Ferragosto

«Allora? Cosa rispondo a Peppe?»

«Eh, cosa vuoi rispondergli? Non mi sembra che abbiamo molte alternative!»

«Sì, ma se ti devi presentare con quella faccia, mi invento qualche scusa!»

L’autostrada si srotolava pigra sotto le ruote della piccola utilitaria carica di valigie.  Simona osservava le righe bianche intermittenti al centro della carreggiata sparire ingoiate dalla loro macchina Pac-Man.

Appoggiò la testa all’indietro con gli occhi chiusi e prese un respiro profondo. Si girò verso Emanuele che guidava soffiandosi via i ricci dalla fronte accaldata, poi verso Honey spaparanzata sul sedile posteriore.

«Ma no, dai, digli che ci saremo. Vedrò di mettere su l’espressione da commessa, ormai l’ho perfezionata, sembro davvero gentile!»

Emanuele alzò il sopracciglio destro e ridacchiando: «Mah, se è quella che usi con mia madre, mi spiace dirtelo, ma ci devi lavorare ancora un bel po’.»

«Dici? Ma se sono anni che mi alleno!» e poi, voltandosi ancora verso il cane: «Honey, la pensi anche tu così? Diglielo a ‘sto saputello che io sono carinissima! Mi adorano tutti!»

Il labrador giallo aprì un occhio, vagamente conscio di aver sentito pronunciare  il suo nome. Poi con un grugnito si rimise a dormire.

«Visto?»

«See, see. Comunque, non farla troppo lunga, vedrai che ci divertiamo, Peppe non è così male. E poi, senti, almeno il concerto ci interessa, no? Pensa che al posto de Le Vibrazioni doveva esserci Ciussy! Ci è andata bene!»

«Sì, ma poi ognuno per sé; non è che ci passiamo tutti i giorni di vacanza rimanenti insieme eh? Che lo so come sei tu!»

«Ma va dai! Piuttosto, chiama il campeggio, che tra meno di mezz’ora siamo arrivati.»

 

La piazza di Castellarno brulicava di gente. Famiglie intere si muovevano a gruppi di dieci minimo, con i rappresentanti di generazione a trascinarsi dietro più sedie a testa prese dai vari bar in affaccio sul palcoscenico.

Simona si guardava in giro in cerca di un tavolino libero. 

«Ma secondo te, quel signore sulla settantina, è qui per Le Vibrazioni?» le chiese Emanuele indicando un uomo anziano seduto su una sedia di plastica da giardino proprio sotto al palco.

«Sì, va be’, settanta per gamba! E poi è troppo sotto! Da lì non vedrà un bel niente! Oh, comunque dov’è il tuo amico? Io sto morendo di fame!»

In quel momento dal brusio indefinito della folla si stagliò una voce: «Minchia, arrivasti allora!»

Un personaggio basso e tarchiato, parecchio stempiato, con indosso una maglietta bianca con la scritta “Viva Maria” andò loro incontro.

Emanuele si voltò e, allargando le braccia: «Peppe!»

I due si abbracciarono dandosi rumorose pacche sulle spalle. Simona stava ancora osservando la pancia che con prepotenza sfuggiva al blando contenimento della maglietta del famoso “bomber del calcetto”, che venne tirata in ballo.

«E allora, dov’è la moglie?» urlò lui guardandosi attorno.

«Eccola» disse Emanuele prendendola per un braccio e tirandola a sé. 

«E che! Una moglie così bella aspetti tutto ‘sto tempo a presentarmela?»

E, prima che Simona se ne rendesse conto, l’ombelico nudo di Peppe aderiva al suo, per fortuna coperto, e baci a schiocco le si imprimevano sulle guance.

«Venite con me, io qua tutti conosco, adesso chiediamo a Vincenzo un tavolo.»

«Oh Pe, non prenotasti?» disse una voce femminile alle spalle di Giuseppe.

«Ma che prenotare! Enzino amico mio d’infanzia è, un tavolo me lo trova sempre!»

Una ragazza sferiforme si fece avanti con la mano tesa: «Piacere, Carmela. Fate male a fidarvi di questo qua.» e poi, rivolta a Giuseppe: «Ma che cazzo fai? Inviti gli amici e non prenoti neanche? Enzino è amico d’infanzia di tutti, ma i tavoli non li caga mica fuori dal culo!»

«Oh Mela, stai educata, non fare la stronza.» Rispose Peppe ridendo e saltellando quasi da un piede all’altro. «È mia cugina; nobile è, non fateci caso.» e ancora a lei: «La vedi la maglietta no? Sono un portatore, tra le altre cose. E mo’ vedi che un tavolo te lo trovo subito.»

