra indice e medio, la sua Muratti disegnava piccoli archi, ectoplasmi, fauci, mentre lui si guardava intorno come un adulto a guardare i giganti, con la noia che sempre hanno gli adulti quando incontrano un passato che a loro non parla.
Lo steccato del Triceratopo era il preferito di chi come Giuseppe aveva consultato tutta una bibliografia infantile e una filmografia anche, che aveva a tema i dinosauri. Così cartoni, film, tutti contenuti creati tra gli anni ottanta e novanta, per ricrearlo, il loro Jurassic Park, lì tra le colline dell’Etna. Due corna poco pronunciate, uno sul vertice del muso, invece, enorme e pungente. L’animale, la mucca col becco e le corna rossa e scura scura.
«Ti piace amore?» gli chiedeva sua madre.
«Ti piace amore?» ma intanto non lo guardava mai, e lui ingoiava i suoi Ringo come fossero bile, guano di dinosauro.
Altri mostri, l’Anatosauro, nei pressi di un laghetto stagnante, un altro, non quello dei plesiosauri, dove le libellule e le farfalle comandavano un piccolo pleistocene.
Ma il grande spettacolo era il Tirannosaurus Rex, alto sei metri e lungo dodici. L’unico motivo per cui tutti quei bambini volevano andare al Parco Zoo. Sul ventre una macchia grande di caffellatte. Il re delle lucertole, lo chiamava la guida, e Giuseppe si indignava perché aveva saputo che non era vera quella diceria che negli anni ’90, ma forse sempre, si andava ripetendo per le bocche di tutti, che i dinosauri fossero lucertoloni enormi, piovuti qui dalla grande era dei rettili.

Quelli di loro, dei bambini che dai film avevano accostato a quella passione per i vecchi viventi anche i libri sapevano bene che le cose non stavano così.

Il Tirannosauro, in bocca una rastrelliera di denti aguzzi fatti bruni dalle carni divorate, gli occhi della bestia feroce, piccoli e inutili, dice la paleontologia. Era più stretto, poi, all’altezza delle spalle dalle cui estremità pendevano, come code di ratto, viscide e nude, le stupide braccia del mostro, con le ditine ritte sopra il ventre esploso. Il percorso continuava con la tigre dai denti a sciabola, i mammut e i primi ominidi, ma l’interesse di Giuseppe, cresciuto oscenamente fino al Tirannosauro, andava a quel punto perdendosi. Il Tirannosauro segnava la fine, scesi dal treno sarebbero tornati a casa, Sergio si sarebbe chiuso nello studio e la mamma sarebbe andata in bagno a passare il suo tempo. A lui sarebbe toccato il compito di fare da collante e da tramite a due genitori che non si parlavano. Quella era la gita, il luogo in cui tutto era possibile, in cui si potevano congiungere le mani. «Ecce Homo» si illuminava suo padre, arrivati ai sapiens, e aggiungeva che non siamo mai stati diversi da quello che cruentemente uccideva i suoi simili e li mangiava. Ne avevano messi alcuni attorno al fuoco, con i barboni e i lunghi capelli crespi. Altri con le lance in attesa della preda o del nemico, le donne e le bambine a conciare le pelli di daino. «Se li mangiavano, Giusè! I Neanderthal si sono estinti perché se li mangiavano. Ce li siamo mangiati, questo che ti dice? Che ti insegna?» Non voleva una risposta, nemmeno gli dava il tempo di pensarci:

«Dalla bocca» gli diceva «passa tutto, le stagioni, gli amori, il cibo, tutto il mondo. Tutto sulle labbra passa.»

E così Giuseppe sognava di scendere dal trenino rosso, superare le staccionate e andare lì a mordere Iguanodonte e Brontosauro, per continuare la specie di combattenti caini, e sentire sotto le gengive e tra i denti quel sapore di mandorla e ferro che fanno i viventi quando si estinguono.

Immagine generata con DALL-E
“two small arms of a t-rex, impressionist oil painting”