Ti faranno tutti la festa

«Il buffet è pronto?»

«Sì, Carola.»

«Antipasti, primi e secondi?»

«Pronti,»

«La torta è in frigorifero?»

«La decorazione sulla torta si è sciolta o è ancora in piedi?»

Carola si era finalmente laureata. Dopo cinque anni di studio intensivo e di sabati sera trascorsi sui libri mentre i suoi colleghi facevano festa, ora aveva raggiunto il suo obiettivo. L’avevano proclamata dottoressa in giurisprudenza con centodieci e lode, per la gioia di mamma e papà. Aveva pianificato per due mesi la sua festa di laurea. Le notti d’inverno si avviluppava nel plaid e l’abat-jour della sala rimaneva accesa a illuminare i fascicoli nei quali aveva raccolto i dettagli della festa. Suo padre abitava all’estero, per lavoro, ma lui sapeva come colmare le distanze. La video-chiamava ogni giorno e le faceva piccoli regali simbolici e divertenti, come un peluche a forma di orso con la toga o un un segnalibro con scritto “Sai qual è il colmo per un avvocato? Stare seduto e studiare diritto”. Ma con sua madre il rapporto era diverso, più freddo, e il solo pensiero che potesse non essere fiera di lei le faceva mordere le dita.

 

«È tutto al suo posto» aveva detto un membro del catering, un ragazzo sulla

trentina con i capelli corvini laccati da un lato, come un attore americano degli anni ’50.

Carola sentì toccarsi il gomito e senza voltarsi riconobbe la voce accogliente della sua coinquilina, Gabriella.

«Gli ospiti stanno per arrivare.»

Carola rizzò la spina dorsale e allungò il collo, come per scorgere qualcuno in lontananza. Poi alzò un braccio e schioccò le dita verso un uomo panciuto con dei Levis che gli cascavano sotto la vita. Ogni volta che lo guardava era là, intento a tenerli su. Stava con la testa nello schermo della macchina fotografica.

«Stanno arrivando! Sei pronto?» aveva detto alzando il tono affinché lo sentisse.

L’uomo si alzò i calzoni e tirò su il pollice con aria remissiva.

Le ruote frenavano sul sentiero ghiaioso e Carola si affrettò per aprire il portone di legno verniciato. Lo aprì e una coppia di colleghi universitari stava sostando in attesa che gli amici li raggiungessero. Lei, una bionda platino con tacchi vertiginosi, cercava l’aiuto del compagno per mantenersi in piedi e si lamentava del dolore alla punta delle dita. Lui la reggeva offrendole il braccio, con il busto rivolto alle sue spalle. Carola li aspettava sulla porta come una brava padrona di casa, con le spalle dritte, il mento all’insù e un sorriso cordiale stampato in faccia.

 

«Benvenuti, accomodatevi.»

Poco alla volta, gli invitati entravano nel palazzo e alzavano lo sguardo alle pareti e al soffitto come si fa nelle gallerie d’arte. L’arredamento era in stile settecentesco e le pareti rosate ospitavano riproduzioni di Enrico IV, Maria De’ Medici, Maria Antonietta e Carlo XII di Svezia. Dal giardino riscaldava gli ospiti un dj che fece partire Sugar di Robin Schulz.

«Che meraviglia!» aveva detto la ragazza con i tacchi.

«Almeno non torneremo a casa a stomaco vuoto.»

Due carrelli trasportavano quattro vassoi ricolmi di antipasti freddi, primi piatti e secondi di carne e contorni di verdure. Il giardino e il salotto cominciavano a riempirsi e Carola se ne stava in piedi, vicino all’ingresso, a contare con minuzia gli invitati. Erano arrivati molti dei colleghi universitari, qualche compagno del liceo e un paio di amici. Con le dita intrecciate all’altezza dell’ombelico, sorrideva a chi la salutava e l’abbracciava e si complimentava del conseguimento della laurea e per la scelta della location. Lo sguardo saltellava da un capo all’altro e a ogni volto spuntava mentalmente un nome sulla lista. Qualcuno diceva ma che bel posto, che giardino, sai quante feste si possono fare qui. Una coppia di colleghi, lui con una giacca blu di cotone e la camicia bianca sbottonata, lei con un abito lungo e senza maniche, stretto nella vita, avevano richiamato la sua attenzione con garbo e le avevano chiesto gentilmente di poter fare un tour del palazzo. Lei aveva sorriso con eleganza, strizzando gli occhi e aveva detto che certo, potevano farlo, ma più le persone si complimentavano più un nodo le stringeva la gola, come un batuffolo di cotone incastrato nell’esofago.

