Lasciare un segno

Aveva questa fascia nera attaccata al braccio e collegata a una macchinetta elettronica, a sua volta infilata in un borsello di tela. Impossibile non notarla. Ogni dieci minuti la fascia stringeva il braccio in una morsa che le faceva digrignare i denti. A parte quello, non dava segni di fastidio o imbarazzo. Scoprii più tardi che quel marchingegno era un holter cardiaco. Me lo disse la ragazza stessa, incontrata al Love, un bar con un’insegna fluorescente accanto alla scuola di scrittura che entrambi stavamo valutando se frequentare.

Capelli scuri, mossi, a incorniciare un volto magro e dagli zigomi pronunciati. Occhi come buchi neri, iperattivi e incapaci di fermarsi su un punto fisso.

Fu lei a parlarmi.

«Sei quello del corso» disse.

 

Le luci rosa del locale rendevano i nostri corpi densi. Alle pareti erano attaccati i manifesti di una serata queer che si sarebbe svolta la settimana seguente.

«Giuseppe, sì. E tu sei quella che distraeva tutti con quel coso.»
«Holter» disse, «per l’appunto. Pare che io abbia qualcosa che non va. Chiara, comunque. »
«Al cuore? » chiesi.
«Non l’ho capito. Mi sa che devono capirlo pure loro. Cioè, i medici, intendo. »
«È fastidioso?»
«Non quanto gli sguardi della gente. Bevi qualcosa? »

«Puoi? Nonostante quello?»

«Mi hanno detto di comportarmi come sempre, di fare quello che faccio di solito. E io di solito bevo.»

«Una birra?»

«Una birra.»

Tornò al tavolo con due medie chiare, poi la cameriera ci raggiunse con un vassoio di tramezzini. In sottofondo Save Tonight di Eagle-Eye Cherry. Certe canzoni non passano mai di moda.

«Che poi chi è Eagle-Eye Cherry?»

«Come?» domandò Chiara. Il suo sguardo aveva smesso di vagare e si era posato sul vassoio di tramezzini, ma anche lì sembrava indugiare, indeciso su quale soffermarsi. Tonno? Prosciutto cotto? Salmone?

Scelse il tonno.

«Dico, chi cavolo è Eagle-Eye Cherry?»

Questa volta Chiara si fermò a guardarmi e rise. Rise forte, che quasi si strozzò. E mentre rideva, mangiava e un po’ si strozzava, pure l’holter cominciò a misurarle la pressione, e questa cosa la fece ridere ancora più forte.

«Scusa» disse, quando si ricompose. «Mi fa ridere che ricordi il suo nome. Io l’avevo completamente dimenticato. Ma soprattutto, che nome è Eagle-Eye Cherry?»

«Boh, risposi. Occhio d’Aquila Ciliegia. È un nome figo. Tu non vorresti chiamarti così?»

«Non credo» disse.

«Anche come secondo nome» insistetti. «Chiara Occhio d’Aquila Ciliegia. »

Terribile.

«Allora scegline un altro.

«Sentiamo, tu che nome d’arte mi daresti. »

Ci pensai su, sorseggiando la birra.

«Chiara Luna Coniglio. »

«Come ti è venuto?»

«È che la tua faccia mi ricorda la Luna. »

«E perché coniglio? »

«Boh, cioè Eagle-Eye Cherry insegna che un animale ci sta sempre bene. »
«Sì, ma perché proprio il coniglio?»
insistette lei.

«Ho letto che comunicano con il corpo.»

«E io ho letto che mangiano i propri escrementi.» Risi.

«Ok, niente coniglio allora, va bene?» 

«Non lo so. Forse mi ci stavo affezionando.»

«Hai tutta la sera per decidere» decretai ordinando un secondo giro. «Quindi vuoi scrivere?

Lei fece spallucce e prese un altro tramezzino, questa volta al salmone

«Non lo so, più che altro mi piace leggere.»

«E frequenti un corso di scrittura perché ti piace leggere?» 

«Non mi sono ancora iscritta. Comunque sì, che c’è di male? »

«Nulla, è solo affascinante.»

«Finalmente inizi a capire con chi hai a che fare, baby. »

«L’avevo già intuito, ora ne ho la conferma.»

