Non Altro
Lei è lei, non altro. Per l’ennesima volta, ho pensato. Qui c’è qualcosa che non torna. Possibile che ancora una volta la stessa frase e ancora una volta una ragazza diversa? A che punto della storia arriva il momento in cui singole lettere disperate si cercano e mi si compongono tra le orecchie come una nenia e restano lì a battere il loro ritmo inquietante per giorni NON ALTRO NON ALTRO, a volte per mesi, fino a scomparire insieme a tutte le sue cose, rossetti e assorbenti, che ho avuto a casa mia fino a un attimo prima?
Lei è lei, non altro. Una volta ancora. Ma ancora una volta sono io, che resto lo stesso nello stesso punto, senza aver fatto un passo, o almeno adesso mi viene così da pensare. Intanto lei è lei, ed è lì dentro, ad aspettare che torni la corrente per riprendere ad andare, fuori dalla galleria, all’aria aperta.
Cammino alla luce fredda della torcia, pietra dopo pietra, tra i binari e il muro, senza sapere in quale direzione e se c’è un’uscita vicino. E camminando, mi rimbombano i timpani, sul soffitto a botte rimbalzano le parole NON ALTRO. Mi si schiantano tra le gambe, non vedo niente per pochi secondi e inciampo. Sento la paura piombarmi addosso.
Lei è lei, lei che ho conosciuto facendo la spesa.
«Sei carina» le ho detto, dopo la quarta volta che mi superava sorridendo davanti alla bilancia al reparto frutta e verdura.
«Grazie.»
«No dicevo: sei carina a passarmi davanti così disinvolta».
«Sei carino anche tu, comunque.»
«Sì, grazie, ma mi sa che non hai capito quello che ti ho detto.»
«No no, ho capito benissimo, è solo che oggi non ho voglia di fare polemica.»
«Bastava un semplice scusa, ma anche qualcosa del tipo non ti avevo proprio visto sarebbe bastato.» «Ma scusa è una parola che non ha odore.»
Si è aggiustata il ciuffo, ha preso la mira col suo sguardo blu, infallibile, ha puntato proprio al centro dei miei occhi: «Non so perché e magari mi sbaglio, ma mi sembri uno di quei tipi che comprano sempre le stesse cose.»
«Mi sa che ti sbagli. Cambio spesso. Questo è il periodo di avocado, rucola e limone. Poco fa ero più su feta, songino e tonno.»
«Poco fa quando?»
«L’anno scorso.»
«Io direi che puoi metterci un kiwi. Lo hai mai provato nell’insalata?»
«Anche no.»
«Bene. Torniamo indietro a prenderne uno.»
Andavo da anni a fare la spesa, una volta alla settimana, solitamente il sabato pomeriggio verso le 17, nello stesso supermercato. Era il più vicino a casa. Era rinomato per essere il supermercato per i single. Chiunque vivesse in zona aveva almeno tre storie di rimorchio tra le corsie strette e gli scaffali, tutti dicevano che erano strette apposta, per far urtare o strusciare almeno le persone tra loro. A me non interessava niente quell’andazzo, io quando andavo a fare la spesa volevo solo fare la spesa. Prendere ciò che mi serviva, pagare e andare via.
Alla cassa quel giorno lei mi guardava ridendo, con le mie buste in mano, mentre pagavo il conto di cose che mai avrei pensato di comprare. Non capivo a cosa potessero servire nell'economia dei miei giorni, da sabato a sabato per finire tutto e averne abbastanza, kiwi e verza bianca, pasta sfoglia e senape in grani e due buste di farina di ceci.
Ma non era andata esattamente come racconta un paroliere un tantino romantico, noi due che spingiamo un carrello tenendoci a braccetto e nel mentre si parla di tutto, persino dei surgelati rincarati e sorrisi e risate sbavano via dalle nostre mascelle. No. Io guardavo la lista, prendevo e cancellavo, e intanto lei mi toglieva una cosa e ne metteva un’altra. È più o meno lo stesso ma ha un altro sapore, continuava a ripetermi, e dopo un po’ non sapevo più che rispondere, era inutile provare a dirle che fagioli e ceci erano sì legumi, ma i ceci freddi nell’insalata non erano poi così buoni, almeno non come i fagioli.