Cercando di non dare nell'occhio, Carola si aggirava per il palazzo alla ricerca dell'unica persona che ancora non si era fatta viva. Dov'era sua madre? Eppure l'aveva invitata

L’aveva prima telefonata, settimane prima, per un lieve accenno. Poi le aveva preparato una cena a base di pesce, nel suo appartamento, con una buona bottiglia di bianco frizzante, per ufficializzare l’invito. Lei aveva lasciato due bocconi di orata al forno, scusandosi, dicendo che era piena. Aveva snobbato persino il bicchiere di Occhipinti.

«Mia madre si è fatta vedere?»  aveva domandato a Gabriella.

«Non ancora, mi dispiace.»

 

In quell’istante Carola aveva volto il collo a destra e a sinistra e aveva avuto la netta impressione che tutti gli invitati la stessero osservando. Le voci si erano acquietate, ma il brusio si era fatto sinistro, malizioso. Le era parso di vedere due colleghi ridere di lei e altri addentare dei vol au vent farciti, indicandola, sogghignando con la bocca piena e la mano davanti.

«Che te ne importa? Ci divertiremo lo stesso.».

 

La festa si era scaldata. Gli ospiti avevano consumato il loro pasto e le bottiglie di vino cominciavano a dimezzarsi. Qualche mini quiche era caduta dal piatto ed era finita ai piedi del tavolo. Il catering stazionava con le spalle dritte e le mani intrecciate dietro la schiena in attesa che qualcuno chiedesse da bere, cosa che avveniva sovente. Da un lato della sala, una collega di Carola lanciava le noccioline a un suo amico e lui

tentava di prenderle al volo con la bocca. Qualcuno si era messo a ballare sotto le note di un remix di My blue heaven di Artie Shaw. Mentre le persone si abbandonavano gradualmente al divertimento, i pensieri di Carola erano affusolati come maglie di una catena attorno alla presenza della madre. Spesso lanciava occhiate alla porta d’ingresso nella speranza di vederla entrare. Alle sue spalle arrivò un ragazzo, il fidanzato di una collega.

«Carola, sai, questo posto è davvero una bomba!» aveva gridato con il calice di bianco nella mano sinistra e una centos della Pall Mall nella destra.

«Grazie. Però, scusa, qui dentro non si può fumare.».

Il ragazzo corrugò la fronte e fece un’espressione del tipo: come sarebbe a dire. Barcollava vertiginosamente. Si era voltato e aveva indicato un punto della sala pieno zeppo di gente e di fumo.

«E quelli allora? Io sto fumando una sigaretta, che vuoi che sia. Quelli si stanno facendo una canna!»

Carola strabuzzò gli occhi.

«Come “una canna”?»

«Sì, una bella canna cara la mia laureata»

 

Carola spostò il ragazzo e nel farlo gli fece cadere un po’ di vino dal calice. Lui pareva molto contrariato. Lei si diresse verso il gruppo e sentì l’odore dell’erba che bruciava nella stanza.

«Ragazzi, qui dentro non si può fumare» aveva detto.

Era un gruppo di sei persone disposte in un cerchio scomposto. Nessuno di loro l’aveva sentita. La canna passava di mano in mano e ridevano.

«Ragazzi?» aveva provato a dire alzando la voce.

Ma niente, sembrava che lei non fosse presente. Sentiva la sua voce come se provenisse da molto lontano persino quando pensava, persino quando usciva dalla sua bocca. Pensò che da un momento all’altro sarebbe potuta arrivare sua madre. Che cosa avrebbe pensato se avesse visto i suoi colleghi fumare una canna, se li avesse visti così ubriachi?

