Renzo va in città
Modern Times Tramaglino
A Milano ci ho abitato dal 2014 al 2018, quattro anni esatti: il contratto di affitto è iniziato il primo luglio del 2014 e è terminato il trenta giugno del 2018, anche se a essere precisi a Milano ci sono sbarcato un paio di mesi dopo, l’otto settembre, una data un programma.
Il progetto avevo iniziato a concepirlo l’autunno prima, del 2013 intendo, stavo dando gli ultimi esami della triennale, mi ero lasciato con la fidanzata, mi ero innamorato della sua amica, le solite cose… fatto sta che è settembre e sono lì che studio in biblioteca e bang! mi viene quest’ideona e mi dico «ecco la mia idea! Finalmente qualcosa che assomigli a un punto di partenza». Perché insomma parliamoci chiaro: magari negli anni ’90 primissimi 2000 potevi anche non avere un punto di partenza e saltarci fuori lo stesso ma adesso no.
Come che sia, ci rifletto e la prima cosa è che qui non si può fare, qui dove sono nato intendo, perché lo so che suona una banalità ma è così, in provincia non puoi fare nulla, ci vuole la città, e lo so che è pieno di gente che va via dalla provincia poi però ci ritorna perché le radici sono le radici eccetera eccetera, però davvero… dico sul serio.
Mi laureo e iniziano i mal di testa, ovviamente è tutta tensione ma preferisco pensare al tumore al cervello e quindi quell’estate ho avuto il tumore al cervello però intanto trovo casa a Milano, un monolocale, zona Sant’Agostino… lì per lì non mi dice niente, che vuoi che ne sappia. Arriva settembre e ho fretta di partire, anche se l’università inizia due settimane dopo…. perché capiamoci, resta inteso che la magistrale la faccio, mio padre è stato tassativo «bene le idee, ma l’università la finisci». Mi viene il dubbio che ci credesse fino a un certo punto nella mia idea.
Comunque l’otto settembre appunto sono su. Anzi, sono per strada, per autostrada, perché avrò anche avuto fretta ma alla fine sono partito tardi, fiacco, a rilento, Freud scuoterebbe la testa. Ho la macchina imballata di roba, valige, scatoloni, borse, persino scope e pentole, il posto è arredato ma non si sa mai. Neanche cinquanta chilometri e iniziano i problemi: c’è coda, si va a passo d’uomo per almeno mezz’ora, lo slancio se mai c’è stato muore lì, è tardi, tardissimo. Alla fine la situa si sblocca, accelero, recupero, mi dico «dai che si va!». La radio passa il Liga, io non l’ho mai sopportato però siamo chi siamo / siamo arrivati qui com’eravamo / abbiamo parcheggiato fuori mano mi ispira, è adatta alla situazione, sembra l’inizio di un film con Aldo Giovanni e Giacomo.
Supero la barriera di Melegnano che sono già passate le tre, comunque niente, procedo, ovviamente mi perdo ma poi mi ritrovo e gira che ti rigira alla fine ce la faccio, imbocco Viale Cassala.
Fun fact: c’è questa rotonda tra Via Lorenteggio e Via Foppa, subito dopo Piazza Napoli, e in quei giorni tre volte l’ho fatta e tre volte ho rischiato di restarci, sempre la stessa dinamica: io metto la freccia ma niente, finisce che taglio la strada a qualcuno, non ho ancora capito dove sbagliassi,
A essere onesti anche all’epoca ho pianto ma per altre ragioni. Trovo parcheggio ma non mi capacito, voglio dire: un’ora due euro? ma siamo matti? e se uno deve lasciarla mezza giornata che fa? un mutuo? Scendo giù nella stazione di Sant’Agostino e chiedo all’edicolante «scusi, per caso ci sono dei posteggi non a pagamento?», il tizio ha l’espressione da suicidio però sghignazza «be’ sì, magari un po’ fuori» e pirla io che tanto mi basta, ripija la macchina e parti. Già vedo la Svizzera quando realizzo che “un po’ fuori” qui vuol dire la Valtellina.
