Virginia

Devo  ripetermi che non è successo. È solo così che posso andare avanti. 

Questa è un’estate più torbida di quelle passate. Questa è un’estate malvagia.

Sono le mie maledette gambe. Sono loro che non mi permettono di camminare. 

Che cosa ho?  

Una malattia che non mi fa camminare. Ora ha preso le mie gambe poi si prenderà tutto il resto e io non sarò più niente. Non sarò più Virginia.

Ho associato il mio nome a tante cose in questi anni che non trovo più la mia identità; questo è l’unico modo che ho per andare avanti: non essere io. Virginia. Allora non sono le mie gambe a non funzionare, non sono io a essere malata

C’è uno stato negli Stati Uniti che si chiama Virginia: trae origine da una delle tredici colonie che si ribellarono al dominio britannico e, dopo la guerra d’indipendenza americana fu uno degli stati fondatori degli Stati Uniti d’America. Ho pensato di trasferirmi lì una volta. Anche se non sono mai andata via neanche dalla mia città. 

Il mio corpo è fluido e le gambe invece crollano, vacillano, si scompongono ma non mi appartengono. Non più. È una malattia questa?

Tutto è cominciato quando Lui se n’è andato. Via, per sempre. Divorato, trasformato. Dopo due mesi sono andata alla stazione di servizio in cui lavorava; passavo da lì tutti i giorni di ritorno dall’accademia. L’accademia di belle arti a quel tempo era la mia casa. Anche a Lui piaceva, veniva spesso a trovarmi prima del turno. 

«Vieni anche tu, da piccolo eri bravo a disegnare»

Sorrideva.
«Non mi piaceva, lo facevo solo per non sentirmi come papà»

«Cioè?»

«Un fallito»

Aveva due anni più di me e adesso sono rimasta io. Io e mia madre, due pezzi di una vecchia grande famiglia. 

Sono andata a quella stazione per tre anni dopo la sua morte. Ho osservato tutto, silenziosa, innocente. Poi questa malattia mi ha bloccato a letto per un mese ma è arrivato oggi e oggi finalmente sarò libera. Tutti, tutti hanno cercato di convincermi che non fosse così; io invece lo so, sono sicura. Sapevo che Lui era in pericolo e non ho fatto niente. Sapevo che quel tipo lo invidiava perché Lui era speciale. Speciale. 

È tardi? Forse.

Mi chiamo Virginia e oggi annullerò il mio senso di colpa. Oggi, tutto cambierà.

Oggi le gambe vanno alla grande, mi sono alzata, mi sono preparata, ho indossato il cappotto celeste che a Lui piaceva tanto. Ho preso l’auto di mia madre. Sono appena le dieci di sera e non c’è nessuno in strada… 

… queste vie. Quanto mi hanno stancato, quanto mi provocano disgusto. Ho disegnato le strade di questo quartiere per provare a dimenticarle ma non è servito a niente.

Ho disegnato un sacco di cose per dimenticare. Poi l’Accademia mi ha tolto l’entusiasmo. Ho ammazzato tutto. Tutto quello che c’era di umano in me. L’ho stracciato, buttato via, consumato.

Non esiste e non esisto

IO.VIRGINIA.

Addio Virginia. C’è solo questo, i miei quadri: una meraviglia che nessuno, a parte Lui, merita.

Ogni persona ha un suo modo di camminare. È buffo. Io le osservo sempre di spalle, osservo il loro modo di mettere un piede davanti all’altro. La sua camminata è ridicola e goffa, non sembra quella di uno capace di uccidere. Invece è proprio così. Perché ha ucciso Lui e io sono la sola che lo sa, la sola che sa la verità.

Non è difficile uscire con un coltello da queste parti. La sera, soprattutto il weekend, le strade sono piene di gente confusa e vagabonda, di gente incerta. È il mondo un po’ più tollerabile del giorno, è il mondo delle persone che non vivono. 

Scivolo lentamente nelle strade fino ad arrivare di fronte all’Accademia, un palazzone monumentale e serio. La stazione di servizio è poco lontana, vedo le flebili luci in lontananza. Mi avvicino meccanicamente senza prestare attenzione a ciò che ho intorno. Cammino come se avessi una fretta innata, una fretta viscerale.

Virginia. Quante volte il mio nome è rimbombato nelle orecchie degli altri. Quante volte le labbra sottili di Lui l’hanno pronunciato. Gridato, sussurrato, appena accennato. Quelle labbra non lo diranno più. 

Sarò veloce e precisa, sarò immediata.

Quando ho messo i piedi nell’acqua ho sentito un brivido salire lento lungo la schiena. Poi un freddo improvviso, un momento interminabile. Mi sono voltata di scatto: Lui correva lungo la sottile linea di sabbia ridendo come un matto. Non andava verso l’acqua no, sarebbe stato sciocco da parte sua. Correva verso la scogliera, dall’altra parte della spiaggia, mentre il nostro ombrellone spariva dalla sua vista. Sapeva che l’avrei seguito, ne era certo. E così feci; fradicia ma felice mi lanciai all’inseguimento. Arrivai al termine della scogliera, dove la gente era poca e l’acqua più scura. 

«Sei uno stronzo!» 

Lui si fermò e lasciò che prendessi la mia vendetta. Lo trascinai nell’acqua e lo spinsi giù con forza. Poi risalì e come un cane che strizza l’acqua dal pelo bagnato scosse la testa e le lunghe ciocche di capelli. Aveva un caschetto che arrivava alla nuca, mi piaceva con quel taglio.

«Virginia!Virginia! perché? Perché? perché?» posso perfino sentire le lacrime scendere sul suo volto.

Mia madre. La sua voce mi ha sempre dato molto fastidio. Ha scelto lei il mio nome. La sento correre alle mie spalle, si insinua in mezzo alle sirene della polizia, tra le grida e il chiacchiericcio che in pochi attimi si è formato intorno a me. Ci sono le telecamere alla stazione di servizio e la polizia è arrivata subito perché quello prima di morire ha schiacciato il bottone dell’allarme. Che stupido, che stupidi tutti. Non avevo intenzione di scappare, non l’ho mai avuta. Mi sono seduta sui gradini e ho aspettato pensando una sola cosa: sono invisibile e libera.

Immagine generata con DALL-E
“a gas station in the evening in the city, in the style of edward hopper”