La spia

“La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, 
ma dalla incapacità di  comunicare le cose che ci sembrano importanti, 
o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili.”

G. Jung (Ricordi, Sogni, Riflessioni.)

Alessia tornava a casa strascicando i piedi e guardandosi la punta delle scarpe. Le piaceva il rumore croccante della ghiaia sotto le suole, infrangere il silenzio assolato alle due del pomeriggio.

Pochi metri la separavano da casa, ma quel giorno il cuore non smetteva di battere forte. Se lo sentiva pulsare nelle orecchie fin dall'uscita da scuola e non c'era verso di farlo rallentare.

Tirò fuori dalla tasca lo smartphone per vedere l’ora; era in ritardo di quaranta minuti, ma nessuno l’aveva chiamata, quindi forse aveva qualche possibilità che sua madre non ci fosse.

Prima o poi avrebbe dovuto dirle come si era rotto lo zaino nuovo, ma anzitutto doveva fare in modo che quel maledetto tamburo che le rimbombava dentro si desse una calmata.

Aprì il portone con la sua chiave e, assicuratasi che il portinaio non la vedesse, salì in ascensore: la sua faccia riflessa nello specchio era presentabile tutto sommato e poi, se teneva la bretella destra con la mano, lo strappo quasi non si notava.

La porta di casa era aperta e subito la voce della Palombelli che tentava di riportare ordine tra due contendenti le si spalmò come un balsamo sui timpani. Di fronte al suo programma preferito la madre non si sarebbe accorta nemmeno se lei fosse tornata a casa nuda.

«Sei un bugiardo!» gridava una signora dai capelli cotonati.

«Ha parlato lei!» ribatteva un tarchiatello pelato «La fila c’era fuori casa! Tutti sapevano tranne me!»

«Signor giudice, lo sente cosa dice?»

Alessia entrò in cucina dove sua madre stava seduta al tavolo guardando la televisione e scuotendo la testa. Accanto c’era una tovaglietta da colazione apparecchiata con il piatto fondo coperto da uno piano.

«Ah, sei arrivata!» disse girando solo gli occhi.

«La verità brucia, eh?» continuava il signore sosia di Denny de Vito. E sua madre: «Ma guarda questa oh! Che pretese! Prima si passa tutto il paese e poi trascina il marito in tribunale!»

«Che vuol dire si passa?» chiese Alessia sedendosi al suo posto e alzando il piatto piano. Ad accoglierla una pasta al pomodoro raggrumata,  lontano ricordo di quella fumante e al dente che aveva di sicuro mangiato il fratello al ritorno da scuola.

«Niente, sei piccola per queste cose! Mangia dai, che poi almeno sparecchio.»

Una volta nella sua stanza, Alessia si buttò sul letto; a pancia in su e con le mani dietro la testa chiuse gli occhi, presa da un’improvvisa stanchezza. Li spalancò subito però perché la faccia di Aurora Giusti sembrava essersi tatuata all’interno delle palpebre.

«Ti devi mettere i tacchi quando parli con me, nana!» le aveva gridato dall’alto strizzando un occhio più dell’altro, con quell’espressione sguincia che metteva soggezione a chiunque. L’aveva spinta, proprio come con Leila che ancora piangeva sdraiata a terra. Ma lei non era caduta, aveva puntato bene un piede all’indietro.

Aurora sembrava aver preso quella resistenza come un affronto e con le sopracciglia inarcate le si era fatta ancora più sotto e l’aveva strattonata per un braccio fino a quando la bretella dello zaino non si era strappata, facendolo cadere.

«Lasciami!» era l’unica cosa che era riuscita a dire e nemmeno troppo convinta.

A quel punto era accorsa Serena Beretta, la cagnolina di Aurora: «Auri vieni via che sta arrivando qualcuno!» 

Aurora allora aveva mollato la presa dal suo braccio: «Ricordati che se sei amica di quella lesbica di merda, per me sei uguale a lei. E se solo dici qualcosa in giro, ti sputtano su ogni profilo che hai!»

Le due avevano girato i tacchi e si erano dileguate in un attimo. Alessia era corsa accanto a Leila che continuava a piangere per terra rannicchiata su un lato con le ginocchia al petto.

«Le ho so-solo detto che fo-forse mi pia-piaceva.» balbettava tra un singhiozzo e l’altro.