«Mettila così, con i ceci ci puoi fare l’hummus, ed è una salsa fredda buonissima e la puoi mettere ovunque, anche nell’insalata; con i fagioli no. Però per fare l’hummus ti serve un’altra cosa. Ed è la crema di sesamo, questa qui, vedi?»
In ogni caso lei è lei, non altro, e lo è sempre stata una che cambiava continuamente gioco, e non potevi fare che arrenderti e lasciarti portare o restare immobile sui tuoi passi e aspettare con vergogna che finisse i suoi giri o smettesse di far finta di pattinare tra gli scaffali mentre tutti la guardavano divertiti.
E quella sera per farsi perdonare è voluta venire da me a cucinare. Ed era davvero buona l’insalata con i kiwi e buonissimo l’humus spalmato sul pane caldo e il rotolarsi addosso e tutto il resto. Fin troppo buono tutto, che alla fine è rimasta, con le sue buste della spesa annodate e infilate nel mio frigo, e dopo ha sciolto i nodi e abbiamo mangiato tutto, nudi e affamati, nei giorni seguenti.
Una notte mi sveglio e la vedo in piedi a guardare fuori, verso l’alto.
«Ma tu hai mai provato a farti girare la luna sulla punta di un dito?»
«Come un pallone?»
«Più o meno.»
«Mai. C’ho provato a capire come fare, si potrebbe mettere l’indice sotto la luna e provare a darle uno schiaffo per farla girare.»
«Forse non è il metodo giusto» mi ha detto sorridendo, e mi ha chiesto di darle una mano a farla girare su se stessa, mentre teneva l’indice puntato in alto, proprio sotto il mento della luna.
E tutte le notti la facevo girare con una leggera spinta sui fianchi e una mano all’altezza delle spalle, per rimetterla in asse quando si sbilanciava e perdeva il contatto. Tutte le notti, bastava ci fosse uno spicchio di luna.
«Perché non provi?»
«Non mi va, grazie. È una cosa tua e io non c’entro.»
«Cosa è che ti tiene sempre lì, me lo dirai un giorno?»
«Ma lì dove? È che a essere sincero, questa cosa qui della luna mi sembra una cazzata.»
«Ah davvero? E perché?»
«Non ha alcun senso e non serve a niente. Ti aiuto solo per farti piacere.»
«Posso smettere se vuoi, tanto posso farlo anche senza farmi vedere da te.»
«Avresti bisogno di qualcun altro, allora?»
«Nessuno, puoi stare tranquillo.»
Notte dopo notte, mi sono deciso a provare, volevo girare anche io e volevo che lei mi aiutasse e magari mi svelasse qualche segreto su come tenere sempre la luna ben dritta sulla punta dell’indice.
Mi ha fatto girare in silenzio, guardandomi e sorridendo, il rossetto e gli assorbenti erano nel primo cassetto del mio bagno. Quando la luna non c’era, si affacciava lo stesso dal balcone, sopra la città addormentata, e sorrideva dicendo: «Oggi non possiamo girare ma possiamo ballare.»
«Ma ballare per cosa» mi veniva da chiederle. Era già un periodo! Io e lei eravamo noi. Ma noi siamo così, non bisogna farsi illusioni. Siamo questa cosa che anziché ballare ci si calpesta le punte dei piedi, delle volte mentre si fa una giravolta si perde una scarpa e bisogna fermarsi e ricominciare. Noi siamo noi, non altro, purtroppo. Volevo dirlo, ma non l’ho fatto. Ho ricominciato a concentrarmi su di lei, mi veniva più facile.
Lei non era in giornata per discutere. «La cosa più sensata da fare» disse «è un viaggio e un ritorno.»
«Io di viaggi, in verità, ne conosco solo con ritorno» – le dissi.
«E gli emigrati che non riescono a mettere insieme i soldi per tornare? E la morte» mi chiese. «E gli esuli forzati? Dall’autorità o da se stessi, intendo, dove li metteresti? E comunque ci sono dei posti che vorrei farti vedere.»
