Diorama

La luce alle spalle dei palazzi nobiliari offriva allo sguardo stanco dei passanti un cielo porpora, carico di aspettative. Agli inizi del Novecento, il fisico britannico John W. Strutt svelò al mondo che il tramonto è soltanto un processo di interazione delle radiazioni solari con le molecole d’aria. Una successione di fenomeni naturali che illudono l’uomo, rendendolo indifeso dinanzi al crepuscolo. La persona, attratta dalla profondità del rosso, finisce per subirne la seduzione, l’immedesimazione, l’estasi.

Ogni giorno a fine novembre, poco prima delle diciassette, i lampioni di Corso Venezia si accendono simultaneamente. Thomas Contini, seduto sugli ultimi scalini all’ingresso del Museo di Storia Naturale, pareva non averci fatto caso. Fissava un punto impreciso tra la ghiaia consumata. Quel terreno durante l’attesa aveva assunto un aspetto fastidioso. Raccolto un piccolo sasso da terra, restò fermo qualche istante, poi lo lanciò nel vuoto.
I diorami partiti dal Museo Civico di Torino nel primo pomeriggio sarebbero dovuti arrivare a Milano intorno alle sedici ma, all’altezza di Novara, un tamponamento a catena aveva bloccato il traffico dell’autostrada per più di un’ora. Thomas collaborava con il direttore del museo e l’assessore alla cultura della città per l’installazione di una nuova opera nell’esposizione permanente milanese. Un lavoro di cui non si lamentava, nonostante l’espressione infelice che molti gli rimproveravano nell’ultimo periodo.
«Il camion è in città», disse il direttore, affacciandosi dall’entrata, «sarà qui a momenti: conviene prepararsi». Thomas si alzò e diede indicazione di spalancare il cancello; pochi minuti dopo, un tir fece il suo ingresso. Due operai saltarono sul retro del mezzo e liberarono le cinghie a cricchetto che ancoravano gli imballaggi, cominciando così i lavori per scaricare le ingombranti casse di legno.
Un diorama è il frutto della fusione tra scienza e arte; la sua realizzazione un lungo intervento che coinvolge i migliori artigiani. Questo aveva imparato col tempo.
«È troppo buio!», il caposquadra aveva un forte accento piemontese. «Ci vuole luce, qui; se no, rischiamo di spaccare tutto!»
Thomas domandò al personale museale di recuperare un paio di riflettori e li fece piazzare agli angoli, in testa alla scalinata. Parve subito a tutti di stare su un set cinematografico e la situazione attirò diversi curiosi.
Chi si affacciava da fuori, sul marciapiede; chi, attraversando i giardini pubblici, si fermava a osservare la scena. Di lì a poco, si formò una piccola folla. Qualcuno domandò se stessero girando una pubblicità.
«Trasferire queste opere è un lavoro complesso», disse il direttore, avvicinandosi a Thomas. «Si tratta di oggetti di enorme valore, spesso fragili o di grandi dimensioni…», proseguì scoraggiato, «e questo è proprio quello che volevo evitare!», concluse, guardando quella gente. Thomas si limitò ad ascoltarlo in silenzio; nessuno sembrava intralciare le attività.
Tra i curiosi un uomo con un berretto di lana in testa teneva il braccio alzato per farsi notare. Thomas si avvicinò per capire chi fosse. Lo riconobbe solo una volta che si tolse il cappello. Era Davide, un vecchio amico e compagno di università. Indossava una tuta da running gialla e blu.
«Che fai da queste parti?», domandò Thomas, porgendogli la mano.
«Abito in zona e quando posso mi concedo una corsetta; capita di tagliare per i giardini… di che si tratta? Pubblicità?»
Thomas si mise a ridere e gli raccontò dei lavori per l’allestimento del diorama.
Il breve scambio di battute sulle loro vite finì ben presto in banali frasi di circostanza. 
«Guarda!», disse Davide, tirando fuori dalla felpa il suo smartphone.
Mostrò una foto di lui e la moglie Veronica, anch’essa vecchia compagna di università, in un villaggio turistico sul Mar Rosso.
«Qui eravamo a Sharm El-Sheikh», disse.
Veronica era ingrassata. Davide, sorridente al suo fianco, aveva perso tutti i capelli. Non sembrava nemmeno lui, gli somigliava soltanto.
Thomas estrasse il telefono e fece vedere un’immagine della sua famiglia. Si trovavano sulle Dolomiti per la settimana bianca.
«Ah…», fece Davide, «hai una moglie bellissima, e questi sono i bambini?».
«Sì, Filippo e Sara, la piccola», rispose Thomas, indicandoli sul display.
«Sembrate molto felici», disse Davide con un largo sorriso.
I due si scambiarono i numeri di telefono e Davide colse l’occasione per invitare l’amico a un aperitivo organizzato per il giorno seguente. Avrebbero potuto rispolverare qualche vecchio ricordo, disse.
Thomas lo ringraziò, declinando l’invito a causa della mole di lavoro da svolgere.
«Dimenticavo! Linda è in città; potrebbe esserci anche lei, domani», concluse Davide, mentre si salutavano con un abbraccio. Poi, cappello in testa, riprese la sua corsa.
Thomas non vedeva Linda da oltre vent’anni e, ripensando a lei, un brivido gli salì lungo la schiena.

