Tenersi a bada
A lei piacciono le chiese di panna. E si porta appresso un lenzuolino, che continua a stropicciare tra le dita ogni volta che si vuole rilassare. E poi ha un indice, che mi fa paura. L’indice della mano destra, che infila in una scatoletta, rotonda e nera, e dopo l’amaro, che ti arriva sulla lingua e sul palato, ti spalanca la notte e i bassi battono più forte e le gambe diventano serpenti indiavolati, serpenti d’acqua che risalgono la corrente fino all’ultimo suono metallico, e oltre le voci che pulsano e lasciano scie nel buio e poi vanno a evaporare sul soffitto e gocciolano sulle teste già sudate e sulle spalle che si toccano e si allontanano.
La notte in cui ci siamo incontrati, l’acquario era il Nepenta, un ex night club. I soldi me li chiede un uomo all’entrata, in piedi vicino alla porta, come alle feste della domenica pomeriggio. La sala è giù, alla fine di una scala a chiocciola contornata di specchi e con gli scalini di moquette rossa. In pista ci sono gli altri, ci salutiamo stringendoci e urlandoci nelle orecchie: «Ciao, come va?».
E lei è lì, con loro, ci presentano e siamo subito a ballare e a guardarci ogni tanto, con la coda dell’occhio. Poi le prendo la mano, e lei stringe le dita alle mie, la porto al bar. Mentre faccio la fila la perdo un attimo nella calca, ma quando mi giro con i due bicchieri il suo indice mi punta dritto in bocca. Lo mordo, che a succhiarlo mi sembra troppo e a non fare niente mi sembra da ebeti, e lei mi dice: «Cazzo fai?».
Io alzo le spalle: «Che dovevo fare?», le chiedo.
«Succhiarlo.».
L’amaro mi si appiccica sulla lingua, bevo e stringo un po’ la fetta di limone tra i denti. Torniamo in pista e i nostri nasi si fanno sempre più vicini e la musica arriva dalle gambe e i bassi si aprono la strada e le voci palpitano e fanno scie sul soffitto e mentre evaporano e si fanno gocce che si lasciano cadere sulle teste e le spalle arruffate, stiamo intrecciando saliva e mani e tracce d’alcol sul collo.
Il tempo scivola e risale la corrente fino all’alba, fuori sono le sei e la città è deserta, è piena solo di occhiaie verdi, che barcollano in silenzio. Io e lei ridiamo, invece, sotto i portici che rimbombano e i taxi che sfilano stipati di sonno arretrato.
Di indici e scatolette, rotonde e nere, invece è pieno ovunque, ne trovi agli angoli di strade poco frequentate e con molte vie di fuga, in alcuni bar pieni di plexiglass trasparente e lamine d’acciaio per bancone oppure in bar vecchi, talmente vecchi che non diresti mai,
con i tavoli di formica sbrecciati e qualche vecchietto del quartiere, ma gli occhi, quelli con sguardi torvi e indagatori li noti subito, al terzo passo, poco prima del cenno del capo a indicare il bagno. E nei tunnel pieni di musica, vicino alle tende pesanti all’ingresso dei locali o nelle tasche di quelli che controllano che il divertimento vada avanti e vada bene, per tutti, senza schiaffi e magliette strappate.
Quel dito lì, adesso che posso, vorrei sapere se è in grado di tenerlo a bada o se i corpi di serpenti e le onde di bassi e le voci pulsanti siano il suo acquario e il suo modo di nuotare per sentirsi libera.
Lei mi dice: «Ma ti rendi conto cosa sarebbe se uno potesse andare a trecentomila chilometri all’ora? Si potrebbero fare migliaia di cose al giorno, si potrebbe passare di festa in festa intorno al mondo, si potrebbe andare a fare un bagno al mare e una birra su un ghiacciaio. Non ci si dovrebbe fermare mai, se si potesse, mai ripensamenti né pensieri, potrei addirittura lasciare il mio lenzuolino, alla velocità della luce».
Avremmo dovuto prendere l’aereo tre ore fa. Il piano era banale ma semplice: saremmo partiti da casa alle 7 e in aeroporto avremmo preso il primo volo in partenza. Ci siamo spostati per sette mesi ogni giorno, da casa mia a casa sua, Milano-Imperia, i borsoni sempre pieni di panni sporchi, le domeniche passate tra un letto e un divano, mai uno sguardo dritto per aprire una strada, vari lenzuolini sdruciti. Magari era il momento di fermarci tre giorni in un posto, ma lei ieri sera è uscita con le amiche, «non faccio tardi» ha detto. Prendo il borsone. Ci infilo dentro tutte le mie cose sparse in giro. Prendo un lenzuolino appena stirato e lo lascio sul tavolo. Sopra ci metto un biglietto: Chissà qual è la velocità del buio.
racconto pubblicato nel 2018 per la rivista “L’inquieto”
Immagine generata con DALL-E
“a hand caresses a white linen sheet, oil painting”