Giona, che visse nella balena

1° CLASSIFICATO XXII EDIZIONE PREMIO LETTERARIO CITTÀ DI ARONA “OMODEI ZORINI” – ANNO 2020

3° CLASSIFICATO XXI EDIZIONE CONCORSO NAZIONALE DI POESIA E NARRATIVA “GUIDO GOZZANO” – ANNO 2020

Il vice questore Matteo Caserta osservava il reticolo di crepe che segnava il soffitto del suo ufficio. Aveva una vera passione per la geografia e si immaginò che fosse la mappatura in bianco e nero di un enorme bacino idrografico. Il solco più grande era il fiume principale, le fenditure più leggere l’intricato sviluppo degli affluenti. Poteva trattarsi dell’Orinoco o del Rio delle Amazzoni, forse del continentale Volga. Il nuovo commissariato di Monza, ultimato solo qualche mese prima, manifestava qualche problema di assestamento. 

Un languore, un silenzio malinconico, avvolgeva l’intero piano, la pandemia aveva messo in atto la diaspora della sua squadra. E c’era chi portava le pensioni a casa, e c’era chi vigilava su eventuali assembramenti, e c’era chi organizzava posti di blocco per verificare le autocertificazioni.

Nessuno dei suoi si era ammalato e questa era già una gran notizia. A metà marzo, come un padre apprensivo, aveva ascoltato con preoccupazione la tosse di Locatelli. Ma non erano comparsi altri sintomi, mancavano cioè febbre, insufficienza respiratoria, diarrea, problemi al gusto e all’olfatto, astenia acuta, dolori diffusi, estese irritazioni cutanee, insomma lo stretto necessario per poter accedere alle cure dei sanitari. E allora persino il suo agente, piuttosto costipato, era andato a prestare la sua opera sul territorio, un’espressione che Caserta detestava, come se di solito lavorassero nell’iperuranio.

Il momento era quello che era e un vice questore resta di presidio in commissariato, come fa il comandante che non abbandona la nave mentre l’equipaggio sbarca. Così, per la legge del contrappasso, si era trovato a vivere quel che aveva sempre cercato di scansare: i cosiddetti reati minori. Si trovò immerso in litigi condominiali, in risse al supermercato per un panetto di lievito, in lamentele per le puzze di un ristorante etnico, in banali smarrimenti di documenti, in rabbiose querele per una mezza parolaccia. Furti pochi, perché pure i ladri se ne stavano rintanati.

Ogni reato deve essere importante per un poliziotto ma, inutile negarlo, dopo oltre trent’anni di servizio aveva dovuto arrendersi: per le cose minute non aveva alcuna inclinazione.

Dategli qualche omicidio da risolvere, diamine. Si sentiva come uno chef stellato che debba imbastire una pasta al burro: meglio lasciar fare a un’abile massaia. Sì, un atteggiamento snobistico fuori luogo, un difetto di cui era cosciente ma che non era mai riuscito a eliminare. Ora, a cinquantasei anni, gli pareva oltremodo difficile che potesse avere un qualche miglioramento.

E gli era toccato in sorte questo caso. 

Gli avevano fatto un rapido resoconto dei fatti ma la faccenda era talmente fuori dal comune che Caserta pensò che gli agenti della volante avessero omesso qualche dettaglio fondamentale o che, al contrario, avessero caricato di significato eventi senza troppa importanza. Il tutto non funzionava, come un elettrodomestico con le pile inserite a poli invertiti, il più col meno e il meno col più, o qualcosa di simile. A cominciare dall’aspetto. Il barbone, così gli era stato rappresentato, si mostrava ben diverso dal cliché del senza fissa dimora. Pareva un nobile decaduto, vissuto probabilmente fra pareti cariche di ritratti di avi, fra comò Napoleone III e divani damascati. Una patina, simile a quella che si deposita sui quadri mai spolverati, ne opacizzava la figura. Ma quest’evidente caduta sociale non traspariva affatto dai suoi modi. Il tono della voce si manifestava basso quanto si conviene, la stretta di mano caricata il giusto, non troppo debole né troppo rude: da ambasciatore. Forse c’era stato un tempo in cui aveva frequentato preziosi ricevimenti in cui la discrezione era il passepartout per il contatto sociale. Il suo fisico, alto e asciutto, era avvolto da un’aura di distinzione. L’unico segnale di una reale cesura col passato era quel codino in cui raccoglieva i capelli grigi troppo lunghi.

Caserta lo fece accomodare. Calcolò al volo la distanza che li separava, un paio di metri buoni.