Giuseppe trotterellò verso un ragazzo in grembiule che, come una scheggia, saettava da una parte all’altra della piazza  portando vassoi carichi di bicchieri, spostando tavoli e sedie. Gli si accostò per parlargli da vicino urtandolo e rischiando di fargli cadere tutto. Dalla faccia del ragazzo, non sembrava tanto disposto ad assecondare altre richieste.

Carmela diede di gomito a Emanuele: «Nel caso, io un tavolo ce l’ho; sta là.» e indicando un  punto indefinito, sorrise facendo l’occhiolino.

Intanto il cameriere non si fermava. Percorreva a lunghe falcate tutta l’ampiezza della piazza, avanti e indietro, scuotendo la testa, intanto che Giuseppe imbastiva mezze corsette per cercare di stargli dietro. Simona, Emanuele e Carmela seguivano le trattative spostando la testa a destra e sinistra, coordinati come a una partita di tennis. 

Dopo qualche minuto di inseguimento serrato, Peppe li raggiunse a spalle spioventi. «Quell’ingrato! Manco gli avessi chiesto chissà che! Un misero tavolino ci chiesi!» e faceva uno col dito, guardandoli con gli occhioni quasi umidi.

«Ma vattene che non vali un cazzo!» disse Carmela spingendolo da parte: «Jamu che gli altri ci aspettano al Caffé Antonino di là.»

«Ma allora stronza vera sei! Perché non me l’hai detto subito!» e già aveva ripreso il suo buon umore.

«Volevo vederti fare figure di mmedda coi compari tuoi!» Scoppiarono a ridere tutti e due e si avviarono a braccetto verso un altro bar lì vicino.

Simona ed Emanuele si ritrovarono seduti non a un tavolino, ma a cinque, uniti a formare un mega banchetto che manco a un matrimonio. Tutti i cugini di Peppe riempivano le sedie verdi di plastica completamente e a qualcuno sporgeva pure un po’ di ciccia dai buchi dei braccioli.

Le ragazze si mostravano particolarmente premurose con Simona, allungandole piatti di patatine e pezzi di pizza. «Mangia, mangia, non fare complimenti!»

Lei, per quanto affamata, al quarto trancio cercava di svicolare. 

Emanuele che stava brindando con la terza media di birra, le sussurrò: «Mi sa che ti vedono denutrita!»

Il fischio di un microfono attirò l’attenzione di tutti verso il palcoscenico. Il concerto stava finalmente per iniziare.

Emanuele e Simona si alzarono per avvicinarsi, i cugini di Peppe invece rimasero seduti. Se almeno ci fosse stata Giusy, ma questi chi sono? 

«È incredibile vedere loro di Milano, proprio qui a Castellarno!» diceva Emanuele tirando Simona per un braccio, così vicino al palco che avrebbero potuto contare i bottoni della camicia del cantante, Francesco Sarcina.

«Ma poi gratis! Su una cosa Peppe non scherzava: la festa di Ferragosto di Castellarno è una potenza!»

Una volta posizionati, il presentatore annunciò la band che venne accolta da tiepidi applausi. «Mi sa che qui gli unici a conoscerli siamo noi due» bisbigliò Simona all’orecchio del marito.

«Prima di cominciare però è doveroso fare qualche ringraziamento» continuò il presentatore ammiccando al front man che rispose con un sorriso tirato. 

«Sì perché la festa di Ferragosto di Castellarno è rinomata in tutta la regione e la gente viene da ogni paese qui intorno a vedere i nostri spettacoli. Ma affinché questo possa accadere dobbiamo ringraziare le numerose attività commerciali, grandi e piccole, di Castellarno che coi loro contributi trasformano i nostri sogni in realtà.»

Gli sguardi di Simona, Emanuele e forse anche di Francesco dal palco si incrociarono preoccupati.

Il presentatore fece una breve pausa durante la quale tentò di grattarsi il sedere in un punto difficile che i pantaloni aderenti del completo azzurrino evidentemente ostruivano, poi, insoddisfatto, riprese: «E nella fattispecie ringraziamo: Mobilificio Papalia, di via Gramsci, Parrucchiera da Daniela, in piazza Vespucci, Autosalone Romeo 1, quello sulla provinciale, Pizza speedy, consegne a domicilio, Antonio Gallo Ferramenta, Bar Tabacchi La Notte.» A ogni nome un applauso di sicuro più sentito di quello riservato al gruppo milanese. «E ancora: Jenny Russo estetista, per tutta la settimana in promozione con ceretta inguine e ascelle, Assicurazioni Aurora di Domenico Marino…»

L’elenco sembrava interminabile e, nonostante l’entusiasmo del pubblico, i ragazzi sul palco cominciavano a mostrare un certo imbarazzo, quando: «Ma non dilunghiamoci eccessivamente, a voi Le Vibrazioni!»

