Piccolo diario postumo
Una lapide scura conficcata in mezzo a un prato fiorito circondato da alberi spogli come coralli neri vorrebbe essere testimone, direi pure con una certa insolenza, che sono morta in quel luogo, tale giorno di tale anno. E, come potete immaginare, la cosa non mi va affatto giù.
Capisco che quella lastra di pietra possa in qualche modo andare fiera di essere stata incisa apposta per me e non vorrei essere proprio io a offendere la sua sensibilità o ad abbassare la sua autostima, ma dovrebbe capire, anche se è un’impresa ardua quando sei dura e di sostanza e di comprendonio, che dal mio punto di vista appare un insulto ridurre la mia vita a due semplici date che per molti possono avere lo stesso significato della scadenza su un vasetto di yogurt. Sarebbe come se tra la “v” acuta come un vagito e la “a” flebile come un gemito di una parola corta già di suo come “vita” cancellasse tutto quanto c’è stato prima, durante e dopo. Ma la materia, lo sapete, tende a ridurre tutto quello che prescinde se stessa. E io sono qui per sfidarla!
Basta chiedere a quella lapide cosa sarebbe la morte senza l’inconveniente dell’oblio e vedrete che resterà muta più di quanto non lo sia già. Io invece rispondo che è solo una mezza morte; anzi, siccome in qualche modo sto parlando, mi riprendo un pezzo di vita così da ridurre a un quarto questa fastidiosa sensazione del non esistere. Tornando all’oblio, per ora sono riuscita a rinviare la sua vittoria su di me, ma il merito è quasi tutto di mio padre che si è dato un gran daffare per pubblicare il mio libro. Quel pover’uomo si è preso anche la briga di cambiargli il titolo. Doveva chiamarsi “Il retrocasa”, ma “Diario” va bene lo stesso, anche se un diario lo possono scrivere tutti e infatti, dopo il mio, è stato pubblicato quello di una schiappa, di un giardiniere anarchico, di un guerriero, di un vizio, perfino di un Babbo Natale. Avevo pensato di intitolarlo “Il retrocasa” perché è lì che si sono svolti i fatti, e perché avrebbe dato l’idea di quell’intimità domestica che incuriosisce il lettore medio e lo convince a sceglierlo tra tanti. Per fortuna il mio “Diario” ha avuto un successo planetario, altrimenti avrei dovuto intraprendere una massiccia campagna promozionale a colpi di post su Facebook, Instagram e Twitter, ingaggiare l’agente letterario di Ken Follett e sostenere interviste sui canali culturali di mezzo mondo per ottenere lo stesso risultato, anche se forse neanche sarebbe bastato visti i clamorosi trionfi letterari di libri buoni solo per ammazzare il tempo e offendere l’intelligenza dei lettori.
Ad ogni modo credo che oggi si possano contare sulle dita di una mano quelli che ignorano come siano andate le cose in quel nascondiglio di Amsterdam.
Se quella vipera di Ans non ci avesse denunciati, probabilmente avrei scritto un sequel che avrebbe venduto più del Diario e magari qualche regista ci avrebbe tirato fuori la sceneggiatura di un film. Ma pure Ans non è stata che una delle tante vittime del sistema come peraltro quei ragazzacci della Gestapo che il 4 agosto del ’44 ci hanno arrestato. D’altra parte il loro sporco lavoro dovevano pur farlo per portare a casa la pagnotta, e in fondo, quei poverini, eseguivano solo degli ordini. A parte il loro comandante che somigliava in modo impressionante al capitano Amon Leopold Göth di Schindler’s List, ma con un caratterino acido come se non andasse di corpo da una settimana, tutti gli altri sembravano figli di buona mamma.
