Immagine generata con l'intelligenza artificiale che ritrae una sedia verde in un appartamento buio e una porta sulla destra, nello stile di Edward Hopper

L'invisibile

Omaggio a Maupassant

Cose banali possono far paura. Nella quotidianità si possono elencare vari fenomeni. Per citarne alcuni frequenti: ombre, rumori, malattie. Tutto ciò che non si sa dove abbia origine o perché accada. 

Molti sono spesso in preda dell’orrore per se stessi. Un orrore consigliabile e auspicabile, nei limiti di una sana auto-consapevolezza. Ma accade di rado nella giusta misura. L’eccesso in un senso (troppo poco) o nell’altro (troppo) è frequente.

L’insoddisfazione a sua volta è fonte di baratri vertiginosi: un’esistenza di per se stessa banale, già così, può infatti terrorizzare. Oppure no. 

A volte invece sono i dettagli che creano cortocircuiti verso l’orrore. 

Nadia era terrorizzata.

Per la prima volta.

In casa sua.

È vuota. È vuota. Non c’è nessuno. È senza dubbio vuota. Sono sola. Smettila di pensare, smettila di pensare idiozie. Smettila di pens- Eppure. Era certa che la sedia non fosse affatto…vuota. La fissava. Nel senso che Nadia (donna) fissava essa (sedia), o forse, vicendevolmente, in un ipotetico universo filoanimista, entrambe si fissavano. Era lì. La sedia. Alla vista, vuota. Appunto. Una seduta vintage (finto vintage, come la definiva con disprezzo sua sorella), plastica atteggiata a legno marmorizzato in verde, intelaiatura (scheletro, pensò Nadia, che dall’animismo stava passando all’antropomorfismo come derivazione naturale) in acciaio. Ma non era la sedia il problema. Semmai era sulla sedia. Non osava toccarla, non osava passarci nemmeno la mano. Riusciva solo a stare immobile, trattenendo appena appena il respiro. O meglio, inspirando ed espirando piano, pianissimo. Cercando di non manifestare nulla. Incredulità. Sorpresa… spavento? Quello, in realtà, dopo il brivido iniziale, nemmeno tanto ormai. Andava scemando lentamente, per lasciar posto a un’inquietudine sommessa e altalenante. Era certa ci fosse qualcosa. Anzi qualcuno. È lì. C’è qualcosa. Ma no, non fantasmi. Nulla che avesse a che fare con l’aldilà, la “palpabile inconsistenza” che percepiva nel vuoto della sedia, al lato del tavolo alla sua destra, riempiva quel vuoto con concretezza. Questa presenza, pensò, se così la si può definire, è di un “presente” non di un defunto. Qualcosa di vivo. 

 

Sto impazzendo? Sono esaurita? Così diranno… 

 

…35 anni, viveva sola, un lavoro precario sa, giornalista freelance, tanti amici sì, una buona famiglia alle spalle…chi l’avrebbe mai detto. TSO….sì…succede…eh…vedeva cose.

 

No, ecco. Questo no, pensava. E in effetti era così. 

Non era quello che vedeva il problema. Era quello che non vedeva.

O meglio. Quello che sentiva.

Ci sono presenze che si manifestano in tutta la loro violenta necessità di palesare nient’altro che il proprio esserci. Siano esse presenti fisicamente in un luogo, siano esse assenti, e costrette ad usare nel qual caso il sotterfugio del ricordo indotto per associazione alla loro persona (un oggetto dimenticato, una foto, un modo di dire che ti compare a fior di labbra, si possono fornire vari esempi, tutti efficaci e tutti feroci nell’evocazione…).