La musica partì senza ulteriori indugi e il pezzo più famoso della band fece capire a tutti chi si stesse esibendo. Ah, ma sono quelli di Giulia!

Simona ed Emanuele si ritrovarono improvvisamente spinti contro le transenne da fan urlanti sbucati da chissà dove. Ora sì che si ragionava! In breve anche Peppe, Carmela e tutti i loro cugini si unirono al battere di mani e al saltellare a ritmo, finalmente dimentichi del bidone della celeberrima Giusy.

Finito il concerto, non si erano ancora spente le luci sul palco, che già tutti correvano a riprendersi le sedie e le posizionavano rivolte verso un lato della piazza che sembrava affacciare sul nulla.

«Ma che succede?» cercò di chiedere Emanuele a Giuseppe.

«Ora lo vedi.»

Dato che tutti stavano con la testa alzata, anche Simona ed Emanuele fecero lo stesso e.. pam, pa pam, pam! Fuochi d’artificio. Una successione in crescendo di colori e botti, intervallate dai gridolini di stupore dei bambini.

Simona tese la mano ad Emanuele che gliela strinse sorridendo; rimasero così per tutto il tempo, come alle medie, fino a quando le mani non iniziarono a sudare. In effetti erano lunghi ‘sti fuochi.

«Comincia a farmi male il collo!» disse a mezza bocca Simona dopo un quarto d’ora: «Belli eh, ma quando finiscono?»

Emanuele le diede una gomitata: «Dai che ti sentono!»

Giuseppe infatti le rispose urlando per sovrastare il rumore: «NON TI PREOCCUPARE! APPENA FINISCONO QUI, RICOMINCIANO DA UN’ALTRA PARTE! MA NON DIRLO A NESSUNO CHE E’ UN SEGRETO!»

Dopo qualche minuto i classici tre colpi misero fine allo spettacolo e, subito, senza attendere oltre, alcuni corsero via. 

«Jamu, oh!» disse loro Peppe strappandoli alle sedie che nessuno si prese la briga di rimettere a posto.

Corsero velocissimi per le strade, tutte salite e discese di Castellarno, circondati da altra gente che si accalcava nelle strettoie.

«Ma si può sapere perché corriamo?» chiedeva Simona con la mano sulla milza «mi sembra di essere a Pamplona, mi viene l’ansia di essere incornata dal toro!»

Emanuele si voltava verso di lei ridendo e facendo spallucce: «Dai che sei lenta! Guarda Carmela che ti dà il pagone!»

Simona intravide la cugina di Giuseppe acquistare terreno davanti a lei, sgomitando senza pietà chiunque si trovasse sul suo cammino, vecchi e bambini compresi.

«Vedi che mangi troppo poco?»

Quando finalmente arrivò alla chiesa dell’Immacolata Concezione, Simona si trovò circondata da facce sconosciute. La piazza era gremita di gente, ma nessuno che lei riconoscesse.

Un bambino la urtò spiaccicandole il gelato sui pantaloni. «Ma porca puttana, merda!»

«Oh, su suolo consacrato stiamo!» la riprese con occhio sbarrato la madre del bimbo intanto che gli teneva le mani premute sulle orecchie.

«Sì, mi scusi, è che mi sono anche persa, non vedo più i miei amici.»

Ma la signora si era già girata in direzione di una specie di torretta di legno da cui Simona presumeva avrebbero sparato i fuochi.

Proprio in quel momento infatti dalla torretta venne srotolato un lungo telone bianco con la scritta VIVA MARIA e tutti applaudirono. Poi partì una nuova raffica di fuochi d’artificio.

Simona entrò in chiesa per sedersi su una panca e mandò un messaggio a Emanuele. Lo avrebbe aspettato lì.

Di fronte all’altare torreggiava una grande statua della Madonna, tutta dorata, seduta su una sorta di trono sostenuto da due angeli pieno di decorazioni argentate. Era una Madonna nera col bambino e una processione interminabile di fedeli le girava intorno per toccarla, accarezzarla e baciarla.