**

Spinti da una sete implacabile, gli animali si radunano intorno a una sorgente. La savana è l’habitat di una grande quantità di erbivori: gnu, zebre, antilopi, giraffe, rinoceronti ed elefanti, che durante la stagione secca migrano per centinaia di chilometri alla ricerca di zone più umide. Ma in questa arena selvaggia i leoni sono in agguato…

«Filippo, abbassa il volume della tv!», gridò Sonia, senza ottenere risposta. «Filippo!», insistette.
Il bambino sbuffando si alzò dal divano e spense il televisore. Si buttò sul tappeto del soggiorno insieme alla sorella più piccola, intenta a pettinare una Barbie parlandole sottovoce. Rovesciò lo scatolone con tutti i giocattoli e restò fermo a guardarli.
«La mamma si arrabbia», disse la bambina.
«Sta’ zitta, tu!», sbottò il ragazzino.
Sonia era chiusa in bagno. Cercava nell’armadietto dei medicinali la boccetta di Seropram.
I grandi occhi marroni dallo specchio la fissavano. Sistemò una leggera sbavatura della matita. Il trucco doveva essere impeccabile. Sempre. Soltanto così tutta l’insicurezza spariva. Nei suoi quarantadue anni, Sonia era per tutti una donna bellissima, meno che per sé stessa.
Il flaconcino era finito dietro il disinfettante. La prima volta che il dottor Mornata le aveva prescritto il Seropram, era stata sua madre a costringerla ad assumerlo. Mancava poco alla maggiore età e si era procurata profondi tagli sui polsi con delle forbici da cucina, segni che ora nascondeva riempiendosi di bracciali.
Il periodo dell’adolescenza, insieme a quello dopo la prima gravidanza, era stato il più terribile. Mesi pieni di ansiolitici, antidepressivi, tranquillanti… Su un giornale aveva letto che sono più di cinque milioni gli italiani che ne fanno uso ogni giorno, e di questi, tre sono donne. Aprì la boccetta e ingoiò due compresse.

Nelle prime righe il libretto illustrativo riportava: Seropram agisce rasserenando l’umore.

Thomas parcheggiò l’Audi appena dietro casa, lungo il naviglio della Martesana, e acquistò del cibo cinese in una nota rosticceria della zona. Sonia lo adorava. Quando, al telefono, glielo aveva proposto per cena, continuava a ridere. Era abituato agli sbalzi di umore della moglie dovuti agli antidepressivi; a seconda dell’intonazione della sua voce, poteva capire quante pastiglie aveva preso. Quella sera, rincasava tranquillo.
Rientrando, i pensieri lo portarono più volte a Linda. A quando, senza un apparente motivo, lo aveva lasciato sulla soglia di casa, minacciando di andarsene da Milano. Lui non le aveva creduto, negli ultimi tempi era solita far scenate, ma dopo quel giorno non l’aveva più rivista.
Le nuvole di drago avevano una consistenza molliccia e gli involtini primavera grondavano olio. Mangiarono in silenzio mentre su Rai2 passavano dei vecchi cartoni animati di Wile E. Coyote. Sara e Filippo risero tutto il tempo perché Thomas non riusciva a prendere gli spaghetti con le bacchette di legno.
Dopo il telegiornale, i bambini andarono a dormire e Sonia entrò in bagno per cambiarsi. Ne uscì struccata, con addosso un reggiseno di pizzo nero. Non indossava le mutandine. Thomas la osservava dal divano. Legandosi i lunghi capelli biondo tinto, s’infilò in camera da letto, lasciando la porta accostata.
A Sonia piaceva il bagliore soffuso delle candele: diceva che la rassicuravano. Ne aveva riempito la stanza. Ce n’erano di coniche, sferiche, profumate.