Comunque, a distanza di lustri, sento impellente, e credetemi se vi confido che non riesco a capire da quale recesso della mia anima provenga questo stimolo, il bisogno di ringraziarli. Ma vedete, rintracciarli dopo così tanto tempo sarebbe complicato pure per Simon Wiesenthal. Comunque, mettiamo che ci riesca, cosa potrei dirgli? Molti di voi, quanto meno, li apostroferebbero, io, invece, li guarderei dritti negli occhi e direi: «Ragazzi, vi prego, avvicinatevi, sì, dài, anche tu Amon, non fare il timidone, che non ci casco» poi, accostando la mano sul mio cuore, proseguirei: «Magari siete troppo modesti per ammetterlo, ma siete stati davvero fantastici!» e qui avrei scosso la testa e chiuso gli occhi come se mi avessero regalato una borsetta di grido, poi, dopo una breve pausa per abituarli all’evidente paradosso, avrei ripreso: «Il fatto è che non so davvero come esprimervi la mia riconoscenza. Se non vi basta una stretta di mano o una pacca sulla spalla, lasciatevi baciare e abbracciare, sempre se non mi trovate ripugnante come ai bei vecchi tempi».
A questo punto, forse consapevoli delle tante marachelle commesse in passato, arrossirebbero di vergogna, ma io li rassicurerei subito come fossi una cara amica: «Tranquilli, non sono un tipo che porta rancore, specialmente verso chi mi ha fatto un grosso favore…» al che, loro, sempre più sorpresi, solleverebbero un lato del labbro superiore come fanno gli attori nelle serie americane quando un tizio dice qualcosa di assurdo, poi, per toglierli d’impaccio, proseguirei: «Vedete, cari amici, prima del vostro arrivo sognavo una mia vita piena di pace, gioia e serenità. Ho detto “immaginare” giacché io e la mia famiglia abbiamo vissuto mesi interi immersi nell’oscurità. E sapete cosa vuol dire rimanere ore e ore immersi in un calamaio di inchiostro nero? Vi dico, da impazzire. Ma anche all’oscurità si fa l’abitudine e, in fondo, il mondo non è forse un luogo popolato da ciechi? Per ragioni a voi fin troppo note, vivevamo come topi che si nascondono da un gatto e dunque potete comprendere la mia gratitudine quando ci avete tirato fuori di lì. Anche se devo dire che in quella minuscola stanza nascosta dietro una libreria, avevamo imparato a usare antenne sensoriali fino a quel momento sconosciute. Infatti ormai ci muovevamo come Catherina Zeta Jones in Entrapment, ed eravamo diventati più silenziosi di un ninja perché, sapete, uno starnuto, un ruttino involontario o un singhiozzo, potevano provocare palpitazioni accelerate, sudorazioni fredde, contrazioni allo sfintere, persino infarti. Noi, dopo decine di capocciate reciproche e ginocchia gonfie per i tanti spigoli centrati in pieno, eravamo riusciti a mappare quel tugurio e a percepire la direzione in cui si stava muovendo l’altro. In poche parole, ci eravamo trasformati in ciò che ci accusavano di essere senza che lo fossimo: ombre, anzi neanche quelle, eravamo nullità, altro che essere umani. Quindi grazie ragazzi, grazie Gestapo, grazie SS, grazie Adolf! Grazie davvero. Da quel 4 agosto, invece di annientarci nella paura, abbiamo ricominciato a vivere in pieno le nostre identità».
Stesso ringraziamento lo rivolgo ai carcerieri che ci hanno preso in consegna. Inutile dire che erano fatti della stessa pasta degli altri: sembravano cattivi e spietati, ma se li fissavi bene negli occhi si scorgeva, ma a fatica, un pallido barlume di umanità. Peccato che le norme in quel carcere vietassero rapporti con i prigionieri altrimenti una chiacchiera l’avrei scambiata volentieri, e magari sarebbe saltato fuori che non erano tanto diversi da noi!
E in effetti Fritz, la guardia addetta alla nostra sorveglianza, ogni tanto, soprattutto di notte quando credeva di non essere udito da nessuno, piagnucolava come un poppante. Forse pensava alla famiglia lontana o alla fidanzata che l’aveva mollato, o era pentito di qualche bravata. Che ne so! Fatto sta che mi era diventato quasi simpatico, e, proprio il giorno che mi ero decisa a rompere il ghiaccio, ci hanno caricato su un treno merci e portato ad Auschwitz. Oggi già solo il suono di questo nome suscita orrore, ma all’epoca dei fatti era un ridente paesino della campagna polacca che, immagino, non avesse nessuna intenzione di passare alla storia come macabro luogo di sterminio. Che poi tutto questo sterminio, io mica l’ho visto! Per me è tutta un’invenzione della contropropaganda degli alleati. Certo, in quei villaggi fatti di squallide baracche non te la passavi mica bene; il cibo scarseggiava e si dormiva tutti accalcati perché faceva un freddo boia. Ma del resto si era in tempi di guerra e non ce n’era per nessuno. Comunque, vi assicuro che non ho visto nessun nazi ammazzare uno di noi con tutta l’intenzione di farlo.