Quella scena gliene ricordò un’altra raccontata qualche anno prima da Don Sergio, un prete eccentrico che aveva avuto Emanuele come insegnante di religione alle superiori. Vagamente misogino ed effeminato quel tanto sufficiente a far nascere numerosi pettegolezzi peccaminosi sulla sua sessualità, sosteneva che i suoi migliori amici fossero atei. Riteneva di parlare di Dio molto di più con loro che con i suoi fedeli che considerava per la maggior parte ipocriti. In particolare non sopportava l’abitudinarietà, la tendenza a ingraziarsi benevolenza attraverso la preghiera e la frequentazione acritica delle funzioni.

Una delle storie che raccontava a sostegno del suo malcelato disprezzo riguardava un’anziana parrocchiana che, durante un pellegrinaggio al Sacro Monte di Varese, a ogni stazione si fermava a baciare tutte le statue rappresentate. Già questa sorta di politeismo camuffato lo indispettiva, così, quando la vide baciare l’immagine del drago trafitto da San Giorgio, non riuscì a trattenersi: «Mi scusi, ma sa che il drago rappresenta il Male, il Demonio?» le chiese.

«Certo» rispose lei continuando ad accarezzarlo premurosa come le vallette nelle pubblicità dei materassi in TV.

«E allora? Perché lo bacia?»

«Eh, bè, non si sa mai…»

 

«Bella vero? È’ la Madonna dei Poveri» le disse una voce alle spalle.

Simona si girò e nella panca dietro la sua c’era Giuseppe che, con gli occhi lucidi e le mani incrociate, le sorrideva.

«E domani, io, insieme ad altri ventinove, avrò l’onore di portarla in processione.»

«In processione?»

«Sì, è l’avvenimento più importante di tutta la settimana. Il giorno di Ferragosto noi portatori» e si batté la mano sulla scritta VIVA MARIA che aveva sulla maglietta «abbiamo questo compito solenne. È un diritto che si tramanda di generazione in generazione. Io l’ho avuto in eredità da mio zio.»

«Ah.»

«Sì, ha scelto me, fra tutti i cugini perché io sono quello che si sbatte di più per questa festa. Questo è il primo anno che la porto per tutto il tragitto.»

«Ma deve essere pesantissima!»

«Sì, ma siamo appunto in trenta, quindici per parte, e poi si chiama Madonna dei Poveri proprio perché, quando sono dei poveri a trasportarla, diventa più leggera!» rise Peppe.

«E quanto è lunga la processione?»

«Cinque chilometri. Ma comunque lo vedrai. Domani ho già detto a Lele che non accetto scuse. Ospiti miei siete. Si pranza a casa di zio Mimmo e poi tutti alla processione!»

Fu allora che Simona si accorse di avere Emanuele a fianco, in piedi, col sorriso da commesso stampato in faccia.

 

La casa di zio Mimmo non era molto grande, così che la tavolata di venticinque adulti più una quantità di bambini indefinita a causa del moto perpetuo che li possedeva, andava dal soggiorno alla cucina, lasciando appena lo spazio per l’apertura della porta d’ingresso.

«Avevi detto che Honey poteva venire! Adesso dove la mettiamo?!» sibilò Simona appena valutata la superficie netta calpestabile a pavimento.

Ma non fecero in tempo a farla entrare in casa che venne presa d’assalto da tutti i bambini presenti, compreso uno a gattoni.

Ma che bella! Morde? Come si chiama?

La tiravano per il collare, la strattonavano, valutavano la lunghezza dei denti, baffi e orecchie. Honey non sembrava nemmeno accorgersene, concentrata sul profumo degli antipasti già in  tavola. 

Simona osservava la scena con gli occhi ridotti a due fessure, manco stesse attraversando il deserto sotto una tempesta di sabbia.

«La pianti?» le diceva intanto Emanuele con il linguaggio dei segni.

«Trasite, trasite!» urlò dall’altra parte della stanza una donna di età incerta che doveva essere la padrona di casa, zia Concetta. «Peppeeee! I compari tuoi ci stanno!»

Una volta sistemati a tavola,  cominciarono a scorrere fiumi di birra e vino casereccio. Anche la madre, la zia, la prozia di Peppe non si tiravano indietro e, tra melanzane fritte, crocchette di patate fritte, arancini fritti e panzerotti fritti, non mancavano di riempire i bicchieri degli ospiti, oltre i propri.

Emanuele era seduto proprio di fronte a zio Mimmo, l’unico componente della famiglia al di sotto dei novanta chili, forse a causa dell’alternanza di pieni e vuoti che caratterizzava la sua dentatura. Aveva uno sguardo morbido, con gli occhi celesti inumiditi dall’alcol e forse anche dalla commozione di avere tutta la famiglia al suo cospetto.