«Invece tu vuoi scrivere un grande romanzo. »

«Non è una domanda» dissi.

«No, infatti. È evidente. Hai la faccia di uno che non si accontenta delle parole altrui. »

«Non capisco se è un complimento.»

«Non sei poi così perspicace. E di cosa vorresti scrivere?» 

Vennero servite altre due birre e portati indietro i boccali vuoti. «Delle cose che vedo» risposi.

«Pensi di cavartela così?»

«Dici che è poco? Io vedo un sacco di cose. »

«Tipo?»

«Tipo te, ora, con quell’holter attaccato al braccio, che fai un mucchio di domande, che studi per leggere meglio, che non smetti un secondo di guardarti attorno, che bevi birra come se fosse acqua.»

«Scriverai di me?»

«Forse. Ti dispiacerebbe?»

«Non lo so. Dipende da come ne parli.»

«Vivi qui?» domandai.

Il suo sguardo ebbe un guizzo. 

«Tu che dici? »

«Sembri una milanese, sì.» «E come sono “le milanesi”?» chiese, virgolettando con le dita. «Come te. Vaghe, furbe. Imperturbabili.»

«Puoi fare di meglio.» «Sbiadite.»

«Sbiadite?»

 

«Sbiadite, sì. Impossibili da mettere a fuoco.»

 «Tu vieni dalla provincia.»

«E cosa te lo fa pensare?» 

«Hai un modo di fare netto.»

«Beccato. E tra quaranta minuti c’è l’ultimo passante.» 

«E se lo perdi che succede?»

«Questo devi dirmelo tu.»

Dall’esterno giunse uno sferragliare di rotaie. La sagoma di un tram s’intromise per un instante oltre le vetrate, poi scomparve. «Non hai la minima idea di cosa sia Milano di notte, vero?»

«Ci vengo spesso, in realtà.»

«Per uscire, e poi te ne torni a casa.»

«Mi perdo qualcosa?»

«Vieni con me» disse.

 

Svuotammo le birre, pagammo (provai a offrire, ma lei non volle) e uscimmo. La strada per Porta Venezia era colorata su entrambi i lati da locali, panetterie, cocktail club e da più abbordabili bar in stile anni Novanta, come il Picchio, ritrovo di universitari squattrinati e ostili alla movida patinata. Ci fermammo a prendere una bottiglia di vino. La portammo via in un sacchetto di plastica biodegradabile dalla tenuta incerta, che mi infilai sottobraccio facendo attenzione a reggere il fondo con una mano.

«Dove andiamo?» chiesi.

 

«Ssh» fece lei. Ascolta.

 

«Cosa?»

 

Scosse la testa, infastidita, come se non fossi in grado di comprendere qualcosa di basilare.

Attraversammo la strada. Una donna, ferma al semaforo, parlava da sola, chiusa nella sua auto. Sicuramente al telefono, con qualcuno all’altro capo a immaginarsela, a creare fotogrammi su una voce filtrata e leggermente distorta. Cosa ne è di noi quando non abbiamo il controllo sulla nostra immagine? Quando possiamo contare solo sulle parole?

Arrivammo di fronte all’ingresso dei Giardini Indro Montanelli; stavano per chiudere. Chiara insistette, e il custode ci lasciò entrare a patto che ci limitassimo ad attraversarlo e uscire dall’altro lato.

«Hai una bella faccia tosta» dissi.

 

«Ho una bella faccia e basta» rispose.

 

Camminammo senza dirci altro per qualche minuto, poi Chiara si fermò nei pressi di un laghetto artificiale, si sedette e io mi misi accanto a lei. Intorno a noi gli alberi danzavano una specie di ola al rallentatore, come tifosi muti dai lunghi rami carichi di foglie al posto delle braccia.

«Ora riesci a sentirle?»

 

Provai a prestare attenzione, nel tentativo di percepire quello che per lei era così importante. Mi domandai su quale dei cinque sensi dovessi concentrarmi. L’udito, mi convinsi. Eppure non sentivo altro che il rumore dei netturbini e delle macchine per la pulizia strade. Glielo dissi, con un po’ d’imbarazzo.

Chiara sorrise.

 

Provano a cancellare le tracce, disse.

