La porta del bagno
La porta del bagno si è rotta. È da almeno una settimana che dico che avrebbe ceduto, che le giunture erano lente e che prima o dopo sarebbe cascata. Francesco, che non ha manualità, che si disinteressa delle sue cose, figuriamoci delle cose di tutti, che si occupa principalmente dell’economia domestica e che ripudia le pulizie tanto che bisogna puntargli una pistola alla tempia per costringerlo a ripulire il lavandino e i fornelli della cucina dopo averli usati, ha liquidato la questione con: poi la sistemiamo. Rosanna, che è l’unica coinquilina in grado di frantumare qualsiasi cosa con lo sguardo, l’abbiamo obbligata a stare più lontana possibile da qualsiasi lavoro di riparazione. L’unica ragione per cui possa valere la pena sopportare quei due, è Greta. Quando le ho fatto notare che la porta stava per cedere, lei mi ha detto: che sarà mai, aggiustala. Come se io ne fossi capace. Io nella vita faccio il personal trainer. Se vedessi una porta che sta per cadere a terra starei lì accanto, in piedi, leggermente piegato sulle ginocchia, a battere le mani a ritmo cadenzato e urlerei: dai, dai, ancora un giorno, dai che ce la puoi fare, resisti, non mollare. Francesco mi dice: ma come, sei alto e grosso, muscoloso, un esempio di virilità, perché non l’aggiusti? Vaglielo a spiegare che non bastano i muscoli per essere virile. E vaglielo a spiegare che saper aggiustare una porta non fa di te un uomo virile.
Quando la porta ha ceduto ce ne stavamo tutti beatamente rilassati sul divano e sulle poltrone, avvolti da una coperta e a guardare qualche schifezza in tivù. O almeno, io e Greta ci stavamo provando. Francesco russava riproducendo fedelmente il rumore di un tritacarne e Rosanna non faceva che commentare ogni singolo evento sullo schermo. Nell’istante di silenzio che precede ogni tragedia, ci ha colto il fragore. Abbiamo sentito tremare il pavimento sotto le nostre pantofole e ci siamo guardati con gli occhi sgranati. Mi sono alzato, ho attraversato il corridoio, ho voltato a destra e ho visto la porta a terra. Questo, per essere esatti, è successo un’ora fa.
«Ragazzi, niente panico. Chiamiamo Marcellino», ha detto Francesco come se avesse il controllo della situazione.
Salta su Rosanna, che se ne stava ancora avviluppata nella coperta di lana, e ci informa che Marcellino, il portiere del palazzo, non può venire, perché a Natale lui torna in Basilicata per stare con la famiglia.
Greta striscia i piedi con eleganza lungo il corridoio e sparisce nella sua camera. Poi esce di nuovo e si avvia verso l’ingresso.
«Che fai?», ho chiesto.
E lei torna davanti alla porta del bagno (orizzontale) con un biglietto da visita in mano e il cordless nell’altra. Digita i tasti e si mette il telefono all’orecchio. Con la mano che tiene il biglietto si sistema gli occhiali che le stavano scivolando dalla lieve gobba che ha sul naso.
«Chi stai chiamando?»
«Carmine.»
«E chi è?», domanda Francesco, appoggiato allo stipite della porta del bagno, guardando a terra come se ci fosse una persona in agonia.
«L’ho conosciuto in ufficio. Fa riparazioni in casa.»
«Sei sicura che possa venire?», chiedo.
«Proviamo… Pronto, Carmine? Sì, ciao, sono Greta, ti ricord… sì!»
Vedo l’espressione prima gioviale ed educata di Greta diventare un silenzio, poi la vedo fare sì con la testa. Dice: «Capisco, certo, ci mancherebbe, allora grazie» e mette giù.
«Quindi?»
«Quindi verrà a sistemarla.»
«Grande Carmine! Meno male che c’è lui.»
«Sì, ma verrà tra una settimana.»
«Tra una settimana?», tuona Rosanna.
«È in settimana bianca in Val di Fassa. Dice che se troviamo qualcuno la vigilia di Natale è un miracolo.»
«E noi come facciamo una settimana senza porta del bagno?», chiede Francesco.