Con la luce che in una riproduzione sproporzionata ne rifletteva l’ombra sulla parete, Thomas si avvicinò alla moglie distesa sul letto e prese a solleticarle la pianta dei piedi. Non erano molto curati; snelli, sì, armoniosi, ma con le unghie laccate di rosso che perdevano lo smalto e qualche callo sulle dita per colpa delle strette scarpe col tacco. Sonia non si mosse. Thomas le passò una mano fin su. Le ginocchia, le cosce. Quando le arrivò tra le gambe, lagnosa si girò dall’altra parte. Si era addormentata. Liberò i piccoli seni dal reggiseno e le mise la parte sopra del pigiama. In un gesto quasi paterno le carezzò la testa, poi tornò in soggiorno e si versò un dito di brandy.
Spesso la sera si concedeva un liquore accompagnato dal fumo di una sigaretta. Un momento di abbandono che in qualche modo lo confortava. Di spalle alla finestra, guardava tutto attorno. Quello era il suo mondo. Definito e sicuro. La sua casa. La sua famiglia. Lì per la prima volta, anni addietro, si era sentito schiacciato dal peso della stabilità.
I bambini avevano lasciato i giochi sparsi per la stanza. Bambole, pennarelli colorati, piccole stoviglie di plastica, macchinine di ogni dimensione. Una pistola laser, di quelle che quando spari diffondono suoni irritanti. Nascosto in un angolo, c’era lo scatolone di Filippo e, prima di andare a dormire, Thomas decise di dare una sistemata. Per farci stare tutta quella roba doveva svuotare l’enorme contenitore di plastica marchiato Ikea. Andavano rivisti gli spazi. Riorganizzati i posti.
Si trovò in mano una palla da rugby. Ai tempi dell’università, lui e Davide ne possedevano una uguale, vinta per caso alle giostre sul lungomare di Cesenatico. La soppesò sul palmo, mimando poi il gesto di un lancio a fondo. Braccio e piede sinistri avanti, schiena dritta, presa stretta. Con la coda dell’occhio si vide riflesso nell’anta della vetrinetta dove Sonia conservava il servizio di tazze da tè. Sembrava uno di quegli animali impagliati che stavano installando al museo: morto a metà.

***

L’aperitivo era stato fissato per le diciannove in uno dei locali che stanno sotto il Palazzo della Regione Lombardia. Sonia fu avvisata tramite whatsapp: siamo in ritardo sui lavori. Non torno per cena. Davide, Veronica e Linda lo attendevano a un tavolino appartato.

Una profonda amicizia legava le due donne fin dall’adolescenza ed, esclusi i genitori, Veronica era l’unica persona che Linda tornava a trovare un paio di volte l’anno. Da tempo si era trasferita in Toscana, dove conduceva una vita monotona e solitaria, che in qualche modo era riuscita a farle dimenticare Milano. Ad Arezzo si occupava di risorse umane. Era HR manager per una multinazionale del settore alimentare e ora si trovava in città per un corso di aggiornamento.
Thomas conosceva la facilità con cui si poteva cedere alla malinconia incontrando dopo tutti quegli anni una persona amata; così preferì concentrarsi sulle gambe ancora sode di Linda. La sua bellezza aveva resistito al tempo. Il viso sottile, contornato da voluminosi capelli castani, aveva soltanto un velo di trucco. Del rossetto tenue sulle labbra, della matita leggera sugli occhi. Essi custodivano mille gradazioni di verde che lui cercò di evitare il più a lungo possibile. Almeno fino al secondo giro di cocktail. L’assunzione di alcol può essere un rinforzo positivo per lo spirito. Gli effetti sull’umore di Thomas furono rapidi e gli donarono un senso di sicurezza
«Dove alloggi?»
«In un hotel in zona Portello», rispose Linda.
Thomas annuì, tirando un sorso di Caipiroska dalla cannuccia; poi prese una sigaretta e porse il pacchetto a Linda.
«No, grazie… ho smesso».
Thomas le sorrise e lei sembrò arrossire leggermente.