E allora niente, torna indietro, paga l’obolo e parti a scaricare. Gesoo, caro il mio terzo piano senza ascensore! Questi sono terzi piani milanesi! Guardo giù nella tromba delle scale…. Un buco nero è meno un’enormità. E porta su e torna giù e porta su e torna giù, cristo quanto pesa, cristo come ho organizzato tutto male, cristo che tachicardia, cristo mi verrà un infarto, cristo che idea del cazzo venire qui. Vado a prendere un gelato, c’è un caldo da impazzire, dietro di me due mummie in pelliccia «devono chiamare Silvio! Se richiamano Silvio lui chiama Putin e sistema tutto! L’ha detto che sono amici!», cosa mi è saltato in mente di venire qui? Inizio a piangere.
Dei giorni successivi ricordo il giusto, più che altro ho un’idea di insieme, di disperazione assoluta in linea di massima. Ricordo che mi era presa la fobia dell’igiene, pessimo segno, chi ci ha abitato qui prima di me? quali cose terrificanti avrà fatto? e allora lava tutto, pavimenti, muri, soffitto, tutto… ovviamente l’igiene non c’entrava nulla, ero io che ero andato. Sento Federico, eravamo compagni al liceo e temporibus illis mica ci cagavamo tanto però quando ha saputo che arrivavo a Milano era stato carino, mi aveva detto «chiamami!», lui era su già da qualche anno, faceva il Poli. Risultato: lo chiamo e salta fuori che siamo pure vicini di casa, fa’ te le coincidenze, ci becchiamo e mi fa fare il giro del quartiere, andiamo da Cucchi, lui è super a suo agio, a me sembra di aver percorso galassie di labirinti e che non riuscirò mai a orientarmi, riesco a trattenere le lacrime finché ci salutiamo.
Avevo questo mal di testa fisso, non riuscivo a dormire, il secondo giorno mi alzo e cerco di darmi un tono, mi faccio la doccia, mi metto in tiro e esco ma sbaglio outfit, io sono da autunno mentre fuori c’è una cappa che si muore. Vago per un paio d’ore e calcolo che se scelgo bene i corsi devo stare in questo posto infernale solo da martedì a giovedì e per il resto via a casa, due anni e poi sono salvo, il cranio mi sembra una centrifuga di purè, ho in testa il Liga siamo chi siamo, come un martello, siamo arrivati qui com’eravamo, a ripetizione, abbiamo parcheggiato fuori mano, non mi molla un attimo, tu non chiamare più che ti richiamo, c’è da impazzire. Comunque l’aneddoto carino è questo: in pratica passo davanti a un superstore, sono sudato da strizzare, c’è un promoter che mi accalappia e io cretino che mi faccio accalappiare ma sai com’è, avevo bisogno di contatto umano. Lui parla e io non capisco nulla a parte una tessera fedeltà con tutti i vantaggi del caso, accenna allo store, io lo guardo e mi dico be’ tanto ci prenderò parecchia roba quindi ok, lo seguo e entriamo. Qui però inizia il bello perché lui parla parla però scendiamo sempre più in basso, di piano in piano, nell’oscurità, il superstore è sempre meno super e sempre più una brutta store finché ci infiliamo in questa stanza laterale e capisco che sono fottuto, questi sono un marchio associato, hanno il locale in concessione ma secondo te io ce l‘ho l’energia psichica per parare l’inculata? È ben su quello che contano.
Neanche un’ora e sono a casa e niente, ci mollo, è finita: chiamo mia madre, Donna de Paradiso / lo tuo figliolo è preso e sono lacrime. Piango, piango e mi confesso, confesso tutto, e mia madre che cerca di confortarmi e non ci riesce, finché arriviamo al promoter e io le dico che sono inculato, non c’è scampo, adesso devo comprare da loro almeno tre prodotti ogni due settimane e ecco che la madre torna utile «ma va’ là! Ma cosa dici! Da’ retta a me! Anche io appena arrivata in Germania mi hanno fregato con una tessera fedeltà e Klaus si era incazzato come una mina, se ci penso, bello stronzo anche lui, io appena arrivata, scappata da casa, spaesata che neanche sapevo la lingua e lui va a incazzarsi, bello stronzo anche lui, se ci penso, avessi mai trovato un uomo che mi desse una mano, comunque vabbè, sistemato tutto, c’è sempre un periodo di 15 giorni in cui puoi recedere, controlla bene» e io controllo e il periodo c’è! grazie mamma! Fa’ te queste madri, provvidenziali quando meno te l’aspetti.