Me lo sto domandando anch’io. Anche perché il bagno non è un luogo come un altro. Sai, finché lasci la porta della cucina spalancata, chi se ne frega. Ma il bagno è uno dei pochi luoghi in cui hai un attimo di intimità. Il momento in cui sei in bagno e stai espletando le tue funzionalità biologiche è il momento in cui sei più vulnerabile. Sei lì, illuminato solo dalla luce bianca sopra lo specchio, sulla tazza. Magari stai guardando un punto fisso nel vuoto, stai leggendo una rivista o stai scrollando la bacheca di Facebook o Instagram. Pensa se in quel momento entrasse un maniaco omicida con l’intento di ucciderti. Pensa che figura di merda farsi trovare nudo, con i pantaloni calati alle caviglie, e l’assassino che ti guarda e neanche lui crede ai suoi occhi. Ti verrebbe da dirgli: scusi un attimo, maniaco omicida, non credo che riuscirò a convincerla a non farmi fuori, ma almeno lasci che mi pulisca il culo, mi permetta di darmi una rinfrescata e indossare i pantaloni, e solo dopo mi dia il colpo fatale. Perché morire va bene, ma morire mentre stai cacando è umiliante. La gente leggerà sul giornale: morto per lo spavento. E le persone che mi conoscono non mi ricorderanno come un ragazzo alla mano, intelligente, con la passione per lo sport, mi ricorderanno come Emilio: l’uomo che è morto con i pantaloni abbassati.
«Ora ci tocca stabilire delle regole», prova a ragionare, Greta.
«Ah, io questo bagno non lo uso», comincia Rosanna.
«Guarda che se vuoi la tua intimità basta che lo dici», la rassicura Francesco.
«No, no, sono già difficile di mio. Andrò nell’altro bagno.»
L’altro bagno non piace a nessuno. È molto piccolo, angusto, più striminzito di un bugigattolo. Sembra di cacare in una cabina telefonica. Non c’è molta libertà di manovra. Risulta complicato persino allargare le braccia per bene, il massimo che puoi fare è alzare i gomiti. C’è quello che serve: un lavandino, una doccia e un water. Ma chiamarlo bagno è un insulto ai bagni degni di questo nome.
«Io non ho problemi a usarlo. Potremmo installare una tenda provvisoria», dico.
«E nemmeno io.», aggiunge Greta. Mi guarda mentre lo dice.
«Ottimo. Allora abbiamo risolto?», Francesco si sfrega le mani. Sputa uno sbadiglio.
«Pare di sì.»
Così Francesco se ne torna sulla poltrona a sonnecchiare e Rosanna torna davanti alla televisione. Prima che Greta si allontani, le sfioro l’avambraccio. Il buio del corridoio ci inghiotte. La porta sta ancora a terra, quindi la tiro su e l’appoggio delicatamente.
«Che c’è?»
«E ora come facciamo?» dico mentre colpisco i palmi fra di loro per scrollarmi la polvere.
«A fare che?»
«Lo sai.»
Greta fa di no con la testa. Davvero non riesce a capire di cosa sto parlando?
La verità è che io e Greta approfittavamo, di tanto in tanto, della distrazione degli altri per chiuderci in bagno a fare una sveltina. A dirci cose sconce per eccitarci. Coglievamo le occasioni giuste: quando Rosanna cucinava o guardava la televisione, quando Francesco dormiva. Non riuscivamo mai ad approfittare della casa vuota perché Greta fa la segretaria al mattino e io lavoro in palestra il pomeriggio. La sera la casa è occupata. Ho pensato di entrare di soppiatto nella sua stanza, ma la camera di Rosanna è accanto e ha il sonno leggero. Le pareti sono di carta. Se una mosca si sposta di un millimetro si può sentirla sbattere le ali.
«Ce la farai a resistere per una settimana, no?», ammicca.
Poi mi dà un bacio voluttuoso. Si morde un labbro, mi guarda negli occhi.
Si volta e sparisce nella sua camera da letto.
