Apocalisse

Dovresti leggere tutti gli incipit dei racconti che sto scrivendo in questo periodo, dovresti leggerli davvero, capiresti da sola che non vanno da nessuna parte, ti renderesti conto dell’inutilità di questo momento storico, questo grande nulla che come una muffa si attacca alle pareti dell’esistenza e non va via, neanche nascondendola con rimedi antichi e opinabili. Ti ringrazio davvero per tutto lo sprone, per il continuo tappare i miei debiti con i tuoi soldi, ma non ce la faccio più. Ho detto che non ce la faccio più, eppure ciò che provo è ben diverso dall’esasperazione: non ce la faccio più perché non ha più senso farcela, adesso, una volta per tutte. La fine che ci meritiamo è arrivata: non abbiamo più niente da mangiare, noi e tutto il mondo attorno finalmente. Solo così, solo morendo, potremo davvero capire quello che c’era da capire.

E adesso mi fanno anche un po’ pena tutte queste persone che corrono, da un lato all’altro della strada, le osservo dalla finestra scostando la tenda. Si stanno mangiando a vicenda: due uomini, li vedo proprio in questo istante. Dopo aver devastato il minimarket del pakistano e non aver trovato nulla di soddisfacente, si sono sdraiati in mezzo al marciapiede deserto. Uno ha addentato la coscia dell’altro, mentre l’altro gli si sta avvicinando dolcemente e staccando l’orecchio. Nessuno dei due si è lamentato.

Vorrei non essermi svegliato. Non dico morto, ma almeno in uno stato di sonno perenne, come te in questo momento. Almeno non avrei partecipato a questo grigio: dalla stanza al cemento fuori, passando per il mio maglione. Mi sembra tutto così privo di anima. Tanto vale non aprire gli occhi. Mi sento come un gatto saggio posato sul davanzale, scruto gli altri con un senso di superiorità che non mi appartiene, una superiorità non voluta ma che mi è addosso, inevitabile. È come se improvvisamente fossero diventati tutti degli stronzi. Cosa vuol dire improvvisamente? Può anche darsi che abbia perso la cognizione del tempo. Non è stato proprio così veloce ora che ci penso, mi stavano sul cazzo tutti già prima ma non volevo urlarlo per vergogna. Il fatto è che ora siamo tutti uguali e tutti possiamo odiarci senza creare alcuna ruga sul volto.

Mi piacerebbe vedere i tuoi tatuaggi finire sul lenzuolo. Una rincorsa che parte dalla pelle e si immerge nel tessuto. Mi piacerebbe tornare a quando tutto attorno a noi sembrava sorridere, senza nessun motivo apparente. Dormi nuda anche questa notte, è buffo perché potrei essere io uno dei tanti cannibali che si incontrano in questo periodo e tu gratuitamente mi mostri parte del culo e tutti i tuoi tatuaggi come se non ti importasse della carestia. Ma non potrei mangiarti perché ho smesso con la carne ormai vent’anni fa. E in qualche modo penso di volerti bene ancora, ma non così tanto da rovinarti gli organi vitali.

Come si chiama quella canzone che inizia con I think I fell in love you smile alone like a drunken drug has gone and left me. Lord I’m coming… o una cosa del genere? 

Parlare dell’Apocalisse oggi è così scontato. Peggio ancora scriverne: non è credibile. È una sensazione molto difficile da raccontare: avere a che fare con il presente non è gratificante e comunque c’è sempre qualcuno che ne sa più e meglio di te. I cavalieri del riscaldamento globale, della pandemia dei polli sono come i cospirazionisti, è gente a un passo dall’estremismo, vorrebbero far fuori tutti anche quando lottano per ideali di pace e uguaglianza. Se da un lato sostenevano un certo tipo di approfondimento e dibattito con ospiti dalla sensibilità spiccata, dall’altro avrebbero regalato volentieri il proprio braccio pur di continuare a divulgare il solito cabaret con guitti abbronzati e nasi da Patch Adams.

Mi chiedo dove fossero tutti questi prima della carestia. Prima di maturare la loro attuale opinione a tutti i costi e sfoggiare il proprio diritto di sostenerla senza freni, cosa pensavano, come vivevano? Buttavano cartacce per strada o le appallottolavano per conservarle nel taschino? Come ragionavano quando si andava alle urne?

Avrebbero massacrato il vicino di casa a parole se avessero scoperto che era astensionista? Mentre divago mi accorgo di perdere te: ogni respiro potrebbe essere l’ultimo, ogni colpo di tosse, ogni silenzio per le strade potrebbe essere il presagio che siamo rimasti solo noi due nel mondo e, sì, può apparire molto romantico come pensiero, ma finirà che prima o poi avremo fame e lì tireremo fuori la nostra vigliaccheria.

Con gli occhi ancora chiusi bofonchi: «Metti su il caffè?». Io ti guardo e penso, con il candore che mi appartiene da sempre «Ma come siamo passati dall’immagine di te desaturata su quell’autobus che mi hai sempre raccontato, con la pioggia che rimbalzava contro i finestrini, a questa pace che sembri mantenere ogni minuto di più?».