 

E poi ci sono presenze che si manifestano violentemente nella loro totale assenza, nel loro essere voluminosamente appostate a colmare un vuoto, ma non come nel caso appena descritto, perché legate a una pregressa presenza in loco ora venuta meno;  è il loro non esserci, forse, mai nemmeno stati, ad essere un ingombro non trascurabile. Sono ASSENZE. Ingombranti. Di qualcosa o qualcuno, che non ravvisiamo tra i nostri conoscenti, di cui potremmo non venire a conoscenza nemmeno in futuro. O forse assenze di qualcuno che abbiamo così profondamente dimenticato da non saper focalizzare per nulla. Nella mente, niente, anche sforzandosi, nessuna immagine, nessuna voce. Come fosse un episodio di qualche vecchio telefilm di fantascienza dal sapore ormai perduto, tipo Twilight Zone, dove il/la protagonista guarda una vecchia foto dei tempi di scuola, e lì, proprio lì, nell’angolo dove è sicuro/a dovrebbe esserci il/la tal compagno/a… c’è un spazio vuoto, e allora il/la protagonista si chiede: l’ho sognato? L’ho inventato? il/la compagna/o …..non è mai esistito/a? Sto impazzendo?…etc. 

Se si accoglie invece la possibilità dell’occultismo e della superstizione come spiegazione plausibile di certi fenomeni, queste presenze possono definirsi banalmente fantasmi.

Ma in questo caso generalmente si fa riferimento a una sorta di magnetismo, derivante da attività ectoplasmatica di defunti non rassegnatisi all’idea del trapasso. La letteratura ufficiale e non, fornisce a tal proposito vasti esempi documentati e d’invenzione.

L’appartamento è piccolo. Due stanze separate da un piccolo corridoio, su cui si affaccia la porta del bagno. La porta d’ingresso dà direttamente sulla stanza occupata da tavolo, cucina e credenza. Nell’altra un divano letto sempre aperto, un armadio e la parete verde acqua. In un angolo una cassettiera. Una finestra grande in ogni stanza. Ogni finestra si apre sul lato opposto della casa. La casa è un vecchio condominio di ringhiera. Siamo a Milano. In primavera. Ci sono fiori gialli ovunque. I cortili ne sono pieni.

Fuori, sul davanzale, brezza d’aprile.

Dentro l’appartamento l’orrore.

Il Mac era aperto. La riga interrotta a metà. L’articolo che stava scrivendo era un’accozzaglia di banalità accroccate alla meglio su un fatto di bullismo scolastico. Era in ritardo e il quotidiano online attendeva scalpitante la sua consegna entro una deadline prestabilita, che puntualmente non riusciva a rispettare..

Ma ora era impossibile. Nadia si sistema gli occhiali, calati lievemente sul naso per via del sudore. Sudore freddo ovviamente. Attraverso la montatura rossa e rotonda scruta la sedia. L’aria o l’area, non sapeva bene come definirla, sopra la sedia viene come smossa. Una specie di ‘vibrato’, di onda, come una vibrazione fisica di un suono, ma senza suono.

Nadia inizia a canticchiare per farsi compagnia. Si alza. Va alla finestra della cucina/studio, che si affaccia sul cortile interno della casa di ringhiera. Ora il cortile dovrebbe essere per metà al sole e per metà in ombra. È di fronte alla finestra. Passa qualcuno sul ballatoio, un’ombra fugace sulla luce, un’ombra fugace sulla sua faccia. Sente la chiave poco lontano, lì accanto. È  Claudia. La vicina. Fa la fotografa. Per Claudia sarà una giornata normale, serena forse, forse frenetica, come tante altre. Uscita. Giù per le scale. Rientrata. Su per le scale. Evitato come al solito l’aloe con le foglie appuntite. Ormai troppo cresciuto, attentatore alle gambe dei condomini, appostato strategicamente sull’angolo del ballatoio.

La sedia. La sedia. La sedia vuota, ma piena. Pulsa.

Chi sei?

Esclama. Sbotta. Di scatto. Uno sfogo.

Sentire una risposta sarebbe quasi bello. Un sollievo. Una voce dal nulla sarebbe comunque qualcosa.

È  rimasta vicino alla finestra. Ha girato solo la testa. La mano ancora appoggiata  sull’anta. Lo sguardo puntato. Rigido. Clinico. Lì. La sedia.