Comunque è lì che le cose migliorano… la soluzione alla tessera fedeltà mi ha rilassato, la casa mi pare meno a bio-rischio e quando inizia la malinconia del tramonto, rossa e viva come i sono rossi e vivi e tramonti a Milano per via dell’inquinamento, quando inizia la malinconia del tramonto mi scrive Bea, è la cugina di Federico, pure loro sono a Milano da qualche anno, lei e la sorella dico, fatto sta che ci eravamo visti una volta tempo prima e mi fa «ci mangiamo una pizza stase?».
I navigli li conoscevo di vista nel senso che li avevo visti da qualche parte in tv ma stato non c’ero mai stato, in any case arriviamo in Darsena, molliamo le bici e ci sediamo alla Premiata Pizzeria, lì all’inizio del Naviglio grande, l’aspetto è di una vecchia taverna, mi piace, si chiacchiera, torno a casa e per la prima volta da quando sono sbarcato mi viene voglia di andare a ripescare la roba del progetto.
Comunque non c’è molto da star lì con idee e progetti, almeno nel mio ricordo, in realtà c’era ma chissà che ne ho fatto, ricordo solo che di lì a poco è partita l’Uni e allora via, mi rimetto in tiro, solito outfit ma questa volta è beccato, l’autunno si annuncia. Festa del Perdono è tutta un’altra storia rispetto alla roba che avevo visto io in precedenza, ammetto che un momento ci sono rimasto. Le lezioni sono interessantissime, ci prendo gusto, se penso alla fiacca con cui avevo fatto la triennale, chi l’avrebbe detto. Conosco gente, ci sono cene fuori, si va a destra e manca, la prima volta che vedo la Torre Unicredit a momenti mi prende la vertigine dal basso, mai avrei immaginato, una cosa così! in Italia? in questo paesello tutto borghetti e sagre della castagna? altroché! questa sì che è roba seria! questo è il posto più bello del mondo!
Sono molto up to date, giro come una trottola, teatri, mostre, caffè, “opifici di idee”, ancora oggi non ho capito cosa fossero di preciso ma li chiamavano così, canticchio i P.O.D. we are, we are/ the youth of the nation / we are, we are / the youth of the nation, chissà da dove sono saltati fuori, non li ascoltavo dalla terza media.
Poi c’è anche Anna, ex-compagni di scuola, avevamo pure fatto un giro a Budapest e Praga, io lei e altri. Fa l’accademia di Brera, tipa mooooolto artistica, Beat Generation, On the Road, Bukowski, quella roba lì, infatti mi viene in mente che anni prima eravamo venuti a vedere la mostra di Goya a Palazzo Reale e dopo lei si era impuntata che voleva mangiare al Bukowski Pub in Via Santa Sofia. Ci era rimasta male quando lo avevamo trovato chiuso. Eravamo finiti al ristorante dell’Autogrill in piazza del Duomo, quello al primo piano sopra la Feltrinelli in Galleria Vittorio Emanuele II. A ogni modo lei adesso stava con un fumettista che aveva lo studio dalle parti di Piazzale Abbiategrasso, Marco, un tipo simpatico, l’avevo conosciuto l’autunno prima quando eravamo andati a vedere Ubu Re al Piccolo, Anna aveva sempre dei biglietti di sfruso, e dopo lo spettacolo una birretta tira l’altra e va a finire che avevamo perso l’ultima metro, con la notturna non ci capivamo una mazza e insomma ci siamo fatti a piedi da Brera a Piazzale Abbiategrasso. All’epoca mi era sembrata un’esperienza fantastica quindi una sera che Anna ci chiama da lei decido che vado a piedi e lei sta a Lambrate, Sant’Agostino-Lambrate a fette, non so se mi spiego, doveva essere primavera perché fuori si stava bene, ricordo che avevo il maglioncino di cotone con lo scollo a V, vai a capire perché si ricordano dettagli di nessuna importanza. Abbiamo tirato parecchio tardi, intorno a mezzanotte abbiamo pure messo su un cartone animato divertentissimo che non riesco a ricordarmi qual era, mi ricordassi quello anziché il maglioncino con scollo a V, anyway, quando ho salutato erano le due o giù di lì. Esco in strada e ecco che mi viene il guizzo dei guizzi: torno a piedi.
