Tredici lettere

Non l’ho scelto, mi è capitato. È capitato che mia madre mi fosse straniera. Il suo paese si raggiunge attraversando l’oceano e cambiando abiti. Nessun alternarsi delle stagioni, solo un caldo perenne e una gran quantità di piante selvatiche che crescono come chiamate in alto dal sole. La sua è una città dove a nulla servono i guanti e i maglioni di lana che ogni inverno mi mette, con rassegnazione, quando bambina devo essere preparata per varcare la soglia di casa. È sulle alpi che viviamo, lì mia madre ha trasportato la sua vita in una valigia per amore di un uomo, lì incontra il buio delle quattro, le catene da neve, la legna per accendere il caminetto.

Se per me albero vuol dire abete, per lei albero vuol dire palma. Se per me colazione vuol dire marmellata, per lei colazione vuol dire uova.

Quando mi incalza con un rimprovero, quando mi chiede se voglio essere spinta sull’altalena o faccio da sola, la lingua in cui rispondo non è la sua – lingua madre – ma è un’altra, quella del luogo in cui sono nata, dove esistono rigidi inverni e torride estati, dove ancora esiste quella parentesi che è la primavera, ed esiste la stagione in cui le vacche scendono dai monti per ritirarsi in valle al riparo dalle gelate. È così che molto presto, prima ancora di saper scrivere il mio nome – otto lettere, un certo tono da nobildonna spagnola – io capisco che per mia madre sono un bizzarro e doloroso fraintendimento. Per ogni madre il figlio ha un che di ignoto e parassitario. Un groviglio pesante che cresce nel grembo, risucchiando nutrimento ed energie senza permesso né legittimità, perché così vanno le cose, da un tempo incalcolabile e a pensarci terribilmente spaventoso. Ma immaginate una madre che dopo aver cresciuto quel groviglio suo malgrado, aprendo spazi fino ad allora inesistenti (stirando la pelle, gonfiando le caviglie), che dopo aver rifiutato l’unica bevanda che le rende tollerabili i mercatini natalizi (il vin brulè che le scalda le estremità del corpo), una madre insomma che così tanto di sé ha sacrificato, si veda uscire dalla pancia una bambina che grida, piange e chiama mamma in una lingua che non è la sua. Una bambina che impara a leggere sdegnando il realismo magico, il grande e fangoso Rio delle Amazzoni, e sceglie di seguire invece chi la conduce fra polverose soffitte di qualche antico palazzo torinese. Si tratta di una madre tradita e di una bambina traditrice.

Mia madre non sa dire le doppie, non sa preparare le torte per merenda e non ha paura che qualche malintenzionato mi rapisca nel tragitto che separa la fermata dell’autobus dalla porta di casa perché la sua città senza stagioni è colma di pericoli a cui si fa buon viso senza nemmeno capire che si tratta di un cattivo gioco. Non teme i pericoli, teme l’inverno. Non gioisce per i mercatini di Natale, gioirebbe per un poco di disordine imprevisto incontrato per strada.