L’aspetto in stazione. Alle 2 e mezza la sala d’attesa respira a fatica. Dal centro qualcuno ha tolto le poltrone logore.
Io me ne sto vicino al vetro e non mi perdo un treno, sai mai che è la volta buona. Sto sempre in cerca di un treno nuovo, che proprio perché nuovo non mi chiede di affidarmi, non avrebbe senso. Una frequentazione senza impegno e sarei libero dalla paura.
Esco sulla banchina per una boccata di puro smog e nient’altro. E lei è lì in una divisa blu da macchinista e, sorridendo, mi invita a salire sulla motrice.
Il treno tamburella via dalla stazione, i pistoni iniziano a soffiare per aumentare l’aderenza, la testata vibra dilatandosi nell’aria, e lei inizia a sfiorare la sua arpa.
«Dove vuoi fermarti» mi chiede, mentre il treno picchia sempre più potente sul rullante; e io: «Non tocca a me decidere.» Allora mi fa accucciare ai suoi piedi, mi poggia un cuscino dietro la testa e riprende a pizzicare le corde.
Mi sveglia con una carezza. Scendiamo in un piccolo paese di sassi, su una collina. Mi porta a visitare la pietra della vergogna, sul sagrato della chiesa di S. Giacomo. L’inscrizione recita: Per le donne che si rendono colpevoli di adulterio, le ragazze madri e gli uomini che commettono piccolissimi furti. Ci guardiamo e scoppiamo a ridere. Poi ci sediamo sulla pietra, insieme: è il punto più bello da cui guardare la piazza.
Pranziamo in una casa cantoniera, col treno in moto fuori dalla finestra. Il cibo delle guardabarriere ha un sapore che non credo di conoscere. Il vino scivola leggero.
Risaliamo mano per la mano e il treno riprende la sua musica, lei a suonare, dopo avermi messo il cuscino dietro la nuca.
Il buio è già arrivato quando apro gli occhi. Lei fissa la luce dei fanali. Poi mi guarda: «Sono stanca di guidare, questo lavoro mi ha annoiato.» Getta via la divisa dal finestrino in corsa.
Alla prima stazione salto giù, e ne rubo una. «Condurrò io per un po’, se ti fidi.» Lei sorride, spera finalmente. Le metto una coperta sulle gambe, un salvagente di spugna dietro la testa e sintonizzo la radio sui racconti più belli, mai scritti.
All’alba fermo il treno tra le vigne. Da lì scendiamo al mare. C’è una palafitta, poco distante, che le voglio far visitare. È stipata di quadri. Orridi e osceni.
All’ingresso è scritto: Agli uomini che non custodiscono nulla di intimo, ai ragazzi padri e alle donne che si sono macchiate di piccolissime illusioni. Ci smostriamo e strizziamo di smorfie davanti alle tele. Prima di andare via, capovolgiamo i quadri. Sono molto più docili da guardare.
Al ritorno sul treno, stendo la tovaglia e preparo dei panini alle betulle. «Per tenere lontani i fantasmi» le dico. E lei, che è lei, ha parole da lanciare. A lei i fantasmi piacerebbe che arrivassero, per scoprire se siamo all’altezza del domani e di alcuni dei nostri sogni. «I fantasmi non sono fantasmi, sono altro.» E butta via i panini dal treno in corsa.
«E adesso che mangiamo?»
«Non potremmo solo stare un po’ in silenzio?»
«Perfetto, così almeno la finisci di parlare di fantasmi.»
Quando è saltata la corrente eravamo in galleria, c’eravamo entrati da poco, credo, non ce ne siamo davvero resi conto. Non sapevamo dove poteva essere l’uscita più vicina, se davanti a noi o dietro di noi. Ho sentito lo stomaco stringermi tutto, come mi volesse risucchiare.
«Dobbiamo andare. È come se fossi diventato sordo qui dentro ad aspettare.»