Faccio neanche venti metri che noto una ragazza a bordo strada vestita da puttana e mi dico oh! Ma poi mi dico anche eh see figurati. Non ho nemmeno imboccato Viale Porpora che ne ho già viste almeno altre quattro, lì così, tacchi che sembrano trampoli, vestitino inesistente, espressione feroce e volgare, insomma il massimo, però ancora non riesco a capacitarmi, e se mi stessi sbagliando? e se stessero solo aspettando, chessò, gli amici o il padre (sic. Giuro)? Come che sia a metà di Viale Porpora le evidenze sono troppe e ho il capogiro, il cuore mi batte all’impazzata, espressione banale ma calzante nel senso che a un certo punto mi sono dovuto sedere un momento per non svenire dall’euforia, mi avvicino a una e la saluto «Ciao! Che ci fai qui?», lei mi guarda con meritatissima pena «prendo il sole. Secondo te? Lavoro, no?». Io mi fiondo a cercare un bancomat. Finisce che mentre torno di corsa dalla simpaticona ne becco un’altra molto più carina e questo giro taglio le domande idiote «ciao! Quanto?», «ciao amore, cinquanta euro bokka-fika».
Siamo carinissimi, mi prende per mano tipo fidanzatini e mi guida in una laterale, fortuna che sono sempre stato bravo a recitare sennò sai te l’imbarazzo, arriviamo in camera ma lei ha fatto in tempo a mostrarmi la foto della bimba piccola che ha lasciato in Albania o Romania o Moldavia o cazzosoio e io mi sento in colpa, mi commuovo, ero proprio un tatone, e le lascio venti euro in più, per la bimba. Negli anni sono stato quattro volte in quella camera, con quattro ragazze diverse e quattro volte la foto della stessa bambina. Alle altre tre non ho lasciato i venti euro in più.
Comunque lei si spoglia, io le chiarisco che non voglio scopare ma solo che mi masturbi, già mi vedo a dover confessare a mia madre che mi sono beccato l’AIDS, oddio l’AIDS, e se mi becco l’AIDS? La squinzia non batte ciglio e ci dà dentro. Sono lì lì per venire quando mi prende lo scrupolo «ma se ti sborro sulle lenzuola non è un problema?», al che sembra perplessa e mi fa «mmmh… skizzi molto?», oddio non saprei, direi di no, nel senso, nella norma, «allora sborra qui» e fa pat pat sulle tette. Ad oggi è stato l’unico COT della mia vita, a saperlo me lo godevo di più.
Già perché manco sono in strada che mi prendono i terrori, mama l’AIDS, oddio l’AIDS, e se mi sono beccato l’AIDS? mi sono fatto toccare l’uccello da una troja, e se mi becco l’AIDS? e se le sanguinavano le mani e non me ne sono accorto? e se mi ha iniettato qualcosa e non me ne sono accorto? e se è una matta che incula l’AIDS apposta al prossimo per vendicarsi della sua vita sfigata? e se sono il primo caso di AIDS da contato epidermico della storia? Gesoo, sicuro che mi sono beccato l’AIDS. È una notte di angoscia, dormo a tratti e quando mi sveglio vorrei essere uscito dall’essere, sono giorni di angoscia, sono giorni di pentimento, leggo ogni informazione possibile e immaginabile sull’AIDS, sono attimi di sollievo, e poi di nuovo ore di angoscia, sono mesi di pentimento, farò il test, bisogna aspettare tre mesi ma farò il test e poi cambierò vita, farò a modo, righerò dritto, mi sposerò e santificherò le feste, sono giorni di pentimento finché se dio vuole arriva il cazzo di giorno del test e allora cosa mi è saltato in mente? ma che stupido che sono stato, cosa mi sono fatto prendere dal panico a fare, mica ci si prende l’AIDS per una raspa, che pirla proprio, cosa vuoi che sia, anzi stase si torna in Viale Porpora! non vedo l’ora! Passiamo oltre.