Simona non riusciva a resistere all'espressione da cocker spaniel cucciolo che zia Cetta sfoderava ogni volta che le proponeva una nuova portata fritta. A forza di cedere, cominciava ad assumere la statica rassegnazione delle oche da foie gras, ingozzate dall'alto, con le zampe palmate inchiodate al pavimento.

Il volume delle risate  saliva insieme alla temperatura della stanza.

La schiena di Simona era solcata da gocce di sudore che, fermandosi alla cintura dei jeans, avevano ormai formato una pozzetta. Cosa sarebbe successo se si fosse alzata? No, doveva resistere e sperare che il sudore venisse assorbito dalla cintura o che colasse gradualmente verso il sedere; qualsiasi movimento brusco avrebbe fatto esplodere una sorta di gavettone sulla maglietta. Maledisse il momento in cui, mentre si vestiva, l’aveva scelta grigia e non bianca. Cercò di distrarsi guardandosi intorno.

Ogni superficie verticale della cucina/sala era satura. I pensili, di pesante legno di rovere, arrivavano fin sotto al soffitto e, appese alle pareti, pentole di rame, paioli, taglieri si contendevano lo spazio con crocifissi di varia foggia e misura e immagini di Padre Pio.

Sui divani, cuscini di ogni forma e colore sembravano essere posizionati in punti strategici a coprire il tessuto logoro.

Intanto zio Mimmo  raccontava a Emanuele la sua vita.

«A tredici anni me ne venni via. A Cuneo vivevo in una stanza con altri due paesani, uno di quattordici e uno di sedici. Io ero bravo col ferro e da cosa nasce cosa, sai. Mi ritrovai a costruire i ponti. Mai guadagnato tanto in vita mia!» sospirò zio Mimmo, rigirandosi le dita tra le dita come non fossero le sue. «Poi un giorno me ne tornai a Castellarno che mancavo da cinque anni. E per amore» disse indicando col mento zia Cetta che lo guardava annuendo piano «per amore, decisi di restare qua.” Per un attimo calò il silenzio. «Ho visto voi tutti, uno ad uno, andarvene via, andare a lavorare al nord, ma io no.»

«E perché?» chiese Simona.

Lui alzò le spalle, quasi a scusarsi. «Sapevo fare tante cose, tante belle cose, che credevo ce l’avrei fatta anche qua. E invece…»  

«E basta con queste facce!» disse Peppe levando il bicchiere «la vita è bella, che ci manca?» e tracannò il vino alla goccia. 

Massì, è festa oggi! Buon Ferragosto! Brindiamo!

Tutti i bicchieri vennero riempiti di un vino nero e spesso e vuotati come fossero acqua. Simona sentì il gomito di Peppe darle sulle costole. «Zio, zio, dicci una delle tue poesie piuttosto!»

I vari cugini ridacchiarono chi nel tovagliolo, chi nel gomito, chi simulando colpi di tosse.

Zio Mimmo si impettì e con un sorriso appena accennato disse, rivolto a Emanuele: «Eh, sì, giovane. Non te l’ho ancora detto, ma io artista sono. Poeta e musicista.»

«Musicista? Ma davvero? Anche io suono! La chitarra!»

Il volto di zio Mimmo, già rubizzo, divenne ancora più acceso e un sorriso a scacchi si allargò a riempire tutta la faccia. 

«E la chitarra io pure suonavo! Andavo in giro coi compari, facevamo i concerti!»

«Caspita, complimenti! Anche io ho una band, più un gruppetto di amici in realtà, ma ci divertiamo, andiamo nei locali…»

«Ma allora vado di là a prendere la chitarra! Suoniamo insieme! Io canto e tu mi accompagni» e poggiò le mani sulla tavola per alzarsi. 

Gesti di panico serpeggiarono tra i commensali. Zia Cetta si alzò in piedi: «Ma no, che dici Mimmo, non adesso, stiamo ancora mangiando!»

Nino, il cugino più giovane di Peppe, seduto proprio accanto allo zio, lo tirò per un  braccio facendolo ricadere nuovamente sulla sedia: «La poesia, zio, non hai ancora detto la poesia.»

Zio Mimmo, barcollò appena, strattonato dal nipote e, stordito come si fosse appena svegliato, annuì: «Sì, giusto, la poesia…»

Aveva perso il rossore al viso e guardava le briciole di pane sulla tavola come fossero i pezzi di un puzzle.

Tutti i commensali avevano ripreso a chiacchierare rumorosamente tra un passaggio di piatti e un tintinnare di posate.