Il giorno dopo abbiamo lasciato perdere. Mi sono svegliato con una solenne alzabandiera e un formicolio ai testicoli. Il livello di testosterone è più alto al mattino, quindi l’erezione mattutina è la norma, ma lunedì mattina, svegliato dal trillo della radiosveglia, non so cosa mi sia preso. Devo aver sognato qualcosa di ambiguo o che so io. Mi sono alzato dal letto e ho imboccato il corridoio. La luce bianca, ancora notturna e placida di dicembre, ha illuminato le piastrelle fredde della casa. Ho visto Greta camminare sulle punte, silenziosa, con le calze sportive di spugna che le arrivano sopra le caviglie. Vedere le sue cosce nude sparire nella sua camera non mi è stato d’aiuto a placare l’eccitazione. Greta dorme in pantaloncini corti, gli stessi di quando era una ragazzina che giocava a pallavolo, ogni giorno dell’anno. Poi però indossa felpe col cappuccio e maniche più lunghe di quanto siano le sue braccia, tanto che le tende fino a raccoglierle col pugno, per scaldarsele. Non la capisco proprio. La cosa divertente è che questo abbigliamento, per me, ma vi assicuro che sia così anche per altri, risulta decisamente più eccitante che vederla vestire un abitino corto e tacchi a spillo. Mi piace vederla mentre si strofina il viso, al mattino, mentre mangia le fette biscottate, con il sonno ancora appiccicato negli angoli degli occhi. Quello è uno dei momenti in cui il mio desiderio si accende e ho voglia di prenderla di peso e portarla in bagno.
Ah già, il bagno. Maledetta porta. Rosanna deve averla spostata, forse con l’aiuto di qualcuno, perché non l’ho più vista appoggiata alla bell’e meglio agli stipiti. Dalla cucina ho sentito le voci di Rosanna e Francesco. Sono sgattaiolato verso la camera di Greta, ho bussato piano e lei ha aperto uno spiraglio.
«Ciao.»
«Buongiorno.»
«Che c’è? Mi sto cambiando.»
«Posso entrare?»
Ho visto i suoi occhi cercare delle ombre nel corridoio.
«Non mi sembra il caso.»
«Dai, loro sono in cucina.»
«Devo vestirmi. È tardi. Non posso fare tardi di nuovo. Ci vediamo stasera».
E ha chiuso la porta senza aspettare una risposta.
Quanto mi piace quando mi rifiuta.
Ieri non c’è stato modo di avere un attimo di intimità. Anche oggi, martedì, stessa storia. Le ragazze fanno i bisogni nella cabina telefonica e si truccano nel bagno grande. C’è una luce migliore, lo specchio, l’aria è meno viziata. Greta ha comprato un profumatore, di quelli con le bacchette umide intinte nell’olio essenziale, varietà tropicale o cose così. Quando apri la porta della cabina sembra di essere in quelle turche delle piscine pubbliche. Un miscuglio tutt’altro che omogeneo di urina e cloro. Di Greta però oggi non c’è traccia. Deve essersi svegliata prima di me. Forse ha preferito fare colazione al bar.
Comincia a mancarmi la sua carne, il suo essere schiva e lasciva al tempo stesso. Si concedeva solo quando si stancava di rifiutarmi. Era un gioco infantile, il nostro. Tiro alla fune.
La porta di camera mia è ancora chiusa, ma da dietro il legno e il muro sento Francesco e Rosanna vociare. Calzo le ciabatte aperte dell’Adidas e sento il fresco della plastica sulla punta. Mi si è bucato il calzino all’altezza tra l’alluce e il melluce. Li butterò nella pattumiera più tardi, penso. Faccio qualche piegamento sulle braccia per risvegliare il corpo. Piego le ginocchia e torno su per una ventina di volte. Sono passati dieci minuti, forse, ma le loro voci continuano ad accavallarsi. Apro la porta e li raggiungo.
«No, dico, non ci vuole granché. Potresti anche dare una pulita tu, ogni tanto!»
«Preferisci fare tu tre ore di coda alle poste per pagare le bollette?»
«Si può sapere cosa avete da strillare alle otto e mezza del mattino?»
Rosanna ha le chiavi in mano, la borsa in spalla. Il cappotto ben allacciato e la sciarpa che le avvolge il collo. Francesco è in pantofole e tuta, i capelli scarmigliati e l’aria di chi ha ancora il cuscino stampato in faccia.
