Da quando sono chiuso in casa

Da quando sono chiuso in casa scrivo solo storie con gente chiusa in casa. E i film che voglio vedere sono tutti ambientati tra le mura domestiche. I pensieri che faccio hanno tutti un inizio e una fine, come limiti dettati da una planimetria invisibile. Sul sito di annunci di lavoro applico come filtro la parola Smartworking. Che poi sarebbero due parole: smart e working ma adesso inizio a concepirle unite, come se a ognuna fosse proibita la facoltà di staccarsi dall’altra. Non vado a prendere il caffè da asporto al bar perché lo faccio meglio io qui, con la moka.

Sistemo sul tavolo le cose di cui ho bisogno durante la giornata: il computer, il telefono, i fogli, l’agenda, gli snack, la frutta. A ciascuna di queste cose una destinazione diversa. Il computer al centro del tavolo, i fogli accanto a me schiacciati dall’agenda. Alla sinistra gli snack e a destra la frutta. Potrei vivere del mio posizionare le cose.

Dopo cinque giorni passati così, però, la frutta inizia a deteriorarsi, perché in fondo posso avere un quintale di frutta accanto a me, ma finisco sempre per mangiare una volta ogni due giorni quel solito sfigato mandarino, che magari in qualche spicchio nasconde pure un nocciolino e allora mi sento infastidito. Mi rendono insensibile anche i fogli bianchi, stropicciati perché tirati fuori con violenza dalla risma di carta: dapprima ritenevo fossero delle “possibilità”, tutte bianche e da dover sverginare. Dopo cinque giorni che mi fissano, si rivelano a me come muri invalicabili, ostacoli di una corsa a ostacoli troppo alti da superare.

Esco, sfido il vento e vado a bere il caffè. Allora finalmente torno a casa. Riprendo i fogli, riprendo il computer. Mi invento storie che non avvengono tra le mura domestiche. Ci provo. I personaggi quasi non hanno una casa, cerco di farli stare all’aria aperta il più possibile. Lui e lei che si incontrano al cinema… accidenti, un altro luogo al coperto… al ristorante! No, non possono stare seduti ai tavoli fuori perché fa troppo freddo… Al parco! Sì, il parco va benissimo.

Lei è bellissima: mora, capelli sciolti, labbra dal colore dei fiori di ciliegio. Lui un tipo strano, anticonformista. Parlano di libri: il loro autore preferito è Cormac McCarthy. Tutto fila liscio. Lui le ha offerto una sigaretta, lei torna a fumare dopo tanto tempo. Stanno per arrivare al fatidico momento del bacio. Non ci sarebbe niente di più giusto, malgrado si siano appena conosciuti. Ma sul più bello, lei dice: «Ho un po’ di fame. Ti va di mangiare un mandarino?», tirandone fuori uno dallo zaino. Mi sveglio da questo sogno. Chiudo tutto: il file word su cui stavo scrivendo, il computer, l’agenda. E faccio clic su “Non Salvare”.

Mi dispero: io ci provo a parlare dell’en plein air, ma quando sono chiuso in casa sono chiuso in casa. Non esiste altra realtà se non quella in cui io sono chiuso in casa. Riesco a scrivere solo di persone chiuse in casa. E alla fine di tutto, c’è sempre un mandarino.

Immagine generata con DALL-E
“still life of a peeled tangerine in the style of caravaggio”