Le ciabatte non le infilo più, cammino scalzo. Sulla strada dal letto ai fornelli schiaccio un paio di dinosauri verdi e mi faccio male. Tiro un calcio a entrambi, allontanandoli. Non ricordavo di aver messo su la caffettiera la sera prima, si tratta solo di accendere il gas. Si tratta adesso di camminare con la più delicata andatura possibile, l’appartamento è un luogo protetto, non ci si deve arrabbiare o litigare, tantomeno sprecare energie, potrebbe nuocere alla salute. Quei dinosauri penseranno la stessa cosa, potremmo farci male da un momento all’altro.  Con il pensiero creo una linea ondulata che si aggira per tutte le tazzine che ho comprato ma ho messo da parte, in qualche mensola più in alto, è un modo di salutare, o forse la mia semplice considerazione della materia: qualcosa da attraversare, qualcosa che dialogherebbe molto bene con una forma geometrica irregolare, un disegno. La linea viene poi risucchiata dalle mie narici, torna dentro al cervello. Basta solo non vedere cosa ti accade attorno, concentrarsi sulla creatività possibile, evitare di fare il voyeur per sentirsi meglio. 

Accendo il gas, per quello che può voler dire oggi: ogni fiammella è un soldato morto. A pochi km da qui c’è una lotta ben più grave per la stessa scintilla che si propaga e diventa fuoco. Ma lì almeno hanno le armi e non ci si mangia tra esseri umani.

In entrambi i casi, le nostre piccole cose insignificanti vanno a puttane: nessuno avrà cura di te quando sarà morto, a nessuno interesserà più il like mancato alla foto, la recensione negativa al locale spartano ma economico, il fisco, l’evasione e la lite condominiale con il tizio al piano di sotto. Mi accorgo di quanto tempo passiamo a raccontarci minuzie mentre fisso il soffitto della cucina visibilmente ammuffito, ci siamo arrovellati più volte, abbiamo ipotizzato che potesse essere un’infiltrazione, adesso può rimanere lì a guardarci attonita, quella massa di niente.

Il caffè è salito. Questa è l’unico accenno di normalità rimasto. Non ti ho mai considerata come parte di una normalità, mi sarei annoiato. Il caffè, pur rimanendo attaccato con la colla alla sfera di consuetudine, non mi ha mai deluso. Lo bevo amaro, “alla goccia”, scottandomi la gola. Preparo una tazzina anche a te. Te la porto a letto. «Culo nudo», esordisco così, so che piace sentirtelo dire, e infatti ammicchi. «Questa notte quanti morti?», mi chiedi mentre ti tiri fuori dal lenzuolo e passi la tazzina sulle labbra. Abbiamo questa strana abitudine di guardare il bollettino dei caduti sull’Iphone: la cosa inquietante –ribadisco che tu con la normalità non hai molto a che fare – è che ridi quando la cifra viene pronunciata senza alcuna emozione da un Responsabile qualunque. Un giorno mi spiegherai che cazzo ridi, ora però non vedo l’ora che finisca la tiritera, finisca il caffè e il pudore. Torniamo sotto il lenzuolo entrambi e mischiamo i nostri aliti che non toccano acqua né dentifricio da giorni. Sempre meglio che mangiarsi, come fanno gli altri.

Così, ti addormenti di nuovo. E io rimango a guardare i giochi di ombre provocati dalle poche macchine coraggiose che inquinano questo mondo dai secondi contati. Penso a come staranno affrontando le altre persone, le più insolite, questo momento di guerra e noncuranza. Il bar sotto casa squallido avrà già sperperato il fondo cassa, oppure lo avrà regalato a un passante con in mano una pistola, accecato dalla fame. Immagino barboni, puttane e tossici chiusi in uno stesso rifugio antiatomico a condividere la loro situazione da reietti e a resistere per non scannarsi. Mia madre sarà alla finestra e forse mi dedicherà un ultimo pensiero, sentendosi finalmente bella con i capelli bianchi. E vago con la mente fino a ritrovare un’altra possibile versione di me stesso: non riesco a individuarla della mia età, molto probabilmente si è fermata a diciott’anni, con un futuro carico di rabbia e frustrazione, ma ancora meravigliosamente aperto ai possibili scenari di questo teatro. Mi vedo con libri da divorare come fossero panini imbottiti, tra una barricata e l’altra, e baci a uomini e donne senza selezione all’ingresso. Abbigliamento sporco, alimentazione discutibile, sport. Non ancora corrotto dal senso del dovere. Se fosse possibile tornare lì, anche se lì non esiste o non esiste più, mollerei tutto, anche te, a piedi nudi, senza disturbare il tuo sonno. Tanto so che in mezzo al caos, saprei ritrovarti comunque e ricominceremo ad affrontare la battaglia che ora stiamo perdendo.

Immagine generata con DALL-E
“a man in a gray sweater standing in a gray room, outside the window a gray concrete building, expressive oil painting”