Il fondo della pentola

Si chiama San Rao e la città più vicina è Regenza, grossomodo a un’ora di macchina sia che si prenda la strada che passa per la montagna sia che si scenda subito a Galeri e poi si vada per la valle costeggiando la Tarra fino all’imbocco della pianura, e l’equivalenza di questa duplice possibilità segna come uno spartiacque ideale tra gli abitanti di San Rao, che non si chiamano sanraoesi ma evarigiani, nel senso che c’è chi sente più naturale la strada della montagna e allora chi non ha la macchina prenderà la corriera, e chi la strada della valle e allora scenderà a Galeri e da lì il treno.

Piantato in cima alle prime alture che si alzano sulla valle, San Rao è il punto ideale per dominarne un buon tratto sia verso la pianura che verso la montagna, e infatti nasce dalla rocca altomedioevale di Evaridium, e il nome di questa nasce a sua volta dal nome antico del torrente, che non è Tarra ma Evars, e per questo gli abitanti di San Rao si chiamano evarigiani e non sanraoesi, così come gli abitanti di Ivrea si chiamano eporediesi perché il nome romano della cittadina era Eporedia, e di questa particolarità simile a quella di Ivrea gli evarigiani sono orgogliosi e le maestre in pensione la tramandano a ogni ragazzo che incontrano.

Il nome attuale risale alla seconda metà del XIV secolo e ha origine nella leggenda di Rao da Spoleto che dopo aver letto la Legenda Maior scelse di seguire l’esempio di Francesco d’Assisi e intraprese un cammino penitenziale lungo la dorsale appenninica per fermarsi sulle montagne regenzine e costruire di propria mano una chiesetta non lontano dal villaggio che lo elesse patrono subito dopo la canonizzazione, sancita in virtù dei miracoli compiuti negli anni della Peste Nera durante la quale Rao da Spoleto avrebbe guarito gli appestati baciandone i bubboni, e proprio a San Rao e alle sue facoltà taumaturgiche sembra riferirsi quel sonetto del Petrarca che inizia con «Il santo saio e ‘l benedetto gesto» e che si stima composto intorno al 1354-1355 ma senz’altro ispirato da un incontro, attestato nelle fonti, tra l’anacoreta e il poeta durante l’estate del 1349. 

A partire dalle modeste proporzioni delle origini il borgo si è a mano a mano ingrandito fino a raggiungere le dimensioni odierne che ne fanno l’ultima realtà della provincia per cui si possa ancora parlare di paese prima degli sparuti agglomerati di case della montagna,

sebbene conti di fatto un’unica strada cioè la strada che all’uscita del paese si biforca da un lato verso la valle in direzione di Galeri, prendendo appunto il nome di Strada Galeri, e dall’altra attraverso la montagna verso Regenza, prendendo il nome di Strada Regenza. Prima della biforcazioni, ossia nel suo ruolo di via principale, mantiene invece il nome curioso di via Giammaestri, nome che ha ingannato generazioni di abitanti incerti sull’identità di questo signor Giammaestri ma non Eugenio Tarabelloni, impiegato comunale e storico dilettante, che intorno agli anni ’30 si faceva chiudere nel municipio per la notte così da potersi dedicare con agio alle ricerche d’archivio grazie al riscaldamento offerto dalle autorità comunali, e nel corso di quelle scoprì che il nome di via Giammaestri proviene appunto da via Già Maestra, ossia dal nome della via che già quindici secoli prima era la strada non solo principale ma anche unica. 

 Se si procede lungo Via Giammaestri in direzione opposta al bivio e dunque si sale verso la montagna, si incrocia un piccolo isolato residenziale in cui spicca l’asilo comunale Edmondo De Amicis ovvero una delle due scuole materne che accolgono i bambini della montagna e si incaricano dei loro primi passi sulla via della convivenza civile, mentre l’altra è la Scuola Dell’Infanzia Paritaria Mamma Chiara che ricorda nel nome Chiara Animini in Cantoni, moglie di Adelmo Cantoni e assieme a questo benefattrice della parrocchia di San Rao, e infatti la scuola è di proprietà della parrocchia e da questa gestita.

Ci sono molti motivi per scegliere la Scuola Materna Dell’Infanzia Paritaria Mamma Chiara e il primo è che al suo interno non solo ci si prende cura dei primi passi sulla via della convivenza civile ma si impartiscono anche i rudimenti delle più decenti virtù morali e tra queste spicca senz’altro la castità, alla quale l’uomo non è mai avviato troppo presto. Ma c’è anche un’altra ragione per scegliere la Scuola Materna Dell’Infanzia Paritaria Mamma Chiara e cioè il suo legame con la comunità parrocchiale di San Rao, dal momento che a queste altitudini nessuna istituzione o ente o società o circolo è tanto cruciale quanto la parrocchia.