«’Sto qui non ha voglia di lavare il bagno.»
«Scusa, Emi’, a me sembra che qui ognuno abbia le proprie responsabilità. Io mi occupo dell’economia domestica, lei fai le pulizie.»
«Non muore nessuno se ogni tanto passi lo straccio anche tu, eh. Poi, non so se te ne sei accorto, ma abbiamo un bagno fuori uso.»
Credo che Rosanna si stia scaldando. Un rossore vivo le si è spalmato sul naso e sulle guance. È protesa in avanti, si appoggia con una mano sulla maniglia della porta d’ingresso.
«Me ne sono accorto», le fa il verso, «ma io non ho nessun problema a usare il bagno senza la porta. In più, dimmi perché dovrei lavare un bagno che tu manco usi!»
«Ragazzi, state tranquilli. Lo pulisco io. Tanto stamattina non ho niente da fare.»
Rosanna si sistema la borsa sulla spalla con uno strattone.
«Eh no, ogni volta finisce così e lui si salva sempre. Apprezzo che tu non voglia farci litigare, ma non si risolvono così le cose.»
«Facciamo così: io lavo il bagno per un mese e tu tieni conto delle spese di tutti e vai a pagare le bollette per un mese. Ci stai?»
Lei lo guarda fisso negli occhi. Serra la mascella.
«Ma vaffanculo.»
Apre la porta e ce la sbatte in faccia.
«Questa è fuori», commenta Francesco facendo un gesto inequivocabile con la mano.
Mercoledì e ancora nessuno ha dato una sistemata alla cabina telefonica. Ieri sera a cena ho proposto un nuovo piano di organizzazione: tutti si occupano di tutto a turnazione. Rosanna ha subito respinto la proposta: io con i numeri faccio schifo e non sono capace a organizzare niente. Francesco ha detto che non è portato per le pulizie di casa. Si sono messi a discutere in maniera concitata per tutta la sera. Al principio hanno mantenuto, per quanto possibile, motivazioni valide. Poi entrambi si sono buttati sul sessismo. La responsabilità del denaro di casa è più da uomini, tenerla in ordine è più da donne. Non è chiaro se si siano accorti di aver detto delle frasi tipicamente stereotipate e sconclusionate o se se ne siano resi conto e abbiano fatto finta di niente per la vergogna. Nel frattempo, mentre discutevano, mi è venuta la tentazione di lasciarli soli a scannarsi per fare una sveltina nella cabina telefonica o in camera, ma quando ho provato a stuzzicare Greta tramite i messaggi sul cellulare lei ha scosso la testa con uno sguardo di rimprovero.
Per quanto stupida, era una cosa importante.
Ma per me di importante, in questi giorni, c’è solo la schiena di Greta. Mi manca guardarci allo specchio del bagno, mentre la abbraccio da dietro, e la bacio sul collo, le scosto i capelli, le dico di gemere piano perché potrebbero sentirci. Sento la mancanza del brivido di essere colti in flagrante. Che poi, un giorno dovrà spiegarmelo, perché diamine dobbiamo nasconderci. Non c’è niente di male a farsi compagnia, no?
Giovedì sera Greta ordina volentieri la pizza d’asporto. Si siede sulla poltrona, stende le gambe sul pouf e scruta lo stesso menù che la vedo sfogliare da quando si è trasferita qui. Ogni giovedì lo legge e rilegge per cinque, dieci minuti, ma tanto lo so (e forse lo sa anche lei) che tanto ordinerà la solita salsiccia e funghi. Mentre legge il menù plastificato, si arriccia un ciuffo con il dito. Dalla cucina si respira il profumo di verdure al vapore di Rosanna. Francesco è il primo a sedersi a tavola. Gli piace essere il primo a finire di mangiare, così può lavare i piatti in completa libertà e canticchiare i successi pop con le cuffie nelle orecchie. È abbastanza usuale sentire gli acuti un po’ stonati di Francesco e la voce del conduttore del telegiornale. E devo dire che le notizie, anche le più tristi, sembrano più tollerabili con le sue note di sottofondo.