Alessia non sapeva che fare, non la conosceva nemmeno troppo bene. «È la, è la mia… migliore ami-amica!»

«Dai Leila, sai com’è fatta, magari domani si è scordata tutto. Ora prova ad alzarti.»

«No, no, non ci riesco.»

«Ma sì che ci riesci, dai!»

La voce baritonale del professor  Pizzi fece voltare Alessia di scatto: «Che succede qui?»

«Leila…»

«Leila, che hai fatto?»

La ragazza piangeva a dirotto senza muoversi dalla sua posizione fetale. Il professore le si era avvicinato di corsa e, accucciandosi al suo fianco le aveva sussurrato: «Ehi, che è successo? Cosa ti sei fatta?» Non appena le aveva sfiorato la schiena, lei aveva emesso una sorta di guaito. «Oddio!» aveva detto con voce strozzata il professore alzandosi e guardandosi intorno. «Hai picchiato la schiena? Oddio!» e con entrambe le mani si strofinava la testa avanti e indietro: «Riesci a muovere le gambe?» e poi, rivolto ad Alessia: «Ma che è successo? Me lo volete dire, cazzo?»

Lei, con gli occhi che le si riempivano di lacrime, era riuscita solo a farfugliare: «È… è caduta.” ma il professore stava già chiamando il 118 e attendeva con l’orecchio premuto al telefono che gli rispondessero.

 

Alessia si scoprì il braccio indolenzito; due grossi lividi si stavano formando lì dove le dita di Aurora Giusti l’avevano stretta in una morsa. Nonostante il dolore, si sentiva lusingata. La più popolare della scuola non le aveva mai nemmeno rivolto uno sguardo e ora l’aveva persino toccata! Come fiammeggiavano gli occhi di Aurora quando si arrabbiava, diventavano ancora più azzurri e la famigerata bocca carnosa, storta dall’ira, acquistava lucentezza nel protendersi all’infuori. Era proprio bella. 

Lesbica. 

Quella parola, pronunciata da Aurora sembrava davvero terribile. Era lesbica anche lei, come Leila, se pensava che Aurora fosse la ragazza più bella della scuola? Mah, a lei piaceva da sempre Luca Pezzetti, il suo vicino di casa, più grande di due anni che non sapeva manco lei esistesse. In ogni caso Leila era stata stupida a dire quelle cose; che si aspettava? Chissà il giorno dopo a scuola se sarebbero bastate delle scuse per ricomporre il magico trio delle Bad Girls.

Il bussare secco alla porta dell'aula fece alzare a tutta la 1^D gli occhi dalla verifica di inglese. Anche la professoressa Marazzi sembrava sorpresa. Senza attendere risposta si aprì uno spiraglio dal quale fece capolino la preside.

«Mi scusi professoressa Marazzi se interrompo. Vedo che state facendo una verifica, mi dispiace, ma ho da dire ai ragazzi  una cosa molto importante.»

«Certo.» si affrettò a dire la Marazzi sbattendo le palpebre a ripetizione. «Certo, Dottoressa Garbelli. Entri pure. Ragazzi posate le penne.»

La preside si posizionò davanti alla cattedra e distese un lungo sguardo su ogni faccia prima di iniziare a parlare: «Ieri, nel cortile della scuola, è successa una cosa molto grave.» si prese un attimo per schiarire la voce. «Una nostra alunna, Leila Gizzi di 2^C è caduta picchiando la schiena a terra. Di sicuro sappiamo che si è rotta il coccige, ma in ospedale stanno facendo ulteriori accertamenti per assicurarsi che non ci siano lesioni alla colonna vertebrale.»

Si tolse gli occhiali per premersi due dita sugli occhi all’attaccatura del naso, fece un respiro e riprese: «Leila sostiene di essere caduta da sola, ma è molto inverosimile visto che è piombata a terra all’indietro. Credo piuttosto che qualcuno l’abbia spinta. Sto facendo questo discorso in tutte le classi perché mi aspetto che il colpevole confessi. Leila potrebbe anche rimanere infortunata a vita e, se qualcuno le ha fatto male di proposito o per sbaglio, deve venire fuori. Chiunque sappia qualcosa  ne parli con me. Non tollero né violenza né bullismo a scuola.»

Si rimise gli occhiali e piantò lo sguardo su Alessia: «De Francesco, all’intervallo vieni da me per favore.» e prese la porta.