Carmela ne approfittò per dire a Emanuele e Simona: «È una stronzata questa del musicista. Ci ha sempre raccontato che suonava, che faceva i concerti e poi una volta, a una festa del paese qua,  salì sul palco e fece una figura di merda!»

Mela rideva incurante di essere sentita o meno da zio Mimmo che nel frattempo aveva ripreso il suo buon umore, corroborato dal vino che prontamente Nino gli aveva versato. 

«Sì, in pratica scena muta fece. Nemmeno due accordi uscirono fuori. Balbettava che non ricordava le parole. Ubriaco era.»

Simona osservò zio Mimmo. Aveva la luce della finestra aperta alle spalle. Quella luce piena, invadente, che occupa tutto lo spazio libero. Ogni cosa là fuori assumeva contorni netti e sembrava lottare per mantenerli tali, per non cedere al calore e confondersi con esso. Le piccole case di pietra annerite dal tempo, i muretti a secco che delimitavano i tornanti della strada dalla brulla pendenza della montagna, i fichi d’india in perenne ricerca di qualche goccia d’acqua tra le rocce. Persino le cicale tacevano.

Osservando quello stralcio di paesaggio incorniciato dalla finestra, Simona cominciava a sentire informicolarsi le gambe sotto il tavolo. Cercò Honey con lo sguardo, magari avrebbe potuto portarla a fare una passeggiata e prendere un po’ d’aria.

La trovò pancia all’aria sotto il tavolo dei bambini ricevere bocconi da mani paffute. Bombe caloriche composte da ogni genere di alimento nocivo per i cani. Tanto valeva avvelenarla! Impossibile comunque pensare di trascinarla via dal nirvana gastronomico in cui sembrava essere sprofondata. 

Zio Mimmo sollevò gli occhi su Emanuele e si alzò in piedi col bicchiere levato. Si fece silenzio.

 

«E per terminare questa mangiata,
facciamo un brindisi alla tavolata. 

Con questo vino che è una delizia,
brindiamo all’amicizia… 

Grazie Emanuele che sei venuto, 

è stato un piacere averti conosciuto.»

 

Tutti si profusero in acclamazioni e applausi, compresi i bambini, tanto che Honey, spaventata, cercò di alzarsi scivolando con le unghie sul pavimento di ceramica, come una pattinatrice alle prime armi.

Simona colse la palla al balzo: «Io vado a portare Honey a fare una passeggiata, credo ne abbia bisogno.»

«Aspetta, aspetta» disse zia Assunta avvicinandosi barcollante «prendi uno di questi prima di andare» e si diresse verso un vassoio carico di fichi maturi.

«È vero!» disse zia Concetta, anche lei poco ferma sulle gambe «buonissimi, sono!» Prese un fico dal vassoio, lo tagliò a metà con un coltello e lo porse aperto a Simona: «Ti piace la fica?»

Simona per un attimo sembrò non aver capito, poi tutti i presenti scoppiarono a sganasciarsi tenendosi la pancia e lasciandosi cadere sui divani.

Si voltò verso Emanuele che era l’unico a non ridere e la guardava con gli occhi sgranati e le orecchie viola.

Rimase per un attimo immobile sbattendo le palpebre, poi di colpo si riscosse, prese mezzo fico dalle mani di zia Concetta: «E a chi non piace?» e  sprofondò labbra e denti nella polpa del frutto. Le rimase in mano solo la buccia. 

Fra le ovazioni dei presenti zia Assunta le diede qualche pacca sulla spalla: «Brava, brava. Ne vuoi ancora?»

«Perché no.»

 

Al rientro dalla passeggiata Simona trovò grande fermento in casa. Tutti correvano di qua e di là, senza un apparente ordine e Giuseppe ed Emanuele erano spariti.

Carmela le si avvicinò: «Di là a cambiarsi stanno.»

«A cambiarsi?»

Mela la guardò come fosse un foruncolo: «Eh!» disse allontanandosi.

In quel momento Emanuele uscì da una stanza accompagnato da Peppe che aveva in faccia l’aria solenne della sera prima in chiesa. Entrambi indossavano la maglietta bianca con la scritta Viva Maria. 

Una volta in strada Simona riuscì ad accostarsi a Emanuele per capire che stesse succedendo. «E niente, farò la riserva pare.»

«Cioè?»

«Boh, quando uno dei trenta non ce la fa più, ci sono intorno altri, le riserve, che lo sostituiscono.»

«E la maglietta?»

«Senza, non se ne fa niente.»

«Ma tu non sei manco cattolico!»

«Shh, sei fuori? Sono in incognito.»