«Sì, salve. Potrei ordinare una pizza? Sì, a casa. Una salsiccia e funghi, grazie. Via…
«Potresti prendere anche una con salame piccante?»
Annuisce.
«E una salame piccante.»
Quando stacca, mi rivolge lo sguardo.
«È la prima volta in due anni che ordini la pizza. Devo segnare la data sul calendario?»
«Ne avevo voglia.»
Poi mi avvicino, le sussurro all’orecchio che ho voglia di lei. Greta mi dà uno schiaffo che sembra più una carezza. Mi guarda come a darmi del mascalzone.
«Ragazzi», dico affinché tutti possano sentirmi, «io vado in bagno.»
Una delle regole, la prima della lista, è avvertire tutti i presenti che il bagno è occupato. La seconda è dare la precedenza a chi ha urgenza, la terza è riprodurre una canzone durante i bisogni o alzare il volume del televisore per coprire i rumori.
Dalla cucina arriva un okay in coro. Greta non risponde, rivolge l’attenzione a un quiz televisivo sul primo canale. Azzarda una risposta al posto del concorrente. Mi avvio verso il bagno con due dita che pizzicano le mutande. Faccio partire Goodbye di Feder su Spotify. Alzo il volume. Greta drizza le orecchie e si volta verso di me, seguendo il mio fondoschiena mentre si procede verso il bagno.
Quello che è accaduto nei quindici minuti successivi lo ricordo con una punta di assurdità. Ho calato i pantaloni fino alle caviglie. Mentre le note di Feder riempivano la stanza, ho sentito distintamente le posate che sbattevano sulla tavola. Poi, senza bussare sullo stipite, Greta ha fatto il suo ingresso in bagno. Mi ha sorpreso con l’intimo in mano. Ha premuto l’interruttore della luce e acceso la torcia del cellulare, lo ha appoggiato sul lavandino e rivolto la torcia verso l’alto affinché illuminasse appena la stanza. Mi guarda mentre finisco di pisciare. Lo sguardo languido scivola sulle pareti, sulle ombre che le nostre sagome proiettano. Deve averci visto qualcosa di erotico, perché si è avvicinata con passo lento ma denso di un desiderio sconosciuto. Aveva sempre lasciato a me la prima mossa, e questo la elettrizzava. Invece adesso ha lasciato che finissi, poi mi ha mormorato di pulirmi. Si abbassa i pantaloni. È senza intimo. Il riflesso della pelle nuda mi agita. Le passo una mano tra le cosce, sento che è bagnata. Non riesco a realizzare con lucidità quello che sta succedendo, come se i miei sensi fossero ovattati. Lei si siede sul lavandino, struscia le gambe l’una contro l’altra. Cerca i miei occhi, ondeggia come un invito a una danza.
«Ma che fai?», le chiedo.
«Non hai detto che avevi voglia di me?»
«Sì, ma non hai paura che ci scoprano?». E per tutta risposta, mi bacia.
«Hai qualche minuto prima che arrivino le pizze.»
Lo facciamo piano, per non farci sentire. Ogni suo respiro è il mio. Ogni mio respiro è il suo. Ossigeno e saliva. Lo specchio riflette i suoi capelli lunghi, le sue spalle scoperte. Le note di Goodbye coprono i suoi gemiti, ma qualcosa attira la mia attenzione. Non mi sento sicuro, lei se ne accorge. Sento il rumore di qualcosa che cade sul pavimento. Non è metallico, no. Somiglia di più a un suono di plastica, come una bacinella.
«Che fai, non fermarti.»
Avverto un silenzio preoccupante. Poi sentiamo bussare sullo stipite legnoso della porta.
«Emilio, hai finito di…?»
Francesco deve essersi insospettito, perché ha oltrepassato la soglia e ha rivolto gli occhi verso di noi. Con una mano ha continuato a tenere il secchio, ma l’altra ha lasciato la presa del manico del mocio. Ora la usa per pararsi gli occhi.
«Ragazzi, scusate, scusate. Passo a pulire dopo.»