E alla veloce pure, perché qui si mette male, coi soldi intendo: birretta di qui, birretta di là, trojetta di su, trojetta di giù e sono già in bolletta…. Nel senso, non proprio, però sto erodendo i picci che mi passa il padre per l’affitto e non va bene, quelli sono per l’affitto, per la vita dovrebbero bastare le palanche che mi gira la madre e non sono bastate, my fault ovviamente, sono stato un pelino troppo disinvolto. Comunque poco male, me lo dice Anna, «a Milano è così per tutti, arrivi a settembre, fai dieci giorni di attacchi di panico, poi ci prendi gusto e a marzo devi vendere gli organi… non è un problema, basta trovarsi un lavoro estivo, hai presente Giulia? quella dell’altra sera? lei se l’è cavata col lavoro al Libraccio». E allora vai coi CV a tutti i Libraccio della city. Mi chiamano da Romolo, fatta la prova si parte, turni da 12/14 ore, un caldo da restarci, poi però 2/3 giorni di riposo a settimana. E comunque mi sono divertito, ho conosciuto della gente forte, qualcuno lo sento ancora adesso, in particolare mi ero trovato con Marco, a dire il vero i primissimi giorni mi risultava sgradevole, troppo a suo agio e io non amo la gente a suo agio, ma alla fine lui non c’entrava nulla, ero io che ero fottuto, anche lì si è ripetuta la dinamica dello sbarco, primo giorno di lavoro volevo suicidarmi, mi sono detto «non ce la faccio, voglio la mamma», poi però tutto bene, con Marco siamo pure andati al cinema a vedere il film dei Minions all’Orfeo in Viale Coni Zugna, insomma dietro casa.
È quell’estate lì che ho beccato Andrea, di persona voglio dire, perché in realtà ci sentivamo già da mo’, ci eravamo conosciuti su Facebook, va’ a ricordarti come, in ogni caso lui romagnolo che studiava a Bologna, ci sentivamo in chat e gli avevo detto che ero a Milano e lui mi fa «da giugno sono su anche io», faceva il tirocinio in un quotidiano, non ricordo quale ma comunque roba seria, forse proprio Il Corriere, tipo in gamba, infatti poi è rimasto a lavorarci e da lì è passato direttamente nello staff di un pezzo grosso della Regione. Comunque fatto sta che alla sera ci trovavamo in un localino dalle parti di Porta Venezia… niente di che, due Moretti e via, però ho un gran bel ricordo di quelle serate. Parla che ti riparla gli dico della mia idea, gli faccio anche vedere il materiale che ho già buttato giù, il portfolio, il piano eccetera. Lui ascolta attento, sembra interessato, alla fine mi dice che gli sembra una buona idea, ancora adesso gli credo: non è tipo da star lì a lisciare il pelo. Mi dà anche dei suggerimenti, buoni tra l’altro, e poi alla fine mi fa «se vuoi ti presento Carlo Loaca», chi? mai sentito, lui ride «è uno startupper… è un po’ il caso dell’anno qui a Milano, disadattato da manuale, a un certo punto gli è venuta questa idea ma nessuno se lo cagava finché è saltato fuori Facebook, lì si è masso a fare il personaggio finché un tizio coi soldi non l’ha preso sul serio e adesso è come il prezzemolo, lo trovi dappertutto, l’ho intervistato due settimane fa». Io solo a sentire la parola startupper mi sale il nazismo ma è un problema perché è esattamente quello che sto cercando di diventare io: uno startupper, quindi ok, andata, conosciamo lo startupper, anzi mi profondo in ringraziamenti.
Lo startupper è alto, magro, molto magro, però la faccia sembra un pallone da calcio, l’aspetto nel complesso è sgradevole, la personalità non saprei, si risolve in autocelebrazione e vittimismo quindi direi che non è personalità punto ma lui dissentirebbe. Parla sempre lui, esclusivamente di sé stesso, come tutti d’altra parte, nello spazio dei trenta secondi che lascia dopo avermi chiesto «e tu che fai?» riesco a accennare in maniera vaga e preliminare al mio progetto dopodichè lui mi interrompe e mi dice che devo stare tranquillo, adesso ci pensa lui, ho avuto la fortuna di conoscerlo quindi i miei problemi sono finiti.
I periodi successivi sono estenuanti, quando non sono in università sono al traino dello startupper che mi porta a destra e a manca a eventi a cui non è stato invitato e a cui si presenta lo stesso «perché lui è uno che rompe gli schemi», ufficialmente per farmi conoscere «la gente che conta», di fatto sono la claque, non sono scemo, ci arrivo da solo, ma al momento è l’unica carta che ho da giocarmi. Quando realizzo che essere la claque di una macchietta toglie più che mettere tiro le briglie e gli chiedo «be’ allora?». Lui non risponde, io non mi faccio più vivo, fine della storia.