Tutta la classe la stava fissando, ne era sicura, anche se aveva gli occhi bassi a guardarsi le mani contorcersi.

«Va bene ragazzi, riprendiamo la verifica. Parlerete di quello che è accaduto con la prof. Bossi alla prossima ora di educazione civica.»

Quando suonò l’intervallo, Alessia si diresse verso l’ufficio della preside. Già all’imbocco del lungo corridoio, poteva scorgere Aurora e Serena a braccia conserte, appoggiate con le spalle al muro accanto alla porta della 2^C. Doveva passare per forza di lì, non aveva scampo. Tentò la tecnica della mimetizzazione mettendosi le mani in tasca e chinando la testa, così che i capelli le coprissero il profilo.

«Belle scarpe di merda quest’oggi frocetta.» sentì dire alla sua sinistra.

«Lo sai che devi stare zitta, vero?» disse l’altra voce.

Alessia aumentò il passo ed entrò nell’ufficio quasi di corsa.

 

«Per me hai fatto bene Ale.»

«Già.»

«Oh, puoi rallentare un attimo?»

«Ho fretta.»

«E perché? Non siamo mica in ritardo!»

Alessia accelerò ancora di più. Martina le arrancava accanto senza mai smettere di parlare con quella vocina sottile e acuta che le si insinuava nell’orecchio come il ronzio di una zanzara.

«E poi scusa, cosa potevi fare? Aurora ti distrugge se osi metterti contro di lei, lo sanno tutti. Se non ha fatto la spia Leila, perché dovresti farla tu?»

Alessia diede un calcio a un sasso che, andando a sbattere contro un cancello lì accanto, scatenò il furioso abbaiare del cane padrone di casa. Si fermò di scatto e, con le braccia  distese lungo le gambe e i pugni serrati,  si rivolse a Martina: «Magari perché Aurora Giusti è una grandissima stronza? O forse perché se tutti continuano ad averne paura, lei andrà avanti a fare come le pare?»

«Ho capito. Ma perché proprio tu? È Leila che dovrebbe pensare a proteggersi!»

«Io sono l’unica che ha visto tutto! Ecco perché. Leila è una debole, venera Aurora come una dea e adesso l’unica cosa che le interessa è riconquistare la sua amicizia. Non parlerà mai.»

«E allora, peggio per lei! Non sono affari tuoi.»

Alessia si rese conto che stava tremando. Fece un sospiro, aprì le mani che le sembrava di aver tenuto strette per una vita e se le guardò: le nocche erano diventate bianche e sui palmi c’erano i segni delle unghie.

«Va beh, Marti, grazie; io però faccio una corsa a casa che mi sono dimenticata di una cosa.» e senza aspettare risposta si mise a correre più veloce che poteva. Già dopo poche falcate, sentiva l’aria calda entrarle a bruciare i polmoni, ma non volle cedere. Lo zaino, sbattendo inesorabile sui reni, la rallentava e lo strappo sulla bretella, cucito alla benemeglio, rischiava di rompersi da un momento all’altro. Superato il primo momento in cui voleva solo vomitare, il cuore prese a pulsare a ritmo con le gambe e le braccia acquisirono finalmente uno scopo. Le sembrava proprio di prendere il volo.

Arrivò a casa zuppa di sudore, ma almeno non tremava più. Mentre piegata in due cercava di riprendere fiato, decise che ne avrebbe parlato con sua madre. Lei le avrebbe detto che fare. Così, giusta o sbagliata, la decisione non sarebbe stata sua.

In cucina l’attendeva la solita tovaglietta col solito piatto coperto. Sentiva la voce della madre provenire dal salotto mentre parlava al telefono.

«Non ci credo!» stava dicendo «Ma davvero gli ha fatto una cosa simile?»

Alessia alzò il piatto piano che copriva quello fondo: gnocchi al pesto. Li osservò per un momento studiandone l’ordine di aggregazione: forse si potevano interpretare come gli aruspici con le interiora degli animali.

«No, senti, va bene tutto, va bene che lui era uno stronzo e che ogni tanto gli partiva il ceffone, ma così lo rovina!»

Doveva essere al telefono con Simonetta, una delle sue migliori amiche, sempre aggiornata sui pettegolezzi più attuali e succulenti.