Prova a fare retromarcia, ma nel tentativo urta lo stipite e bestemmia. Cerco di fermare Francesco, che ormai è diretto verso il corridoio. Sento il rumore di posate che sbattono, le pantofole di Rosanna che strisciano fino al bagno.
«Si può sapere che succede?», chiede stizzita.
Nel frattempo io e Greta ci siamo rivestiti. Malgrado la sorpresa poco gradita, mantengo un’erezione inattesa. E inappropriata, direi. Greta si sistema i capelli come può, poi parte all’inseguimento.
«Emilio e Greta stavano…»
«Che cosa?»
«Fra’, aspetta, non è come sembra», salta su Greta.
«No, infatti», aggiungo inutilmente.
«Io volevo solo lavare il bagno, così Rosanna è contenta.»
«Alle otto di sera?», domanda lei.
«Domani mattina non posso. Vuoi anche dirmi quando pulirlo?»
«No, era per dire.»
«Scusate», Francesco ritorna a parlare con noi, «ma se state insieme perché non l’avete detto?»
Drin.
Greta è ammutolita, in un grave imbarazzo. Mi defilo con un certo impaccio per rispondere al citofono.
«Chi è?»le pizze. «Secondo piano.»
«Avete due camere, con dei letti comodi, potete usarli. Lo sapete?», riprende Francesco.
Pago le pizze al ragazzo, un tipo sveglio alto e ossuto con il casco ancora indosso e un paio di guanti di lana grossi quanto lui. Poi dico di parlarne a tavola. Greta mi guarda storto.
La adoro quando ce l’ha con me, anche se non capisco il motivo.
Abbiamo eluso il discorso e mangiato la pizza in silenzio. Francesco e Rosanna ci hanno fissato a lungo dal divano, in attesa di una confessione. Francesco ha tentato di estorcere qualcosa dai miei occhi, come una spiegazione tacita, ma io mi sono divincolato. Ho guardato il quiz in tivù facendo finta di ascoltare con interesse il telegiornale finché non ho addentato l’ultima fetta di pizza. Greta ha fatto lo stesso. Poi Francesco è andato a passare il mocio in bagno. Rosanna si è alzata e se n’è andata in camera dicendo buonanotte a tutti. Si è affacciata al bagno e si è lasciata sfuggire un grazie forzato a Francesco. Ho piegato a metà i cartoni di pizza oleosi, con pezzi mollicci di mozzarella e salsa che li inumidivano. Li ho gettati nei bidoni sul balcone e sono tornato in salotto.
«Si può sapere perché non vuoi dire agli altri che stiamo insieme?»
«Non lo so.»
Vedo una serie di risposte nel suo sguardo vacuo che fissa una crosta di pizza sfuggita. Lei la raccoglie in un tovagliolo.
«Perché noi non stiamo insieme, come dire, ufficialmente, da “innamorati”?»
Greta scuote la testa.
«Ti dà fastidio il fatto che possano giudicarti?»
«No, non lo so.»
«Allora cosa?»
Lei si sposta sulla poltrona. Si accartoccia su se stessa, le ginocchia davanti al viso, chiuse tra le braccia. Abbasso il volume a zero. Mi avvicino tanto da vedere il respiro che sposta i peli biondi sugli avambracci. Lei continua a tenere gli occhi sulla tivù.
«Tu mi piaci, Greta. Io ti piaccio?».
Qualcosa vibra nella sua tasca. Non mi risponde, sfila il telefono dalla tasca. Il cuore mi risale dal petto e si tuffa da qualche parte dentro di me. Legge un messaggio. Poi mi mostra lo schermo: Ciao collega, come stai? Scusa se ti disturbo di sera, volevo solo dirti che stiamo rientrando in anticipo. Dodi, il più grande, si è rotto il braccio sciando. Qualcuno vi ha sistemato la porta del bagno? Se no, io torno in serata, quindi domani mattina posso venire a trovarti. Mi manca il nostro gossip da ufficio. Com’è andata a finire con il tuo coinquilino, come si chiamava, Emilio? Glielo hai detto che lo ami? Fammi sapere per domani, ciao!
Immagine generata con DALL-E
“broken door resting diagonally on the wall, from inside a light comes out, realist painting“