La immaginava stare con le mani intrecciate in un angolo del salotto con lo sguardo austero e giudicante, per poi in privato chiederle: sono questi gli amici che scegli?

Le era venuta in mente l’idea di andare in giardino, dal dj, e prendere il microfono per fare un annuncio. Aveva sbuffato rumorosamente e aveva alzato gli occhi al cielo. Si era diretta in giardino e aveva chiesto al dj se potesse darle il microfono.

«Ma certo» ma anziché consegnarlo a lei, lo prese in mano e lo portò alla bocca

«Ragazze e ragazzi, un grandissimo applauso per Carola che si è laureata!» ed era partito un fragoroso applauso, qualcuno aveva anche fischiato con le dita tra le labbra. Poi il ragazzo con le centos aveva alzato il calice e aveva urlato “discorso” e tutti appresso a ripetere in coro. Carola aveva preso il microfono in mano, ma ciò che le premeva era ribadire le regole da seguire. Erano in un palazzo antico, non potevano fare ciò che volevano. Proibito fumare canne e vietato fumare all’interno della casa. Questo era quello che avrebbe voluto dire.

«Vorrei ringraziare tutti quelli che sono venuti oggi» in quel momento pensò a sua madre e le sussultò la voce «e il catering, il fotografo» li aveva indicati, «e ovviamente il dj», e tutti fecero un urlo di gioia, «vi chiedo solamente di non

fumare dentro, ragazzi. Fumate fuori, okay? Grazie a tutti» e tutti fecero un verso di dissenso per poi ripiegare in un timido applauso.

Carola abbandonò il microfono su una sedia e si sentì un fischio. Gabriella corse verso di lei e la prese a braccetto prima che si allontanasse.

«Carola, devi rilassarti. Sei troppo tesa.»

«Lo so, diamine» si tamponò la fronte con il dorso della mano.

«Andiamo a farci un giro in casa, in camera da letto.»

Carola e Gabriella avevano salito le scale. Il corrimano in ferro, verniciato di un colore bronzeo e dall’aria antica, aveva una superficie fredda. Carola si era accorta solo in quel momento che le sue mani erano sudate e appiccicose, perché il palmo e le dita facevano resistenza. Mentre salivano le scale, Gabriella la rassicurava, la festa stava andando bene e non aveva nulla di cui preoccuparsi. Eppure qualcosa nella sua voce la tradiva, come un timore sotterraneo, un freno a mano alzato a metà. Carola parlava a briglia sciolta. Le parole fuoriuscivano come quei foulard colorati che sbucavano infiniti dalla manica di un prestigiatore. La festa era fuori dal suo controllo. Le persone avevano superato il limite dell’ebbrezza, fumavano, lanciavano il cibo in aria, a terra. Ai suoi occhi apparivano come selvaggi. E sua madre, perché diavolo non era ancora arrivata? Erano trascorse ore. Avrebbe voluto chiamarla, ma telefonarle sarebbe stato come ammettere quello che non voleva confessare a se stessa: desiderava il suo consenso. Carola e Gabriella avevano salito l’ultimo scalino e avevano ammirato a destra la sala da pranzo ben apparecchiata, intonsa, con i piatti di ceramica lucidati. I bicchieri di cristallo erano vuoti. Il piano di sopra pareva essere incontaminato. Voltarono a sinistra dove la porta della prima camera da letto era chiusa.

«Ora parliamo un po’.»

«Non ne posso più. Ho bisogno di…»

Gabriella aprì la porta ed entrambe videro una coppia fare sesso sul materasso. Le lenzuola e le coperte accartocciate come fogli di alluminio e il cuscino macchiato di sudore. La coppia non si era scomposta minimamente. D’istinto Gabriella richiuse la porta, sbattendola.

«Va bene. Andiamo nell’altra»

Gabriella prese per mano l’amica ma lei si sciolse dalla presa. Si faceva aria con la mano aperta a ventaglio.

«Qui è una giungla. Volevo organizzare una festa, non un'orgia.»

«Non è un’orgia, dai. Sono solo due innamorati che stanno facendo sesso.»