E fine della storia sul serio, intendo di tutta la storia, anche e soprattutto di questa storia… È incredibile con che velocità finiscano le storie. Mi risveglio dall’idillio con lo startupper che sono a ridosso della laurea, con poche risorse e al punto di partenza, ma c’è di più e di peggio. C’è che sono stanco, la cavalcata in mezzo alla «gente che conta» mi ha disgustato, a prescindere dal fatto che contasse davvero o meno. Fossero pesci grossi o pesci medi erano comunque pesci e il mare si giudica dai pesci: non ho visto niente di terribile o fraudolento o chessoio, ma nessuno e dico nessuno di quegli individui era altro che un quaquaraquà a cui le cose erano andate troppo lisce, e più erano di successo più erano quaquaraquà, era quello che volevo fare? era quello che significava realizzarmi? anche nella migliore delle ipotesi e cioè alla fine riuscire a entrare in quell’Olimpo, volevo davvero entrare in quell’Olimpo? Non è che non mi ricordassi cosa era venuto a fare a Milano o che la mia idea mi sembrasse meno valida… era che non capivo più bene il senso della cosa.
Questo però non significa che avessi alternative, e no, non sono il tipo da raccontarmi che quello che conta veramente sono le piccole cose, le cose semplici, l’orticello e le risate dei bimbi, quindi che fare? Mi laureo e non so che fare, provo questo e quello e non so che fare, lavoro in un bar e non so che fare… e intanto sono sempre più stanco, più oppresso, l’euforia degli inizi non è passata, ha solo cambiato di segno: si chiama angoscia.
Va a finire che decido che faccio l’IELTS e poi me ne torno a casa. Non ricordo con chi ne ho parlato e come l’ho messa giù, né agli altri né a me stesso, ma la decisione è quella. Perché l’IELTS? Perché l’esame è il 30 giugno e il 30 scade il contratto di affitto: dovevo pur inventarmi qualcosa per dare un senso alla mia presenza fino alla fine, no?
L’ultimo mese lo passo murato in casa. C’è caldo come quando sono arrivato, e ho la psiche macellata come quando sono arrivato, il cerchio si chiude, a posteriori mi sembra già un successo, estetico per lo meno. Ho qualcosa di simile a una cistite o un’uretrite, ovviamente è tutto nervi ma mi metto a cercare nevroticamente un laboratorio di analisi delle urine, le analisi sono a posto, io comunque non esco di casa, faccio simulazioni dell’IELTS tutto il giorno e per il resto guardo la Tata su Paramount Channel, non l’avevo mai guardata, giusto qualche spezzone e non mi era piaciuto, adesso se non guardo i miei due episodi alla sera ho la sensazione di non riuscire a sopravvivere fino alla sera dopo, mi sembra che il momento più bello della mia vita sia quando nanny Fran e il Signor Sheffield si sposano.
Fatto l’IELTS, alla sera c’è un ritrovo con Anna e gli altri, mi danno appuntamento allo Spirit de Milan. Mi sembra un posto stupendo, mi vengono in mente mille cose, mille idee e mi sembra di aver sbagliato tutto fin lì, di aver imboccato fin da subito la strada sbagliata, di essermi dedicato a cose e prospettive che erano tossiche e morte in partenza.
Mi sembra che ora saprei cosa fare, cosa cercare, cosa perseguire e mi viene una tristezza insostenibile perché mi sembra di aver sprecato l’occasione della mia vita, forse l’unica occasione di andare da qualche parte, di essere qualche cosa.
Chiedo scusa a tutti ma sono molto stanco, preferisco andare a casa a prepararmi, domani si parte e devo ancora chiudere qualche borsa, qualche scatolone.
Arrivo al piazzale della stazione di Bovisa che c’è ancora il sole, è il tramonto, mi manca il fiato. Canticchio i P.O.D.
Goodbye for now
I’m not the type to say I told you so Goodbye for now, so long
I think the hardest part of holding on is letting go
Immagine generata con DALL-E
“Milan skyline in The style Of Escher”