Un cambio di vita implica l’annullamento delle proprie peculiarità. Linda, studentessa ribelle votata alle più radicali cause anticapitalistiche, ora usava termini come strategic planning, vestiva Dolce&Gabbana e votava, annoiata, Lega.
Con mille aneddoti sul periodo universitario, Davide e la moglie condussero la serata. Compiaciuti nella loro intesa di sguardi, ridevano fino alle lacrime. Collegandosi a Facebook con un iPad, tirarono fuori immagini di vent’anni prima. Foto di viaggi, serate, feste… come a ricordarti che avevi avuto anche tu una vita.
Le risate di Veronica erano stridule, fastidiose. Mentre parlava, s’ingozzava di tartine dell’happy hour.
Gradualmente la nebbia coprì le strade, tacendo il viavai serale di chi cercava futili piaceri negli affollati locali in Corso Como o sfuggiva alla noia appartandosi con qualche transessuale di Melchiorre Gioia.
Da quando aveva scelto di andarsene da Milano, raramente Linda era tornata in città d’autunno.
Odiava farlo. Odiava il ricordo del pomeriggio di fine novembre millenovecentonovantatre, quando, scesa dal tram che la portava dritta nella clinica privata consigliatale da un’amica, dal cielo offuscato aveva cominciato a nevicare. Il freddo le pungeva il viso. Aveva paura. Infilato nella tasca del cappotto il volantino logoro che le avevano dato al consultorio due settimane prima e preso un fiocco in mano, si era accorta che non si trattava di neve, bensì di cenere. La cenere di un piccolo fuoco che qualcuno aveva acceso nel giardino confinante con l’ospedale e il vento spingeva piano verso di lei.

Thomas non venne mai a sapere della gravidanza, ma Linda dopo quel giorno non fu più la stessa.
I quattro alzarono i bicchieri e assaporarono il terzo drink.
Sotto il tavolo, quelli che dapprima potevano sembrare gesti inconsapevoli diventarono segni d’intesa. Linda teneva il piede premuto contro la gamba di Thomas e, disinibita dall’alcol, lo muoveva lentamente su e giù.
Quando intorno alle ventidue Veronica, visibilmente ubriaca, fu colpita da un tremendo mal di testa e chiese al marito di rientrare a casa, Linda prese lo smartphone dalla borsetta leopardata, intenzionata a prenotare un taxi, ma poi accettò volentieri la proposta di farsi riaccompagnare in hotel da Thomas.
Fuori dal finestrino, le facce dei passanti erano tutte uguali. L’insegna sul palazzo Unicredit era tornata visibile; la nebbia si era come dissolta.

****

Ci vollero un paio di tentativi prima che, inserita nel verso giusto, la tessera magnetica gli permettesse di entrare. Impossibile, una volta dentro, mirare la fessura che avrebbe illuminato la camera.
Nella penombra, Linda si aggrappò a Thomas e lentamente iniziò a leccargli il lobo dell’orecchio. La sua lingua era calda e bagnata.
«Linda…», sussurrò lui, cercando di dissuaderla. Ma fu inutile. Cedendo ai fumi dell’alcol, la spinse contro la parete, baciandola intensamente. Le mani impazienti s’infilarono ovunque e la testa di lei ben presto cominciò a muoversi svelta tra le sue gambe. Thomas sentiva le unghie di Linda nella carne. Come animali, finirono riversi sul pavimento gelato del bagno. Nel buio, le tolse collant e mutandine. Aggrappata al lavandino, Linda sentiva la pancia di lui premerle contro la schiena.

Con un rumore artificiale la stanza s’illuminò. Thomas, rialzatosi, era riuscito a inserire la tessera nella fessura. Diede uno sguardo a Linda che si riparava dalla luce, tenendo un braccio sul viso. Si mise i pantaloni e silenziosamente uscì sul terrazzo a fumare una sigaretta.
L’hotel si trovava in un quartiere sfigurato, nei pressi della vecchia fiera. Tutto quel vetro dei palazzi rendeva l’atmosfera gelida e silenziosa. Surreale. Guardare Milano dall’alto minimizzava l’importanza di ogni destino individuale, e Thomas pensò che forse la stabilità poteva davvero essere l’unica cosa che gli restava.
Sdraiata seminuda sul pavimento del bagno, Linda fissava il soffitto. Un leggero spiffero d’aria le arrivò sui piedi, procurando un brivido. Con il passare degli anni, il sesso era finito per risultarle superfluo, così come gli uomini che aveva deciso di escludere dalla propria esistenza. Ciò nonostante – per soddisfare quei bisogni propri dell’essere animale – si concedeva saltuariamente a qualche sconosciuto incontrato in un locale o in palestra. Quest’ultima con Thomas era stata a tutti gli effetti un’eccezione. L’unica che includesse qualcosa di più del solo appagamento fisico.
Aggrappandosi di scatto al water, vomitò quello che restava dell’aperitivo.