E succede qualcosa. Lo spazio sulla sedia si è… contratto. Non c’è altro modo di definire quella vibrazione appena percettibile all’occhio. Come un passaggio di corrente. Ora la sedia scricchiola. Sta scricchiolando. E’ una certezza. Cri…iii…iiii….iiii….c…

Nadia deglutisce. Ha visto tutto. Ha sentito tutto. E ha anche non visto tutto.

C’è qualcosa.

È certa.

C’è qualcuno.

Sì.

C’è qualcuno alla porta.

Suonano. Un trillo. Leggero. Più lungo sarebbe un parente. Più breve uno sconosciuto. Così è certamente un vicino.

«Sono Lucrezia.»

Nadia apre. Lucrezia è la madre di Claudia, la fotografa. Lucrezia è una bella donna sui 65 anni, bionda, giovanile, in forma. Abita sul ballatoio al piano di sotto. Vive da sempre nel palazzo.

«Ti ho portato il purè di fave. Te l’avevo promesso.»

«Grazie, che meraviglia.»

Nadia balbetta lievemente. Vorrebbe cercare conforto, dire tutto, condividere il terrore. Ma guardando gli occhi scuri di Lucrezia, capisce che no. Non può farle questo. Non può caricarla di quel peso. Nadia prende il barattolo che Lucrezia le porge. Nadia odia le fave.

«Stai bene?»

«Sì, perché?»

«Sei un po’ pallida.»

«Trovi? Ma no…»

E se  mentre sono qui alla porta lui/lei/esso si fosse spostato? Nascosto? Il tavolo è alle mie spalle. Mi basterebbe un attimo per controllare, per non vedere se il non visibile è ancora lì. Ma sembrerebbe strano, sto parlando, se mi giro così, di scatto, per sbirciare la sedia. Lucrezia rimarrà stranita, capirà che qualcosa non va, vorrà sapere, sapere, sapere e come farei allora a spiegarle…

Lucrezia parla. Lucrezia ha messo i doppi vetri alla finestra perché il lavaggio della strada la mattina fa un frastuono infernale come si fa a dormire ha fatto causa all’amministratore perché la nuova pompa dell’acqua fa troppo rumore le tubature sembra che parlino in aramaico è comunque meglio poi andare a controllare il ristorante qua sotto che ha chiuso perché si è accorta e anche la Luisa col cane l’ha notato che una delle porte sulla strada è aperta potrebbe entrare qualcuno magari accamparsi per fortuna il condominio ora ha un buon sistema d’allarme comunque il cane della Luisa sembrava aver fiutato qualcosa dalla porta socchiusa del ristorante…

«Vuoi un caffè?»

«Ma sì grazie, dai così finisco di raccontarti.»

Nadia aveva un piano. Un esperimento.

«Siediti pure lì.»

Le esce un’inflessione strana. Un tono stonato.

Lucrezia continua il monologo a fiume e non si siede, si appoggia all’angolo del tavolo con una mano e con l’altra gesticola che neanche una presentatrice di televendite  di materassi Eminflex.

E parla. E parla. E parla.

Nadia inizia a preparare il caffè. Con la coda dell’occhio non perde di vista la sedia.

Ti vuoi sedere? Ti vuoi sedere cazzo, devo sapere, devo vedere, devo capire. Cosa succede, se succede qualcosa. Parli. Parli. Parli. Gesticoli. Gesticoli. Gesticoli. E parli. E parli. E parli. E gesticoli. E gesticoli. E gesticoli. E mo vedi che te la taglio sta mano se non la smetti di gestic…

Lucrezia si siede. Senza soluzione di continuità tra l’eloquio, il gesticolare, l’accavallar le gambe, il posare gli occhiali da sole sul tavolo.

Nadia le dà le spalle, mentre mette il caffè nel filtro. L’avrà messa l’acqua? Chissenefrega, pensa. Nadia ha il cuore a mille.

Si è seduta. L’ha fatto. L’ha fatto. E non è successo niente. Cioè, qualcosa è successo. Ma cosa? La ‘cosa’ si è dissolta? Si è alzata? Si è arrabbiata? Si è materializzata o smaterializzata? No.