«Quel letto era immacolato da anni. Il padrone si è raccomandato con me: questo non è un albergo, è un edificio antico nel quale si tengono ricevimenti, eventi culturali, feste “a modo”.»

Gabriella aveva aperto la porta della seconda camera da letto e tirò un sospiro di sollievo. Era vuota. Le pareti erano rivestite di una carta da parati rosa salmone. La stanza era decisamente più intima e raccolta e al centro della parete settentrionale troneggiava un letto a una piazza e mezza con accanto due comodini blu reale. Sui muri, due dipinti. Il primo raffigurava una donna con una lunga gonna a strascico e le spalle scoperte e un giovanotto con i capelli ricci e scompigliati, la mano destra sui fianchi e la mano sinistra aperta in direzione della donna. Lei dava le spalle allo spettatore, lui offriva il volto. Sembravano in procinto di cominciare una danza e

Carola sentì un moto di invidia salirle dalla bocca dello stomaco. Un ricordo con un filtro viola la riportò al passato per un istante.

«Cosa ti aspettavi che succedesse? Siamo universitari, non siamo dei nobili di trecento anni fa.»

L’altro dipinto era incastrato in una cornice d’argento. Era il primo piano di una donna dalla schiena ritta, il petto in fuori in cui il seno non respirava, il mento all’insù e i capelli lisci raccolti in uno chignon. Sua madre adorava portarli così. Poi, in un momento in cui la luce del sole rimbalzò sulla superficie vetrosa del dipinto, vide nel riflesso la stessa capigliatura. Si era completamente scordata di avere lo chignon.

«Non voglio che mia madre assista a questo inferno.»

«È solo una festa. Che mai dovrebbe dirti?»

«Tu non la conosci mia madre. A volte è un po’…»

«Moralista?»

Carola si era stretta nelle spalle, lo sguardo che scivolava dal dipinto alla punta dei suoi piedi. Gli mancava suo padre.

«Insomma, hai organizzato la festa per lei?»

«Sì, cioè, no. L’ho organizzata per divertirci.»

«E ti stai divertendo?»

«No.»

«Ecco.»

 

A un certo punto si sentivano dei rumori sordi provenire dal piano di sotto, come se un gigante stesse bussando sul soffitto.

«Vieni, andiamo a vedere.»

Scesero le scale più in fretta che poterono. Più scendevano le scale più il volume della musica aumentava. Era così alto che Carola faceva fatica a sentire i suoi pensieri. Non riusciva a credere ai suoi occhi. In un angolo della sala un ragazzo stava per pisciare contro i muri e quando Gabriella gli aveva chiesto che cosa diavolo stesse facendo il ragazzo le rispose che il cesso era otturato e che i vasi nel giardino erano già occupati. Gabriella e Carola si erano sporte oltre l’uscio del giardino ed erano rimaste a bocca aperta. Alcune ragazze vomitavano nei vasi, altri ragazzi facevano pipì. Si respirava un’aria calda e acida. Dei colleghi si erano messi a ballare sui tavolini di legno del giardino e a ogni passo di danza li vedeva traballare. Sul lungo tavolo di vetro nel salotto, una ragazza si era abbassata il vestito ed era rimasta in reggiseno. Un ragazzo le aveva versato del vino sull’ombelico e le aveva detto che ora avrebbe bevuto un fiume sacro dall’ombelico del mondo, la foce della vita e della linfa e dell’essenza delle cose e tutti avevano urlato “vai, vai, vai”. Aveva una cravatta legata al contrario. In fondo alla sala, con un sorriso compiaciuto, il fotografo scattava senza sosta. Ogni tanto si fermava per bere del vino, ma erano così tante le scene da immortalare che non riusciva a distogliere l’attenzione.

«Questo è troppo.»

Carola si era catapultata dal fotografo. Lui la fotografava mentre le narici si dilatavano e la mascella si serrava. Gli aveva abbassato la macchina e gli aveva detto: che cosa stai facendo?

«Mi hai pagato per fare le foto e io le sto facendo.»

«Non vedi che cosa sta succedendo?»

«Sì, ed è fantastico» disse bevendo un altro sorso di vino e appoggiando il calice su un mobile di trecento anni prima. Sulla superficie di legno c’era l’areola umida di vino e lo stampo del bicchiere.