«Non aspettiamo niente. La corrente tornerà da sola, quando vuole lei; noi ci possiamo rilassare e baciare a lungo, e mangiare e tenerci vicini per riscaldarci un po’.»
«E perché dovrebbe tornare da sola la corrente?»
«E tu perché non ti fermi a sentire l’odore della tua paura e a resistergli solo un momento?»
«Qui non si tratta di paura. Hai lanciato i panini dal finestrino, non abbiamo nient’altro da mangiare.Poi a me non piace starmene sperso non so dove, al buio. E tu non sei mica obbligata a venire con me.»
Cammino. Ho la torcia quasi scarica. Inciampo. Di uscite neanche l’ombra. Sul soffitto rimbomba NON ALTRO non altro, ma il suono arriva sempre più confuso, come se quel ritmo iniziasse a perdere forma e le lettere finissero per staccarsi tra loro e mischiarsi alla rinfusa.
L’unica cosa che mi viene da fare, la luce sempre più fioca, è cercare un odore che mi riporti alle sue parole. Lei è lei, e altro, come è altro la sua farinata di ceci, altro le parole senza odore, altro i fantasmi che vorrebbe io guardassi. Lei è lei, e altro, è ciò che sta domandando di me a me stesso.
Sui passi del ritorno c’è la busta che lei ha lanciato dal finestrino in corsa. I panini sono intatti, avvolti ancora nel tovagliolo. Le betulle hanno un odore inconfondibile, dà alla testa. Spengo ciò che rimane della torcia. Ne scarto uno e lo azzanno. Mi riempio la bocca, fino a non riuscire quasi più a masticare. Quando l’ho finito, mi succhio le dita con calma, la schiena poggiata al muro. Riaccendo la torcia, infilo l’altro panino in una buca e torno indietro.
Tra i binari e il muro iniziano a tremare le gambe, la testa vuota lascia spazio alle lettere NON, nessuna traccia dei racconti più belli, mai scritti.
Lei è lì dentro, aspetta fiduciosa che torni la corrente e galleggia tra i flutti, come se niente fosse. I miei piedi poggiano su pietre sconnesse.
I fantasmi non si fanno vedere, ma più si avvicina la motrice, più sento bisogno di aria. Di ALTRO.
I fantasmi vanno lasciati stare, sono fantasmi, non altro. Ci sono sempre stati e ci saranno anche domani. Non hanno nulla a che vedere con i sogni.
La corrente è tornata e lei è seduta sui gradini ad aspettare me. «Non è stata una buona idea il panino alle betulle, vero?» mi chiede fissandomi negli occhi. Mi passo una mano sulla bocca, non c’è nemmeno una briciola.
«Non sei pronto per i tuoi fantasmi» mi fa con voce secca.»
«Forse non sono pronto per te. Non credere mica di essere così accogliente.»
C’è voluto un po’ per uscire dalla galleria, la motrice ha balbettato a lungo. Ci siamo trovati fuori all’improvviso, era notte. Dovevano esserci le stelle oltre le nuvole bianche. In un punto preciso si vedeva nitido l’alone della luna. Fosse stato per me, quella sera avrei anche provato a puntare in alto l’indice, preciso sotto il mento, e a prenderle la mano e poggiarla su un mio fianco e lasciarmi girare.
Ma l’avrei fatto tante altre volte, con lei? Avrei ballato nei giorni senza luna, fuori al balcone, sopra la città addormentata?
C’è qualcosa che non torna, è vero. La mia affermazione è sbagliata. Se quelle singole lettere disperate, che si cercano e mi si compongono tra le orecchie come una nenia e restano lì a battere il loro ritmo inquietante, me le rivoltassi contro? Se le obbligassi a guardare verso un altro punto? A fissare qualcosa che è la sola che non cambia mai?
Io sono io, non altro.
Dovrei andare avanti, con lei. Smettere di ricominciare. Fare lo zaino per due ogni volta che è triste e partire per un giro intorno al mappamondo, in salotto. Lo abbiamo trovato sotto casa di fianco al cassonetto, ma era come nuovo.
Immagine generata con DALL-E
“a moon spins fast on a finger like a basketball in the style of matisse”