Si è profusa.

Esatto. Questa era l’espressione migliore che potesse raccontare ciò che Nadia aveva appena visto/non visto/percepito. La cosa si era contratta, lì, dove stava, come quando una soluzione oleosa si trova ad essere attraversata da una soluzione liquida. Come un composto gommoso, plasmabile, una profusione di sfocatura, una sbavatura appannata che rimaneva comunque prossima alla sedia, circonfusa alla figura rumorosamente petulante di Lucrezia.

Nadia avvita la caffettiera. Accende la piastra elettrica.

L’emissione sonora proveniente da Lucrezia è equiparabile ormai a un rumore bianco di un qualsiasi elettrodomestico. Quasi rassicurante. Quasi meditativo. Questo le permette per un attimo di esternarsi. Si gira verso la vicina, verso il NON visibile che la circonfonde, come certe muffe, pensa, e intanto mantiene un mezzo sorriso di circostanza, si gratta una pellicina dell’indice destro con il pollice corrispondente, annuisce appena. Si sistema un ciuffo.

Nadia non si sedeva quasi mai sulla sedia in questione. Il suo posto abituale era quello a fianco. Il tavolo quadrato poggiava per un lato alla parete opposta al piano cucina. La sua seduta deputata era quella fronte muro. La sedia dove Lucrezia blaterava come una tronista di Maria de Filippi era quella destra della sua solita.

L’ultima immagine che riusciva a ricordarsi di qualcuno seduto lì, riguardava Andrea. Andrea che fumava sigarette sottilissime, rollate con tabacco Golden Virginia verde e cartine corte. Mentre fumava si metteva sempre in bocca una liquirizia, che succhiava solo a metà. E poi, finita la sigaretta, la sputava. Nadia una volta aveva trovato un bicchiere pieno di caramelle succhiate a metà, sputate e incrostate insieme. Le caramelle di mesi. Un fossile, praticamente. Un vero schifo.

Andrea la chiamava affettuosamente Chicca. Doveva essere un vezzeggiativa di origine dialettale, probabilmente laziale, della provincia, in fondo era pur sempre di Civitavecchia. Intellettuale, colto, ma pur sempre un provinciale. Su sua stessa ammissione. Che cazzo c’entrava poi Chicca con Nadia? Ma questa era una domanda che le era sorta solo a posteriori, anni dopo, ovviamente.

All’inizio era una cosa che le faceva piacere. Chicca! Che fai Chicca? Non si era nemmeno troppo scomposta quando si era accorta che Andrea usava lo stesso appellativo per rivolgersi anche ai suoi due figli, eredità del precedente matrimonio: Chicco! Come stai Chicco?. E si allontanava camminando, in paterna conversazione telefonica, col cellulare appiccicato all’orecchio.

Figli che lei, in quanto nuova compagna, non era stata autorizzata a conoscere e frequentare ufficialmente. Nemmeno dopo 6 anni di relazione. Nemmeno dopo 8, via.

Sono piccoli, sai…

Evidentemente la crescita non era contemplata nella storia personale di questi bambini. Nadia aveva cercato di comprendere e di accettare, anche l’incomprensibile e l’inaccettabile. Perché sapeva amare. O così credeva.