«Non è fantastico, piantala. Vattene.»

«Come vuoi, tanto mi hai già pagato» disse facendo spallucce e sistemandosi le braghe. E poi continuò a scattare.

Carola si voltò senza salutarlo e disse a Gabriella di andare a staccare la spina al dj. Si era fermata come una statua di sale al centro della sala, le mani sui fianchi e il respiro affannoso. Avvertì un tremolio partire dalle ginocchia. Fu come se un terremoto volesse dissestarla dall’interno. A ogni tremore, sentiva i nervi spezzarsi e le ossa comprimersi nel petto, negli avambracci, nel collo. La scatola cranica si stringeva e più il suo sguardo oscillava nella stanza più le immagini si facevano offuscate e oblunghe, come un corridoio che si assottiglia per un’allucinazione. Nel frattempo la musica era scomparsa e Carola sentì all’improvviso la schiena diventare gelida e cremosa. Quando si voltò, vide un cameriere a terra con la scarpa slacciata, un vassoio semivuoto con ciò che restava di una torta e il resto spalmato a terra e sulla sua schiena. Aveva allargato le braccia come a dire: ma che cazzo fai? Lui l’aveva guardata costernato e le aveva chiesto scusa. I presenti avevano interrotto la danza, anche se la musica si era stoppata già da un paio di minuti e volsero l’attenzione a lei. Dopodiché scoppiarono in una risata sguaiata generale. Carola sentiva gli occhi e le dita puntate sul suo vestito sporco di panna e cioccolato fondente. Gabriella rientrò dal giardino e prese a correrle incontro mentre gli amici e i colleghi la indicavano e ridevano. Ma durante la corsa si fermò e Carola le vide un’espressione sgomenta sul volto. Sulla porta d’ingresso, la madre. Lei si girò per assicurarsi che non fosse un sogno, o per meglio dire un incubo. Stava inalando troppa aria, pensò Gabriella, perché vedeva il suo vestito gonfiarsi a ogni respiro come un materassino da spiaggia. La madre teneva lo sguardo fisso sulla figlia. Gabriella credeva di non aver mai visto occhi come quelli. Occhi che sembravano esprimere un vuoto espressivo fondamentale. Impossibile vederci amore, impossibile vederci disprezzo. Sapeva solo che lei, contro ogni senso logico, se ne sentiva minacciata, come se dietro quelle pupille immobili ci fossero pensieri soprannaturali.

Carola tuffò il viso tra le mani e scappò in bagno.




L’acqua traboccava dal water e nell’antibagno si respirava già l’odore stantio dell’urina. Lei si era seduta sull’ampio lavabo in marmo con fantasia a tartaruga e i colori marini, lo specchio barocco, e stava domandandosi perché i suoi occhi non riuscissero a piangere. Sentiva le lacrime incagliate da una diga di carne e inconscio. Pulsavano e spingevano come un gruppo di ribelli che vuole forzare il portone del castello. Aprì la sua flap bag e prese un disco di cotone con cui si tamponò l’angolo degli occhi. Poi una vibrazione le fece tremare le gambe e si accorse che le squillava il telefono. Guardò il display e rispose.

«Papà.»

«Ehi, principessina, come stai? Come sta andando la festa?»

Carola sbuffò dal naso.

«Un disastro, papà.»

«Perché? Che succede?»

Suo padre doveva essere all’aperto perché Carola sentiva il frastuono del traffico metropolitano.

«Sono tutti ubriachi, stanno facendo dei danni al palazzo. Era una mia responsabilità, dovevo stare attenta, tenere tutto sotto controllo.»

«Ma che dici»

«Sono stata stupida. Dovevo sapere che sarebbe finita così. Non sono stata capace di tenerli a bada.»

«Tenerli a bada? Cosa sono, delle bestie?»

«Quasi.»

Suo padre aveva riso.

«I giovani sembrano sempre delle bestie, effettivamente.» . ..

Lei era rimasta in silenzio.

«Be’, mi pare di capire che loro si stiano divertendo» continuò il papà.

«Sì, loro sì.»

«Tu invece no?»