Si ritrovarono nella piazza della chiesa dell’Immacolata Concezione dove la statua della Madonna con trono e angeli annessi era stata posizionata su una portantina sorretta da due robusti bastoni. Quindici per parte si dovevano posizionare i portatori con le riserve ai lati, pronte a intervenire in caso di difficoltà.

A un grido convenuto di quello che doveva essere il timoniere dei portatori, i trenta eletti si abbassarono posizionando una spalla sotto al bastone del proprio lato. Altro grido, diverso dal primo, ma sempre incomprensibile a Simona, e tutti si sollevarono grugnendo per lo sforzo e portandosi in piedi.

Emanuele se ne stava immobile in una posizione da blocchi di partenza, ma con le mani sollevate, pronto a sostituire eventuali caduti.

Alla domanda del timoniere: «Pronti?» i trenta risposero urlando: «Viva Maria!»
Il grido riecheggiò qualche istante fra le vie del paese e l’immenso ingranaggio umano si mosse.

Simona scoprì in breve che la processione percorreva sempre le solite stradine strette e scoscese e non era affatto come quelle che aveva visto dalle sue parti.

L’andamento era tutt’altro che lineare e i poveri portatori passavano dall’arrancare sulle salite, al correre giù dalle discese in un continuo ondeggiare della Madonna dei Poveri sopra le loro teste. Per passare sotto ai festoni e le luminarie che decoravano le vie del paese, dovevano poi abbassarsi e alzarsi di frequente. Ecco che allora le riserve assumevano un’importanza vitale. Ogni tanto infatti qualche portatore aveva dei veri e propri mancamenti, complici anche i pasti non proprio leggeri consumati a pranzo. Ma Giuseppe no.  Lui resisteva con una tenacia quasi commovente, tanto che verso la fine fece segno a Emanuele di sostituirlo con l’aria magnanima del Papa quando si fa baciare l’anello. 

Emanuele sembrava felice come un bambino quando lo si fa provare a tenere il volante della macchina per la prima volta e continuava a girarsi verso Simona sorridendo e ammiccando come a dire «Visto? Mamma, hai visto?»

Faceva una strana impressione perché, alto un metro e ottantacinque, per riuscire a tenere la spalla alla stessa altezza degli altri, doveva camminare un po’ gobbo.

Dovette affrontare anche un punto critico per passare sotto a una ghirlanda di fiori che attraversava la strada a tre metri d’altezza. Lo vide quasi genuflettersi, soffrì con lui quando al segnale di alzarsi dovette dare il colpo di reni, fatale per molti. E poi l’immenso sollievo. Ce l’avevano fatta anche questa volta, la Madonna non si era schiantata a terra andando in mille pezzi e, quando una volta in piedi tutti insieme gridarono ancora “Viva Maria”, Simona si ritrovò a unirsi al coro.

 

La mattina successiva stava spalmando una crema antinfiammatoria sulla spalla destra di Emanuele. Seduti sulle poltroncine pieghevoli di fronte alla tenda, con Honey sdraiata sul prato, aspettavano che la moka posizionata sul fornelletto a gas, cominciasse a gorgogliare. Il caffè aveva  appena cominciato a salire, che videro in lontananza una figurina canuta avvicinarsi.

Rimasero a bocca aperta nel trovarsi di fronte zio Mimmo con due grossi sacchetti zeppi di biscotti fra le mani.

«Ma allora qua state?»

«Zio Mimmo! E tu che ci fai da queste parti?»

«Io  sempre qua vengo. Vendo il pane e i biscotti. Cetta mia li fa.»

«Ma scusa zio, vuoi dire che questa mattina all’alba voi vi siete svegliati a fare il pane?»

«E certo. Questo facciamo noi per vivere. Anche se povera la mia Cetta, stanca è. Ha le gambe gonfie, per la circolazione, sai. E alle volte non si riesce ad alzare al mattino.»

Simona tolse la caffettiera dal fuoco. «Siediti un momento. Lo vuoi un caffè?»

«No, cara, grazie. A faticare sto, non mi posso fermare.»

«Beh, noi stavamo per fare colazione. Quanto costano i tuoi biscotti?»

Zio Mimmo le lanciò uno sguardo scandalizzato come se gli avesse proposto di venderle un rene. «Agli amici non si vende, si regala.» e le porse un pacco di biscotti da cinque chili.

«Ma zio» provò ad intervenire Emanuele «tu sei venuto qua per lavorare e noi preferiamo comprarli da te piuttosto che al supermercato. Dai, non farti pregare.»

Gli occhi celesti dello zio si posarono per un attimo sul pacco di biscotti, poi su Emanuele e infine su Simona che teneva ancora la caffettiera sollevata in una mano.