«Può abbassare la mascherina.» 

E così fece anche il vice questore, la barba fluente bagnata come il pelo di un cane finito in una pozza. 

«Caserta, un cognome che ha forse qualche origine ebraica.» 

«Non ho mai fatto particolari indagini, è possibile. Ma, visto che siamo sull’argomento, mi parli un po’ del suo: Squassi-Carella, fa quasi paura pronunciarlo.» 

Per tutta risposta l’uomo cominciò a frugarsi nelle tasche della giacca. Per un momento il vice questore immaginò che avrebbe estratto un biglietto da visita con stemma araldico del casato. Invece, con sua sorpresa, fece capolino una bottiglietta di acqua ossigenata.

«Mi perdoni, ma non riesco a farne a meno. Temevo di averla smarrita nel trambusto. Almeno un paio di volte al giorno faccio degli sciacqui, mantiene lo smalto splendente.» 

Effettivamente, il sorriso che ne seguì mostrò una dentatura perfetta, di un bianco abbagliante. Davvero originale il nobile decaduto. Le sue parole avevano un suono pacato, parevano il frutto di un’autentica serenità. Il fatto che si trovasse di fonte a un vice questore non lo intimidiva affatto. Viveva quel colloquio con naturalezza, l’inquisito sentiva di poter interagire con assoluta disinvoltura.

«Ha mai provato l’acqua ossigenata? Funziona davvero.»

«Io sono un tradizionalista. Sono fermo alla Pasta del Capitano. Ma torniamo a noi, parlavamo del suo cognome.» 

«Immagino cosa voglia sapere. Lei si chiede come mi sia ridotto in questo stato, con un cognome simile. Diciamo che è un pezzo della mia vita di cui non voglio parlare. Sono stato ricco e ora sono povero: scelte. Da bambino ti mettono sullo scivolo: vai giù, direzione obbligata. Da grande è uguale, per te è pronta una strada in discesa, decisa da altri. Io ho scelto di saltare in corsa dal toboga, non sono arrivato nel posto dove tutti mi aspettavano. E ho fatto bene.» 

Il vice questore ascoltava attento; il tipo, tutto sommato, gli piaceva. Ma non si sarebbe fatto troppo incantare. Spesso le persone che vivono in strada romanzano assai sul proprio destino e spiegano la loro condizione con ipnotici discorsi da abili affabulatori, aggiungono dettagli per rendere più accattivante il racconto, la cui veridicità, per altro, sarebbe tutta da accertare. 

«Posso chiamarla col nome proprio? Squassi-Carella mi pare troppo ingombrante. Dunque, Eugenio, posso comprendere la scelta di indipendenza, a suo modo è stato coraggioso. Come diceva quel cantautore? Libertà e perline colorate. Ma la mia libertà finisce dove comincia quella degli altri. Qui ci sono reati. Parliamo di violazione della proprietà privata. Parliamo di un’effrazione in un ufficio pubblico.» 

«Effrazione è una parola grossa, quelli son gli scassi col piede di porco. Io ho dato solo una spallata. Ci sono porte che soffi e entri.» 

«E lei ha soffiato. Conosceva gli ambienti, a quanto pare.» 

« I posti che frequenta la gente come me, che vive in strada, non sono molti: i dormitori, i centri di accoglienza, le mense sociali, la Caritas. E le biblioteche. Si sta caldi d’inverno e freschi d’estate e non possono mandarti via. Trovi i bagni puliti e ti lavi un po’, magari ti fai pure la barba.» 

«Non credo che tutte queste attività siano consentite, ma andiamo oltre. Quando è entrato nei locali della biblioteca?» 

«Il primo lunedì dopo la chiusura totale.» 

«Il 9 marzo?»

«Sì, mi pare il 9. Col buio, le sette o le otto di sera, se ricordo bene.»

«E ci è rimasto più di due mesi. Fino a oggi, quando la signora delle pulizie è tornata fra gli scaffali. Ha capito di non essere sola e le è preso un mezzo infarto.»

« Di questo mi dispiaccio molto. Sì, ero lì da un paio di mesi. Uscivo per prendere da mangiare e poi tornavo, pasti frugali. A lei, invece, credo piaccia il buon cibo.» 

Caserta, 130 chili mal distribuiti pur su una ragguardevole altezza. La sincerità di Squassi-Carella rasentava l’impudenza. Non faceva nulla per alleggerire la propria posizione, si divertiva a giocare con sfrontatezza. Il suo candore era assoluto, ogni sua parola era illuminata da una rara spontaneità. Gli stenti della vita di strada non ne avevano però minato la lucidità. Aveva ben inquadrato il vice questore, collocandolo nella solida architettura del mondo che si era edificato. E il pallino della situazione voleva tenerlo in mano lui, l’indagato, anche a dispetto dei santi. 