A un certo punto era sorto in lei il sospetto che Andrea chiamasse Chicca anche l’ex moglie, quantomeno prima del fallimento matrimoniale. Anzi, ne era quasi convinta. Anzi, se proprio vogliamo, le sembrava di ricordare, e ne era praticamente certa, sì, che nei primissimi tempi della loro relazione, sbirciando proprio proprio di sfuggita una chiamata in arrivo sul cellulare di Andrea, il nome che era comparso fosse proprio Chicca’. O forse no. O forse aveva visto male. Lei si chiamava Fiona. L’ex moglie. Che cazzo c’entrava Fiona con Chicca? Comunque una Chicc’ aveva chiamato. E Nadia rammentava che a seguire Andrea aveva avuto una lunga conversazione con l’ex moglie (Fiona/Chicca). Quindi se il ricordo era reale, e così probabilmente era, non l’aveva salvata sulla rubrica del cellulare come Fiona, ma come Chicca. E se l’aveva salvata come Chicca, un tempo Chicca per lui era stata lei, cioè Fiona, come ora lo era Nadia. Che fastidio pensarlo! Che cazzo, almeno un soprannome di merda in esclusiva per lei avrebbe potuto fare lo sforzo di inventarselo! Ma no. Riciclo. In fondo era pigro. E così, ci doveva essere stato, in passato, un momento, un istante, di profonda tenerezza e complicità, anche tra di loro, sì, Andrea e Fiona, magari proprio quando lui aveva acquistato quel cellulare; e quella volta, inserendo il numero di lei in rubrica, l’aveva guardata attraverso gli occhiali con dolcezza, languore, trasporto, e così, quasi come un gesto naturale, aveva voluto omaggiarla digitando quel nomignolo, in segno di…

 «Oddio!»

…in segno di…

Oddio? Lucrezia ha detto Oddio? L’ha detto? Sì, l’ha detto. E si è messa in pausa. Cioè sta tacendo. Lucrezia tace? Allora deve essere successo qualcosa. Per forza. Lucrezia la fissa, con gli occhi sbarrati. Cosa succede?

«Stai sanguinando»

Sanguinando. Il riflesso compulsivo del pollice che grattava sull’indice ha provocato una piccola erosione cutanea superficiale. Proprio quelle pellicine fragili attorno al bordo dell’unghia, che probabilmente hanno un nome specifico. Pellicine attorno all’unghia del dito indice destro, nel caso di Nadia. Non poteva certo dirsi un’emorragia, ma in effetti una gocciolina di sangue doveva essere uscita, e una chiazza rosso marrone imbrattava ora la pelle delle sue dita in corrispondenza dello sfregamento.

Poteva sembrare una macchia di caffè.

«Sciacqualo sotto l’acqua.»

«Sì certo, subito.»

La caffettiera gorgoglia. Nadia si asciuga le mani con lo scottex. Spegne la piastra. Cercando di farsi uscire la voce più naturale del mondo, chiede a Lucrezia:

«Ci vuoi lo zucchero? Ce l’ho solo di canna…»

«Andrà benissimo! Ma che carine queste tazzine! Dove…?»

«Ikea».

«Ma dai? Pensa che una volta ho provato a rifare le loro brioscine alla cannella, sai quelle piccoline, burrose, quasi unte, che hanno un sapore così irresistibile, ma a modo mio, capisci, perché se usi la farina Manitoba vengono più lievitate, però devi stare attenta a dosare bene il burro, perché l’impasto non deve essere troppo molliccio, sennò poi come lo stendi, ma la cosa più incredibile è la cremina alla cannella, che chissà poi sti svedesi cosa ci mettono dentro…»

Nadia sorseggia il caffè. È venuto troppo forte. Forse non ha stretto abbastanza la caffettiera. Forse non l’ha fatta gorgogliare abbastanza. Suo nonno Franco glielo diceva sempre. Di aspettare un po’ prima di toglierla dal fornello. Farla suonare. Farla borbottare. Che viene meglio. Non schiacciare il caffè nel filtro. Riempire con l’acqua esattamente fino metà della valvola di sicurezza. Piccoli trucchi per il caffè perfetto. Caffè che lei prendeva amaro. Amaro come la vita, diceva sempre Andrea. Lui intanto ci schiaffava dentro due cucchiaini di zucchero bianco, guardando con sufficienza lei e la sua tazzina amara.

Ma questi ricordi improvvisamente riportati a livello cosciente con inferenze in effetti un po’ gratuite, erano solo pensieri di conforto, una piccola oasi mentale transitoria per distogliersi dal vero problema: l’invisibile orrore sulla sedia. Invisibile orrore attualmente incastrato tra Lucrezia e la sedia in una difficilmente descrivibile ricollocazione materica.

Se così si può dire.