La prima volta che visito il suo paese ho pochi mesi e un pigiamino rosa mi avvolge. Alla fine sono un groviglio ben fatto, ho guance rosse e paffute e mi si legge negli occhi qualcosa di ostile che tuttavia in un neonato fa ridere più di quanto possa incutere timore. Sono un fagotto tutto nuovo, mangio e dormo a intermittenza, come è mio dovere di neonata. Quando spalanco gli occhi, sopra di me quattro grandi visi di donna aprono sorrisi e fanno le smorfie che si rivolgono spontanee a chi è da poco essere vivente. Una di loro è mia madre con la sua voce, la sua lingua senza doppie, il suo nome di cinque lettere: per quanto estranea mi è famigliare. Intorno a lei, vicine, ripiegate sulla culla, donne con lo stesso taglio degli occhi, che per metà è anche il mio. Sorelle fatte una dietro l’altra: 1961, 1962, 1963, 1964 (anno di chiusura del cantiere). Ancora non so, e non solo perché parlo un’altra lingua ma perché ciò non è ancora avvenuto, che le cose andranno così: la seconda in ordine di nascita sposerà un uomo baffuto che la menerà in cucina. La abbandonerà dopo pochi anni e molto sesso sguaiato. Lei partorirà due gemelli: una dei due – nome palindromo, tre lettere, arguta intelligenza – reagirà al cataclisma come farebbe un giovane militare giapponese (con rigore e assoluto senso del dovere). Studierà Economia e costruirà una sua vita solitaria da contabile d’azienda. L’altro gemello– nome lungo di poeta, lineamenti puliti di statua greca – proverà la marihuana a tredici anni, la cocaina a quindici, la metanfetamina a sedici, l’eroina a diciannove (che fine abbia fatto non è ancora dato dirsi). Il terzo volto, quello che più si sforza di farmi sorridere con le sue smorfie ridicole, si fidanzerà con un ricco magnate del cemento. Un grigio signore con l’autista e molte case sparse per il paese. Si sposeranno tra fiumi di champagne e diligenti servitori, avranno un piccolo figlio gracile e timoroso di cui per molti anni si sospetterà l’omosessualità. Il poveretto scapperà in America, dove acquisirà una laurea in Ingegneria informatica e un po’ di massa muscolare, quel che basta per farsi un fidanzato e un cagnetto di razza lontano dal padre e il suo grigio cemento, dalla madre e la sua dieta nemica del glutine. L’ultimogenita, senza dubbio la più interessante perché la meno ostinata nel farmi le vocine, bighellonerà per troppi anni insieme a un pittore di vent’anni più vecchio. Si sveglierà un giorno senza figli, con un utero ormai fuori uso e una gran quantità di tele raffiguranti figure femminili sole e malinconiche, ammucchiate una sull’altra a prendere il sole e la polvere che viene insieme agli anni.

Nel paese aldilà dell’oceano ci sono alcune cose parecchio importanti per chi da groviglio vuole farsi ragazzina: una festa allo scoccare dei quindici anni, dei capelli lunghi almeno all’ombelico, un passo felino che sia diverso da quello brusco dei maschi. A me verranno impartite lezioni di ballo: merengue, salsa e quell’invenzione orrenda che è la bachata. Ciò accadrà durante le vacanze tropicali inferte nel tempo che va da giugno a settembre. Camminerò su lunghe e pallide gambe inabili alle danze tropicali e tornerò a casa di mia nonna con quel senso di sconforto che è proprio di un’adolescente quando è costretta a guardarsi allo specchio troppo a lungo. Com’è andata, mi chiederà mia madre nella sua lingua. Male, risponderò io nella mia. Te l’ho detto che non mi piace ballare, continuerò io. Ma è importante, argomenterà lei. Penserò senza dirlo: mi manca mio padre, i nostri freddi inverni.

Insomma continueremo a non capirci, lei si sentirà tradita, io sentirò di tradirla. Accadrà in particolare un giorno. Ancora vacanze inferte e speciale senso di estraneità. Avrò ventidue anni e camminerò fra le strade trafficate della sua calda e caotica città. Mi taglierà la strada un barbone, preso a fare il giocoliere con delle pietre sudicie e irregolari per chiedere l’elemosina ai passanti. Ne lancerà in aria una alla volta, senza riuscire a riprenderla al volo. Io proverò per lui pietà, come mia madre mi ha insegnato, e insieme disgusto, come invece mi ha insegnato l’essere cresciuta in un paese dove esistono rigidi inverni e vivere per strada è un terribile scandalo umano. Ma sarà lì, nella sua mancanza di disgusto e scandalo, nel mio patetico eccesso, che ci capiremo, io e mia madre, meno di sempre.

Mi sentirò estranea non solo a lei, ma al suo intero universo.

A quel luogo così crudele in cui ogni estate mi trascinerà fino alla fine dei suoi giorni. Dove io ogni anno mi trascinerò, per espiare il tradimento, fino alla fine dei miei giorni. Quel luogo dove l’estate non esiste eppure fa caldo e non c’è modo di dare nome a quel caldo, non essendoci un freddo con il quale porlo a confronto. Quel luogo dove io – che ho un nome di otto lettere, un certo tono di nobildonna spagnola – saprò finalmente dire che cosa è andato storto tra madre e figlia: io sono stata un corpo estraneo, lei è stata un corpo estraneo. E abbiamo sempre pianto insieme in due lingue diverse.

Immagine generata con DALL-E
“a palm and a fir tree, impressionist painting”