«Lei ama le biblioteche? Dev’essere un gran lettore, un poliziotto letterato.»

«Certo che le amo, ma non così tanto da sceglierle come albergo. Piuttosto, è vero che, alla richiesta di spiegazione dei miei sottoposti, lei ha dichiarato di essere l’occupante?» 

«Ho detto la pura e semplice verità, esiste un termine più calzante?» 

Caserta, di primo acchito, non seppe rispondere. Quell’interrogatorio strampalato finiva per confonderlo, ma poi si riprese.

«Io, dopo occupante, aggiungerei almeno abusivo.» 

«Mi sono solo rifugiato in un luogo sicuro: zero rischi, niente virus. E poi, vivere in una biblioteca chiusa, senza nessuno, è sempre stato il mio sogno.»

Il pensiero del vice questore andò per un attimo a Borges, ma erano riflessioni troppo alte per questa situazione. L’occupante non era un insigne letterato ma un simpatico cialtrone. La domanda, invece, si imponeva.

«Cos’ha fatto là dentro in questi due lunghi mesi?»

«Ho letto parecchio, classici, soprattutto. Poi ho recuperato un vecchio computer dalla cantina. E ho visto diversi film.» 

«Tipo?» 

Caserta era ormai incuriosito.

«Tutto Hitchcock, tutto Kubrick. E poi un po’ di neorealismo, un bianco e nero favoloso, storie che colpiscono al cuore. Qualcosa di Clint Eastwood. Ho rivisto I ponti di Madison County e glielo confermo: troppo melenso.» 

«Sa che il suo soggiorno creerà problemi? Uno scherzetto che costerà alla collettività oltre 1000 euro. Dovranno sanificare l’intero edificio.» 

«Guardi che io sono un maniaco della pulizia. Ogni oggetto che ho preso in consegna l’ho disinfettato: acqua ossigenata e alcol, i miei fedeli compagni. E ho ripetuto l’operazione prima di riporre ogni cosa, libro o DVD che fosse. Ho curato gli ambienti. Al banco prestiti c’era un profumatore, sa, quella bottiglietta con i bastoncini. Li ho girati ogni cinque giorni in modo che il  profumo nell’ambiente fosse costante. Sì, sono un po’ fissato su certe cose.» 

«Apprezziamo i suoi interventi igienizzanti ma è tempo di coronavirus. Il trattamento va effettuato per legge.» 

L’uomo parve costernato. La faccenda dei 1000 euro l’aveva davvero turbato.

«Andrò in galera?» 

«Lei ha diversi precedenti. Deciderà il magistrato.» 

«E la tessera della biblioteca? Dice che me la ritireranno? Sa, ho lasciato Il Conte di Montecristo a metà. Mi piacerebbe finirlo.» 

Caserta pose gli occhi al cielo e intercettò di nuovo il reticolo di crepe: sì, poteva essere l’Orinoco. Si alzò per sgranchirsi e si diresse verso la finestra per sbirciare fuori. Dalla periferia la città appariva lontana, bruciata dal sole, avvolta in un miraggio. Uomini e donne di tutte le razze sostavano davanti all’ingresso del commissariato, i volti accomunati dalle mascherine. Osservò il loro perfetto distanziamento. Poi tornò a sedere, desideroso di concludere la curiosa vicenda. 

Ma qualcosa era cambiato, l’occupante teneva lo sguardo basso, un’improvvisa catatonia. Un leggero tremore gli era comparso alle mani, misteriosi fantasmi erano venuti a mettere a soqquadro il suo equilibrio. Pareva incredibile che questa figura fragile e vulnerabile fosse davvero l’Eugenio Squassi-Carella di qualche istante prima.

Il vice questore stette senza parlare, l’instabilità emotiva dell’uomo lo aveva zittito: ne ebbe pena. Intrattenere e consolare non facevano parte dei suoi compiti ma Caserta avrebbe fatto un’eccezione, qualcosa era possibile anche a due metri di distanza.

«Il resto del libro glielo racconto io, mi dica solo a che punto era arrivato. Edmond Dantès era già scappato dal Castello d’If?» 

Immagine generata con DALL-E
“a man with long white hair in a pigtail sleeps in a sleeping bag inside a library, in the style of Edward Hopper”