 

Rimasi in silenzio, e lei ricominciò a parlare.

 

«Hai presente un foglio? Scritto a matita, continuamente cancellato e riscritto? Ecco, quel foglio è Milano. Se chiudi gli occhi riesci a vederli quei segni, a sentire quelle voci. Voci di migliaia, milioni di donne e uomini che l’hanno attraversata, calpestata. Secoli e secoli di esistenze che si scontrano. Esistenze come le nostre, che non avevano messo in conto di sovrapporsi anche solo per un istante. E proveranno a cancellare le linee che abbiamo tracciato, ma il solco rimarrà intatto. Solo un po’ sbiadito, proprio come dicevi tu, prima. Anche questa notte sbiadirà, ma sarà impossibile cancellarla del tutto.»

L’holter si mise in funzione; restammo fermi ad aspettare che le misurasse i battiti cardiaci. Era come se cercasse di riportarla al presente. Quando allentò la morsa, le presi la mano. Lei l’accolse con naturalezza.

Eccoci, due sconosciuti persi nel tempo.

 

«Chiara Luna Coniglio», sussurrò guardando il cielo. «In fondo mi piace.»

«Eagle-Eye Cherry sarebbe fiero di te. Chissà se anche lui è una delle tante linee sbiadite. Se chiudi gli occhi riesci a vederlo?»

«Sì. Posso sentire il suo sguardo da falco posato su di noi.»

«Non so se essere spaventato o eccitato.»

Una fascio di luce ci colpì alle spalle. Il custode, una faccia stanca su un corpo minuto, ci chiese di allontanarci. Chiara mi lasciò la mano e mi sentii d’un tratto perso. Poi sorrise e dimenticai quel senso di vertigine appena provato. Ci incamminammo verso l’uscita.

Non sembri una matita.»

 

Lo dissi senza pensarci, e Chiara, che camminava qualche passo avanti, si fermò e mi venne incontro.

«Ah no?»

 

Salì con la punta dei piedi sui miei, forse per errore, ma non fece nulla per rimediare. 

«No» dissi.

«E cosa sembro?»

 

«Una di quelle penne multicolore che usavo da bambino.»

 

Chiara rise. Da quella distanza riuscivo a vederle i denti. Avrei voluto baciarla, ma mi limitai a toccarle la punta del naso con l’indice. Lei strizzò gli occhi e mosse un passo indietro, poi roteò su se stessa.

«Io ne ho ancora una, sai?» disse.

 

«Un cimelio, presto ti contatterà qualche museo per aggiungerla alla sua collezione.»

«E quindi sarei una penna.»

«Non sembri facile da cancellare.» 

« Non una semplice penna, hai detto. Una penna multicolore. Che scelta bizzarra. Forse vivere in questa città ti ha insegnato a lasciare il segno» dissi.

«Di che colore mi vedi? »

«Viola.»

«L’hai scelto a caso?»

«Solo una sensazione.»

Chiara prese il telefono. Lo schermo le illuminò il volto di blu.

«Cosa cerchi?» chiesi.

 

«Il viola simboleggia la metamorfosi, ma, e sottolineo ma, è anche il colore della fascinazione erotica.»

 

Scosse la testa in modo che i capelli danzassero un poco prima di ricaderle dietro alle spalle. Un gesto dalle intenzioni sensuali che risultò goffo e mi fece sorridere.

«No, eh?» disse.

 

«Sei più sexy quando fai discorsi filosofici.» «Merda, devo lavorare sulla mia carica erotica. »

«Credo in te.»

«Hai visto l’ora? »

 

«Non ci stavo più pensando» dissi.

 

«L’ultimo treno è andato. Ora sei un provinciale in balia della grande città. Non hai paura?»

 

E in realtà un po’ di paura ce l’avevo, ma non glielo dissi, perché era difficile da spiegare. La paura di non essere altro che una fermata di metro prima della successiva, quando avrei voluto essere la destinazione, il capolinea. Mi sentii stupido e scossi la testa nel tentativo di rimescolare i pensieri.

«Non importa», mi limitai a dire. «Non ho più voglia di tornare.»

Immagine generata con DALL-E
“a table in a bar with two beers on it and a plate with tramezzini, a pink wall in the background, in the style of Edward Hopper”