Lei aveva fatto di no con la testa.

«Stai scuotendo la testa?»

«Sì»

«E perché non puoi divertirti anche tu?»

«No.»

«Perché mai?»

«La mamma ora è qui, io sono…»

Si era specchiata per controllarsi la schiena. La panna le si stava asciugando sul vestito mentre quella in esubero gocciolava a terra.

«Anche da piccola avevi il terrore della mamma. Quando avevi cinque o sei anni ti abbiamo iscritto a danza. Io non potevo venire a vederti, ma la mamma veniva sempre. Ti accompagnava, ti veniva a prendere, parlava con le insegnanti, sai, per assicurarsi che facessi la brava, che fossi capace a ballare, che andassi d’accordo con le compagne. Poi alla fine dell’anno la compagnia ha organizzato un breve saggio. Due sere prima del saggio c’era l’ultimo giorno di prove e io non potevo assistere al saggio, perché dovevo lavorare, così ci siamo intrufolati nella scuola per vedere le prove. Era una sala tutta viola, suggestiva. Tu stavi ballando ed eri bravissima. Facevi piroette così perfette che sembravi un girasole», Carola aveva sorriso, « ma poi hai incrociato lo sguardo della mamma. Lei se ne stava lì, ti guardava, e tu ti sei sentita osservata, forse giudicata, credo. Allora hai smesso di ballare e ti sei seduta a terra, dandoci le spalle. La mamma voleva intervenire e dirti di ricominciare a ballare, ma l’ho fatta desistere. Ce ne siamo andati. Poi al saggio è venuta la mamma e voleva farti un filmino, per ricordo. Quando l’hai vista ti sei seduta di nuovo sul palco e tutti i genitori ridevano. Ma non per prenderti in giro eh, ma perché era spassosa la tua espressione. Poi la mamma aveva spento la videocamera e se n’era andata. Ma mica se n’era andata davvero, no no, si era solo nascosta dietro la tenda. Tu ti sei rimessa a ballare e

sei stata la più brava di tutte e lei era tanto fiera di te.».

 Sentì qualcuno bussare alla porta.

«Carola?» era Gabriella «dai, aprila porta»

Si rese conto che stava piangendo. Lacrime silenziose, calde e salate. Da quanto tempo non piangeva?

«La mamma ti ha sempre inibito. Non lo faceva apposta. Sì, lei a volte giudica le persone per quello che fanno, ti bacchetta sullo studio. Sembra una despota, a volte. Quando glielo dico mi ordina di stare zitto e ridiamo. Ma ti assicuro che lei vuole che ti diverta»

Provò ad asciugarsi le lacrime, ma senza farle cessare. Era per questo che non si era fatta viva?

«Carola, tesoro, siamo qui» la voce della madre.

«Grazie papà.»

«Siamo fieri di te, principessa. Vai a ballare. Fregatene se qualcuno combina danni. Li ripago io. Cosa lavoro a fare…»

«Ti voglio bene.»

«Prova a convincere i tuoi amici a non fare più casino del dovuto. Stiamo bene  di famiglia ma non sono un Elkan.»

Rise.

«Congratulazioni, Carola. Vai a divertirti, ora.».




Quando uscì dal bagno, Gabriella l’aveva guardata da capo a piedi per sincerarsi che stesse bene. Teneva in mano un fazzoletto piegato in due e una bottiglietta d’acqua naturale. Carola non l’aveva neanche vista poiché più in là, in fondo al corridoio, spuntava la sagoma di sua madre. Aveva notato che la sua silhouette appariva meno rigida di quando l’aveva vista varcare la soglia del palazzo. C’era qualcosa sul suo viso, un’espressione che le ricordava i fiori nel deserto. Fioriva quello che poteva essere un sorriso, anche se Carola non poteva esserne certa. Le si era avvicinata camminando lungo il corridoio e, anche se la musica aveva riempito di nuovo le stanze, sentiva il rumore dei suoi passi risuonare.

«Come ti senti?», aveva chiesto la mamma.

«Ora sto meglio.»

«I tuoi amici sono, come dire, “alticci”.»

«Alticci è un eufemismo.»