E Lucrezia intanto beve, e parla, incredibile come non le vada di traverso neanche un goccio di caffè, che perfetta coordinazione tra laringe e trachea, tra respirazione e deglutizione, ed è ora di andare, che stasera ha promesso ai nipoti che farà la pizza, allora si alza, che poi queste tazzine sono proprio carine, che pure da Ikea si trovano davvero piccole chicche… (ha detto proprio così? Ha usato proprio questa parola? Chicche? Nadia deglutisce) … che poi in effetti stasera aveva anche tutto per fare lo spumone al caffè, ma per i bambini non va bene, no, che poi li agita e chi li fa più dormire, voleva comunque passare un attimo al baretto sottocasa che Fabrizio che è tanto carino di sicuro glielo regala qualche chicco (ancora? Chicco? Chicche? Chicca? Ma è uno scherzo? No, deve essere una casualità…una casualità, e che cazzo) … qualche chicco di caffè, così, dalla macchinetta del bar certo, perché se poi decide di farlo davvero, lo spumone, qua e là a decorare ci vuole qualche chicco, viene proprio carino così, basta non mangiarli che sono amari, anche se, Oddio, a qualcuno piace…

La porta si chiude. Nadia è un po’ frastornata. Non è nemmeno certa di aver detto qualcosa per salutarla. Forse ha solo annuito.

Nadia guarda la sedia. L’invisibile, con una leggera vibrazione, si è “non evidentemente” risistemato. La sedia pulsa di nuovo. Aria elettrica.

A Nadia ora risuonano nella testa tutti i “Chicchi” che erano usciti fuori dalla bocca della vicina. Una vera stranezza. Un attimo primo il ricordo di Andrea, e la sua Chicca, lei o la moglie, i Chicchi figli… un attimo dopo quella parola, quelle parole, fuori contesto, fuori area semantica, certo, ma lo stesso suono, in bocca a Lucrezia. Ma no, dai, cosa vuoi? Quale correlazione vuoi che ci sia? Niente. Sarà quella famosa sincronicità junghiana di cui tanto si parla. Ecco. Tutto lì.

Tutto lì. Lì. L’invisibile. Rumore di tubature in sottofondo. In effetti Lucrezia aveva ragione. Sembrava parlassero in qualche idioma esotico. L’invisibile si altera leggermente tra le particelle d’aria. La luce sta cambiando. Il cortile è quasi tutto in ombra. Andrea era venuto poche volte a trovarla a Milano. Era accaduto più spesso che Nadia facesse armi e bagagli e scendesse a Roma. Il suo primo anno a Milano. L’ultimo della loro relazione. A Roma convivevano in un monolocale minuscolo, in tutto simile ai molti attraverso cui si erano trascinati a suon di traslochi negli anni. La precarietà sospesa. Caratteristica di tutti gli aspetti del loro rapporto. Andrea spariva tutti i weekend per stare coi figli. Poi era sparito del tutto. Aveva iniziato a parlare di divorzio, proprio in quegli ultimi tempi, di sposarsi, magari fare un figlio loro, perché no? A lui piacevano tanto i bambini. Un modo si trova, anche adesso, tra Milano e Roma, vedrai. Certo. Il modo era stato lasciarla. Mettersi con una di Roma, Lara, amica di entrambi da anni, trasferirsi da quella (problema accollo affitto appartamento da solo: eliminato) e guarda, farci un figlio. Perfetto.

Ah. L’aveva lasciata per telefono. Perché stava già con Lara.

Frammenti di conversazione post finerelazionediottoanni:

«Sai, ecco, ho capito che il rapporto tra di noi era finito, Nadia…»

«Stavamo parlando di sposarci. Di fare un figlio.»

« Vabbè, ma quante volte abbiamo fatto questi discorsi tra di noi…»

«Una settimana prima che tu mi lasciassi per Lara. Una settimana.»