È noto che a partire dal Concilio Vaticano II la Chiesa Cattolica ha intrapreso un ripensamento delle forme e dei modi nei quali deve esplicarsi l’esperienza di fede, e che il frutto di tanto lavoro intellettuale è stata la formula dell’oratorio, e che sono stati organizzati oratori in ogni abitato, ma se in molti casi tale organizzazione si è risolta nella creazione di strutture funzionali come servizi e attività e eventi e ritrovi e eccetera, e ci si è limitati al reimpiego delle strutture materiali esistenti, come vecchie canoniche o seminari in disuso o proprietà vescovili, in altri si è arrivati all’edificazione ex nihilo di quartieri in duro cemento e questo è stato il caso di San Rao, dove la comunità parrocchiale, partita dal cortile del prete, inaugurava prima ancora del nuovo millennio un edificio completo di campo da basket, campo da calcetto, bar, cinema, sala giochi, villaggio degli indiani e recinto delle caprette, intitolandolo con spirito profetico a Jorge Maria Bergoglio, che Don Dorino aveva avuto occasione di conoscere e apprezzare durante un soggiorno in Argentina, e che posò personalmente la prima pietra.

Posata quella le altre vennero in fretta e così la gioventù evarigiana ebbe presto un rifugio contro le tentazioni di un ritorno a una certa brutalità pagana, senza che d’altronde le venisse chiesto il sacrificio della propria esuberanza, che non era infatti necessario inibire, bastava reindirizzarla, dal momento che, come si dice sempre all’oratorio Jorge Maria Bergoglio, la santità consiste nello stare allegri, e c’è solo da intendersi su cosa significhi stare allegri. 

Tolto l’oratorio non ci sono a San Rao molti spazi dedicati alla gioventù, e questo rende ancora più chiara la necessità storica della parrocchia, all’infuori della quale non restano ai giovani che le perniciose compagnie del muretto, che come noto rovinano i giovani, sebbene ci sia anche il Circolo A.R.C.I., che però resta una possibilità inespressa dal momento che passata la Bolognina il Partito Comunista locale si è ridimensionato molto e ha preferito demandare quasi tutte le competenze alla sede di Regenza e liquidare la Casa Del Popolo, di modo che le attività hanno dovuto traslocare negli spazi della cooperativa, ma siccome questa si trova fuori dall’abitato e già piuttosto verso la montagna il Circolo A.R.C.I. non ha mai preso piede e oggi si può considerare in disarmo, fatta eccezione per i tre giorni della sagra della castagna a fine ottobre.

Fortunatamente di fianco alla cooperativa ha aperto circa dieci anni fa la nuova piscina comunale, sorta sulle ceneri della vecchia piscina comunale cioè dell’unica piscina di tutta la montagna, e di conseguenza da una decina d’anni la gioventù evarigiana ha a disposizione questo svago, per quanto si tratti di uno svago senza alcun perimetro morale e perciò lo si possa considerare un altro ritrovo delle compagnie del muretto, così come si può considerare un altro ritrovo delle compagnie del muretto la bottega del barbiere napoletano di recente apertura, luogo in realtà molto più pericoloso di qualsiasi piscina o muretto e per questo dapprima mal visto dagli indigeni e specialmente dagli anziani, ma siccome la bottega del barbiere napoletano è un luogo di ritrovo in cui si parla e ci si insulta e si urla e che resta aperto anche quando il barbiere napoletano dice in napoletano che va a prendersi un caffè nel caffè di fronte e a fare un partitina a flipper e di fare a modo mentre non c’è che sennò quando torna si incazza, gli indigeni anziani hanno iniziato a dire che è proprio come il barbiere di una volta, e siccome non si azzardano a andare di persona in mezzo a tutta quella gioventù oggettivamente bestiale hanno iniziato a esortare i nipoti a andarci loro, per dirgli com’è, se è proprio come il barbiere di una volta. Tuttavia sia la piscina che la bottega del barbiere napoletano restano surrogati inadeguati perché da un lato si può usufruire della piscina appena tre mesi all’anno e dall’altro la bottega del barbiere napoletano è un ambiente molto di nicchia.

È quindi l’originaria rocca altomedioevale e in particolare il monumento del Gigante Atterrato, che simboleggia la vittoria sul nazi-fascismo, a essere il vero punto di ritrovo dei giovani durante sere in cui non si sa bene cosa fare ma si è giovani e quindi troppo giovani per ammettere che si è già al fondo della pentola, e quindi è molto meglio ritrovarsi in rocca, seduti sul monumento del Gigante Atterrato, di fianco al muro del municipio su cui qualche burlone ha scritto a bomboletta VOLTAIRE SI È FERMATO A MILANO. 

Grossomodo detto questo detto tutto perché su San Rao non c’è molto altro da dire, se non che il paese è perfettamente tagliato in due da via Giammaestri, e se proprio proprio, come ultima cosa si può dire che, per come è messa, questa strada ti inganna, perché se ti giri verso la parte che sale alla montagna vedi le rocce e i boschi e pensi a cose vaghe eppure abbastanza vigorose da sorreggere tutta una vita ma poi alla prova dei fatti non è chiaro in che modo, mentre se guardi dall’altra parte ossia dalla parte che va verso il bivio e Regenza e poi da lì volendo anche oltre non vedi niente perché subito dopo la scuola elementare la strada fa una curva e sembra che vada a incistarsi ancora di più nel paese.

Immagine generata con DALL-E
“deserted street of a mountain village in central Italy with a forest in the distance, impressionist painting”