È vero che ogni tanto scompariva qualcuno, ma siccome era un andirivieni continuo di treni, sicuro come la morte che veniva portato in un altro campo. Io e mia sorella Margot, per esempio, dopo neanche un mese, siamo state trasferite a Bergen-Belsen. Anche in questo non che ci dessimo alla pazza gioia, ma nemmeno che fosse luogo di sterminio solo per questioni di razza. E infatti io ancora stento a crederci. Ciò che mi ha ammazzato, e ancora oggi che lo penso non sapete quanto mi faccia arrabbiare, sono stati i pidocchi. Altro che camere a gas o fucilazioni di cui tanto si parla! Quelli erano solo spauracchi per tenerci a bada o per farci lavorare con più impegno, ché, lo devo ammettere, per una ragazzina come me non era il massimo della vita assemblare una bomba a mano quando pochi mesi prima vestivo bambole, ma d’altra parte bisognava impegnarsi tutti per la vittoria della Gvande Gevmania!
Solo che sapete quanto ci vuole poco per ingigantire un tragico incidente come un colpo di fucile partito inavvertitamente da una torretta, che va a finire giusto in mezzo agli occhi di un poveraccio che non si era accorto di aver oltrepassato il filo spinato! Basta un commento in apparenza innocuo buttato lì da una malalingua e ragazzi che hanno avuto la sola colpa di sorvegliarci, diventano spietati assassini capaci di efferatezze come liquidare un essere umano sparandogli alla nuca o addirittura gassarlo. Davvero inconcepibile! Credetemi, ché l’ho visto coi miei occhi, quei bravi ragazzi, invece, si sono dannati l’anima per sterminare gli insetti che tormentavano mezza Europa.
Tanto ci tenevano a sconfiggere quella piaga, che ci hanno sottoposto a incessanti docce disinfettanti a base di Zyklon. Ragazzi, che trovata geniale lo Zyklon! (1) Tuttora penso che chi l’ha inventato meriterebbe il Nobel per la medicina, se non per la pace. Sfortunatamente per me, lo Zyklon è arrivato troppo tardi e, come ricorda la lapide, il tifo trasmesso dai pidocchi mi ha portato via in un freddo giorno di marzo del ’45 tra indicibili sofferenze.
Devo ammettere, comunque, che il momento del trapasso non è stato neanche così atroce, direi anzi che è stato confortante perché sapevo che i miei tormenti stavano per finire. In quel frangente il meglio che puoi fare è lasciarti andare al pensiero che anche se andassi nella valle oscura non temerei alcun male perché Tu sei sempre con me; perché Tu sei il mio bastone, il mio supporto e con Te io mi sento tranquilla. (2) E niente, dopo un lunghissimo periodo di silenzio e oscurità più assoluto, sono iniziati a capitarmi fenomeni incredibili: senza scendere nei particolari, alla fine mi sono trasformata in vapore e quindi sono salita sempre più in alto fino a fondermi con le nuvole.
In questo preciso momento, infatti, sto fluttuando nel cielo in attesa di tempi migliori, ché, per quanto assurdo e incomprensibile, non sono ancora giunti perché tuttora ci sono persone come il capitano Göth ossessionate dal pensiero di trovare una “soluzione finale” per me, per Margot, per Edith, per Simon e per tanti altri che considerano diversi da loro.
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- Lo Zyklon è un insetticida cianogenetico impiegato dai nazisti nelle camere a gas per sterminare gli ebrei, gli zingari, le persone affette da malformazioni fisiche o psichiche, gli omosessuali, i dissidenti politici, i prigionieri di guerra e altre persone ritenute scomode.
- Testo della canzone di Ellie Botbol dell’album “Jona che visse nella balena”.
Immagine generata con DALL-E
“a tombstone in a meadow surrounded by black trees and a single cloud in the sky, impressionist painting“