La portafinestra si chiuse con un gran colpo. Linda si era spostata sul letto. Indossava la giacca di Thomas.
«Quando riparti?», domandò lui, sdraiandosi.
«Domani, dopo pranzo».

Thomas le poggiò la testa in grembo e lei prese a carezzargli i folti capelli brizzolati.

*****

«Oggi è uno dei giorni più importanti per questo Museo, spesso negli ultimi anni quasi dimenticato. Ho voluto fortemente la realizzazione di quest’opera che, nonostante le ovvie difficoltà, siamo riusciti ad allestire per tempo. L’aiuto fattivo e l’impegno del comitato promotore, e tutti i collaboratori…», il sindaco prese a scandire i nomi lentamente, cercando con gli occhi le persone tra i presenti. Quando pronunciò quello di Thomas, Sonia guardò il marito, sorridendo. Sapeva alternare il completo rifiuto per ogni forma di tenerezza alla dolcezza più autentica verso i propri cari.
Terminato il discorso, fu calato il telo amaranto che nascondeva il diorama.
Siamo al tramonto e, in uno spazio aperto della savana tanzanese, un leone scruta l’orizzonte con sguardo distaccato. È in primo piano. Tra le zampe tiene la piccola carcassa di un animale di cui non si capisce la razza. Una gazzella forse, o un grosso roditore…

Avvicinandosi la sera, i colori sono caldi. Sfumature di rosso e arancio, marrone e ocra dominano la scena. Le nuvole piatte e stratiformi riempiono il cielo. Una leonessa dormiente sta alle spalle del maschio.

Accanto a lei, due cuccioli giocano, avvinghiandosi l’uno sull’altro. La vegetazione è limitata a dell’erba secca, qualche arbusto e un grande albero di acacia. Sopra un ramo, un leopardo, nel pieno del suo splendore, osserva il leone, tenendo la coda a penzoloni. Furtive, dietro un cespuglio, due iene curano la zona, bramose di quello che resterà della carogna.
«Ma di chi sono questi-bei-bambini?», pronunciò una voce roca.
L’anziana moglie del direttore era abbigliata in modo eccessivo. Collane e orecchini sferragliavano mentre agitava le grosse mani. Sara si nascose dietro la gamba della madre; Filippo abbassò lo sguardo.
«Che belli… e tu, Sonia, Dio!, sembri una ragazzina!» continuò.
«E finiscila! Così li metti in imbarazzo!», la rimproverò il direttore stretto nel doppiopetto, quando si avvicinò per porgerle un bicchiere di spumante. All’ingresso era stato allestito un piccolo buffet, subito preso d’assalto dai visitatori.
«Figurati… non ti sarai mica imbarazzato Thomas?», domandò la donna.
Sonia arrossì un poco; Thomas si mise a ridere.
«Siete bellissimi», concluse, «una famiglia modello!» Picchiettando con una forchettina sul bicchiere, il direttore richiamò l’attenzione dei presenti e fece alzare i calici. Si brindò al nuovo diorama.
Sonia ne approfittò per avvicinarsi al vetro e fotografare l’opera con lo smartphone. Sara le stava appiccicata.
«Hai visto che belli?», pronunciò sottovoce all’orecchio della bambina.
La piccola non fece una piega, intimorita dagli animali.
«Sono così belli che sembrano finti», continuò Sonia.
Sentendo quelle parole, Sara si avvicinò al diorama, appoggiando la piccola mano sul vetro. Quando si rigirò verso la madre, aveva gli occhi pieni di lacrime.

******

Fuori dal museo, nella ghiaia consumata, un labrador rincorreva la palla che la padrona lanciava in direzione del tramonto. Il cielo era immobile. Il rosso sfumava nel blu della sera che di lì a poco avrebbe spento il giorno.
Qualcuno col naso all’insù sorrideva trasognato.

La scoperta dello scattering di Rayleigh valse al barone Strutt il premio Nobel per la fisica.

Immagine generata con DALL-E
“a low table with a glass of brandy and an ashtray with a cigarette markers dolls and toy car on the floor, oil painting”