Avevano sorriso. Sua madre teneva la sua flap bag con le mani giunte davanti al ventre.

«Hai fatto tardi.»

Sua madre aveva sollevato un angolo della bocca. Lo sguardo fisso sui suoi occhi.

Erano dello stesso colore, solo con una luce più giovane.

«Volevo lasciarti i tuoi spazi.»

Non sapeva bene come spiegarselo, ma Carola sentì come una spinta. Proveniva da una mano interiore, però l’aveva percepita come una mano solida, reale. Si tuffò su sua madre allargando le braccia e chiuse gli occhi. Profumava di gelsomino e ciclamino.

Quando la baciò sul collo sentì il sapore del fondotinta. Quante volte le aveva detto che il fondotinta non è ideale per il collo. Meglio il bronzer, piuttosto. Sua madre si sciolse dall’abbraccio e le sorrise.

«Vai, io vado a sedermi.»

Gabriella prese a braccetto la sua amica e le offrì l’acqua.

«Vorrei un bicchiere di vino.»

«Agli ordini.»

Mentre Gabriella e sua figlia correvano per il corridoio, sua madre trovò una sedia sulla quale rilassarsi e godersi il girone infernale che i giovani chiamavano “festa”. Fermò un ragazzo con la capigliatura da attore anni ’50 e gli chiese: posso avere un bicchiere di cedrata? Il ragazzo inarcò le sopracciglia e disse: scusi, che cos’è la cedrata? E lei rispose che andava bene mezzo bicchiere di prosecco. Mentre il cameriere si allontanava, le scappò un sorriso guardando la schiena di sua figlia ancora piena di panna e cioccolato. Il dj urlò: Carola è tornata, facciamole un applauso. E tutti urlavano e ridevano e bevevano. Gabriella versò da bere alla sua amica brandendo la bottiglia dal collo. Erano rimaste due dita a testa. Si guardarono negli occhi e lei disse: un brindisi a Carola! Si sentì un tintinnio di bicchieri e tutti alzarono il mento per calarsi il vino in un sorso. Nell’atmosfera si respirava il puzzo di sudore, di erba e tabacco. Dalle casse partì You’re not alone di Agorie e Blasé e ci fu un urlo di gioia. Si era fatta sera e sembrava che un dio avesse starnutito le stelle sul cielo. Sotto le scarpe di Carola il pavimento si era fatto leggero, come fosse diventato di gommapiuma. Chiuse gli occhi e mostrò i denti. Prese Gabriella per le mani e fecero un girotondo finché non ebbero la nausea. Rideva e sudava. Vide il fotografo immortalare quel momento e fare okay con il pollice. Gli amici la presero per la mano e dissero: anche noi vogliamo fare il girotondo con te. Più di venti persone si presero per mano e cominciarono a trotterellare. Erano venti, più di venti o qualcuno se n’era andato? Poco importava, ora. Le risate erano così risonanti da sovrastare la musica. Il petto di Carola si riempì di un vuoto lucente. Non sentiva più il peso dell’aria. I pensieri non avevano nessuna sostanza, nessun valore. Era facile sollevare un pensiero e buttarlo via. Si sentiva di nuovo bambina, come quando danzava sul palco e tutti le battevano le mani. Il cerchio si sciolse e, ancora con le mani giunte, presero a saltare verso il giardino fino a creare un serpente umano. Qualcuno le lasciò le mani, ma lei non se ne era accorta. Aveva chiuso gli occhi, si era lasciata trasportare dalla musica. Ora era da sola. Ballava al centro della sala. Fece una piroetta e il suo cervello generò automaticamente un girasole e poi l’immagine dei suoi genitori che la guardavano sognanti. Riaprì gli occhi. La sedia era vuota, una goccia di prosecco superstite nel bicchiere. Vide i tacchi della madre sparire oltre l’ingresso. Poi, nascosta dietro lo stipite, le aveva sorriso. Carola le aveva restituito il sorriso. Vide sua madre muovere la bocca.

«Divertiti» scandiva il labiale.

Immagine generata con DALL-E
“a girl in an evening dress dances in the center of a rich ballroom, her skirt looks like a sunflower, around her many people in a circle, in the style”