«Simo, guarda, potrà anche avere avuto le sue ragioni, ma cosa c’entra la polizia? Adesso, con quello che gli hanno trovato in macchina, dieci anni non glieli leva nessuno!»

Finito di mangiare, andò nella sua stanza, ricevendo giusto un cenno di saluto mentre attraversava il corridoio.

«Ma va, l’ha proprio voluto fregare! Con quell’attività lì ci campava anche lei comunque! Ipocrita!»

Con la porta chiusa la voce della madre non occupava più tutto l’etere, così che riusciva a farsi largo una musica lontana che sembrava giungere dall’esterno. 

Aprì la finestra e rimase lì, con i gomiti appoggiati al davanzale ad ascoltare. La musica proveniva dalla casa di fronte, dalla finestra aperta della stanza di Luca Pezzetti.

Conosceva quella canzone (conosceva tutti i gruppi che piacevano a lui): era “Creep”, dei Radiohead.

La colse di sorpresa il suo apparire alla finestra. Lui le sorrise e la salutò con la mano, poi scomparve. La musica aumentò di volume: But I’m a creep, I’m a weirdo, What the hell am I doin’ here?, I don’t belong here.

Avrebbe dovuto imparare meglio l’inglese. Chissà, forse se avesse saputo tradurre i testi delle sue canzoni preferite, sarebbe riuscita a conquistarlo.

La porta si aprì provocando uno spostamento d’aria. «Ma come tiene alto il volume quel coglioncello del Pezzetti!»

«Bussare mai?»

«Oh, ragazzina, questa è casa mia! Comunque, esco con la Simo a fare due compere. Te? Bisogno di qualcosa?»

Alessia la osservò da capo a piedi. Era ancora una bella donna, in forma, con la piega sempre fatta dal parrucchiere e gli occhi azzurri messi in risalto dal mascara e l’ombretto rosa. Non le somigliava affatto, poteva sembrare la madre di Aurora semmai.

«No, grazie.»

«Dai, vieni! Magari ti compro un paio di scarpe nuove, che quelle fanno veramente schifo!»

«No, mi piacciono queste e poi devo studiare. Ho due verifiche domani.» 

Fece un gesto con la mano, come a scacciare una mosca, e richiuse la porta.

 

La settimana successiva, durante l’intervallo, Alessia stava leggendo un manga seduta sul muretto del cortile. Due ombre si insinuarono tra le pagine aperte, costringendola ad alzare lo sguardo. Aurora e Serena le troneggiavano davanti. Sebbene contro luce, riuscì a vederne lo  strano sorriso. D’istinto chiuse il prezioso numero 20 di “Attack on Titans” e lo mise nello zaino.

«Allora, frocetta? Come va?»

Alessia si mise una mano a pararsi gli occhi dal sole. 

«Che c’è?»

Aurora diede una rapida occhiata alla sua accolita, poi, senza perdere la sua solita espressione di disgusto: «Sei una tosta, tu.»

Le sopracciglia di Alessia si impennarono a mezza fronte. Lo sguardo di Aurora si addolcì e Serena le si sedette accanto.

«Sì, insomma” proseguì aprendo la bella bocca in un sorriso, «chissà quanto ti ha rotto le palle quella cessa della Garbelli, eppure tu non hai parlato.»

I denti di Aurora riflettevano col loro biancore la luce accecante di maggio. «Io e Serena abbiamo pensato di farti entrare nel gruppo. Le Bad Girls, sai.»

«E Leila?»

La sua risata colse Alessia di sorpresa. Non l’aveva mai sentita ridere prima. Era adulta, piena, sembrava quella di sua madre. 

«Leila è fuori dai giochi. Te l’ho detto che le lesbiche non sono bene accette. Cos’è, sei davvero una frocetta e ti sei presa una cotta per lei?»

«No.» rispose guardandosi le scarpe.

L’espressione di Leila dolorante a terra, il suo pianto disperato come unico rifugio dall’umiliazione subita, le si conficcarono nello stomaco impedendole di dire altro.

«Ottimo. Allora è deciso. Ci vediamo domani all’entrata. Le Bad Girls entrano sempre insieme. Mi raccomando, puntuale.»

Si era già girata per andarsene, poi ci ripensò: «Ah, e… comprati delle scarpe nuove per favore.»

Immagine generata con DALL-E
“a rucksack on the floor with a broken shoulder strap, next to some old and ruined sneakers, oil painting”