«Allora io per oggi ho finito.» Si sedette su una sedia «e beviamo ‘stu café che si fredda.»

Simona versò il caffè nelle tazze di plastica, prese i soldi dal portafoglio e li porse a zio Mimmo.

Lui li prese senza guardarli, li mise in tasca e disse: «Tanto per oggi ho lavorato abbastanza.»

Bevve il caffè continuando a spostarsi da una natica all’altra sulla sedia e rigirandosi fra le mani la tazza, battendoci sopra con l’unghia e guardandosi intorno.

Poi lo sguardo gli cadde sulla chitarra di Emanuele appoggiata a un albero vicino la tenda.

Subito si alzò in piedi e, con la stessa espressione del giorno prima mentre recitava la sua poesia, disse: «Allora, siccome un regalo comunque ve lo voglio fare, una canzone vi dedico.»

Si avvicinò alla chitarra. «Posso?»

Emanuele rimase un attimo interdetto, poi «Sì, certo. Ti prendo un plettro?»

Zio Mimmo si sedette su uno sgabello facendo di no con la testa e assunse un’aria concentrata.

Passò qualche secondo di silenzio.

«Questa canzone, per la mia Cettina la scrissi.» e iniziò ad arpeggiare sulle corde col tocco delicato, ma deciso di una filatrice.

Poi d’improvviso la voce: ruvida, pungente e penetrante.

 

Ad esempio a me piace la strada

Col verde bruciato, magari sul tardi

Macchie più scure senza rugiada

Coi fichi d’India e le spine dei cardi

 

Ad esempio a me piace vedere
La donna nel nero del lutto di sempre
Sulla sua soglia tutte le sere
Che aspetta il marito che torna dai campi

 

Ma come fare non so
Sì devo dirlo ma a chi
Se mai qualcuno capirà
Sarà senz’altro un altro come me

 

Emanuele e Simona si guardarono. La conoscevano quella canzone. Qualcuno era uscito dal camper o dalla roulotte per vedere chi stesse cantando e sostava appoggiato alla porta ad ascoltare, qualcuno buttava sguardi diagonali, disturbato nella lettura del giornale o nella semplice contemplazione della quiete mattutina. Ma Mimmo non se ne accorgeva nemmeno; cantava e suonava a occhi chiusi e sembrava non sapere nemmeno dove si trovava. Poi  la canzone saliva di intensità.

 

Ad esempio a me piace rubare
Le pere mature sui rami se ho fame
Ma quando bevo sono pronto a pagare
L’acqua, che in quella terra è più del pane

 

Camminare con quel contadino
Che forse fa la stessa mia strada
Parlare dell’uva, parlare del vino
Che ancora è un lusso per lui che lo fa

 

Ma come fare non so
Sì devo dirlo ma a chi
Se mai qualcuno capirà
Sarà senz’altro un altro come me

 

A quel punto si avvicinò un uomo. Aveva le sopracciglia aggrottate  e le mani lungo i fianchi chiuse a pugno. Stava per battere il dito sulla spalla di zio Mimmo, quando Simona lo intercettò. L’uomo fece un passo indietro col dito bloccato dalla stretta della ragazza e l’espressione di uno a cui nessuno si era mai permesso una tale insolenza.

«Non si azzardi a interromperlo.» sibilò Simona alzandosi in punta di piedi per avvicinare il viso a quello dell’uomo più alto di una ventina di centimetri. «La canzone è quasi finita e lei lo lascia stare.»

 

Ad esempio a me piace per gioco
Tirar dei calci ad una zolla di terra
Passarla a dei bimbi che intorno al fuoco
Cantano giocano e fanno la guerra

 

L’uomo si riprese il dito e, senza distogliere lo sguardo esterrefatto da Simona, se ne ritornò da dove era venuto. Ora zio Mimmo aveva abbassato il volume della voce e le ultime parole quasi le mormorava.

 

Poi mi piace scoprire lontano
Il mare se il cielo è all’imbrunire
Seguire la luce di alcune lampare
E raggiunta la spiaggia mi piace dormire

 

Ma come fare non so
Sì devo dirlo ma a chi
Se mai qualcuno capirà
Sarà senz’altro un altro come me

 

Ma come fare non so
Sì devo dirlo ma a chi
Se mai qualcuno capirà
Sarà senz’altro un altro come me

 

Aprì gli occhi, sorrise e fece un piccolo inchino con la testa.

Immagine generata con DALL-E
“a group of people watch the fireworks with upturned noses, in the style of van gogh”