Nadia era rimasta molto colpita. Non era stato solo il dolore, la ferita, l’illusione dissolta, il velo di Maya caduto e lacerato, l’uscita dalla caverna platonica per scoprire il reale oggetto amato in tutta la sua umanissima aberrazione. Oddio, queste metafore un po’ da liceale le aveva in mente tutte, a caldo. E le sciorinava con le amiche. Quelle che Andrea aveva sempre definito sciampiste, col suo sdegno intellettual-cinico piccoloborghese. Insomma, le motivazioni di Andrea erano stonate. Stonate con lui, con il suo personaggio, che vantava intelligenza e senso critico superiore alla media. Stonate rispetto alla situazione. Sembravano battute scritte male. In una sceneggiatura scritta peggio. Con accadimenti deboli. Sembrava tutto poco credibile, con tempistiche imbarazzanti. Nadia aveva rimuginato senza pace per mesi. Fino a chiedersi: Forse le sceneggiature che si valuta siano scritte bene sono in realtà cattivi copioni, perché sono in effetti scritte male le reali vite delle persone, che dunque non sono rappresentate con la giusta veridicità improbabile che occorrerebbe? That is the question.

Nadia sapeva solo che aveva ricevuto praticamente una promessa di matrimonio. Una settimana dopo Andrea diceva di volersi prendere del tempo (dopo 8 anni???). E dieci giorni dopo, su insistenza di lei, confessava di avere un’altra. Per telefono, ricordiamolo, dettaglio non da poco. Lara. Che conosceva da più di 10 anni, ma che trovandosela a lavorare fianco a fianco in redazione l’aveva: …come vista per la prima volta, come non l’avevo mai vista prima…

Neanche in un fotoromanzo degli anni 60 i personaggi si esprimevano in maniera così stereotipata. Che avvilimento.

E oggi Nadia, nel suo monolocale, Milano, primavera, continuava a non vedere l’invisibile manifestarsi sulla sedia.

Nadia si porta l’indice destro davanti agli occhi. Brucia o pizzica. Quella sensazione fastidiosa delle ferite superficiali. Esce ancora un pochino di sangue. Allora Nadia ha un’idea. Assurda e improbabile. Ma non più della storia della sua relazione, in fondo. Non più di tante cose. Non più di tanti pensieri inconfessabili.

Basta grattare ancora un po’. Con il pollice. Se lo fai consapevolmente fa più male in effetti. Ed eccola lì. Una bella goccia di sangue. Ora è semplice. Un tentativo. Nadia protende l’indice destro verso la sedia, come a indicarla. La gocciolina di sangue è lì, accanto alla base dell’unghia, rossa e lucida, vibra appena, sembra una goccia di lipgloss alla ciliegia. Si avvicina lenta, piccoli passi. Poco più di un metro e mezzo tra lei e l’invisibile. L’estremità del suo dito ora è a trenta centimetri. La sedia scricchiola.

Alza leggermente il braccio. Ormai è Il dito è ora sospeso sopra alla massa dell’invisibile. Che sembra quieta in attesa, leggermente contratta. Nadia scuote leggermente l’indice.

Plic!

Cioè. Questo è il suono (in traduzione onomatopeica mutuata direttamente dal mondo dei fumetti)  che idealmente una goccia di qualunque materiale avrebbe dovuto fare cadendo da un’altezza minima di qualche centimetro (almeno 30-40) per poi schiantarsi su una superficie qualsiasi (ad esclusione di quelle assorbenti, nel qual caso sarebbe stato più appropriato ‘puf!’). Nella situazione in oggetto: goccia di sangue cade da circa mezzo metro su sedile di sedia in legno da cucina. Effetto sonoro previsto: plic!.

E invece no.

Ebbene, una cosa simile a quella appena accaduta Nadia l’aveva vista solo una volta, la volta in cui la sua vita ordinaria si era avvicinata in maniera più consistente al paranormale. Ossia quando la sua amica Ottavia l’aveva sottoposta al rituale per vedere se le avevano fatto il malocchio, l’occhiatura. Ottavia era un po’ strega, diceva. E in effetti ne aveva tutta l’apparenza. Romana doc, insegnante di canto. Capelli rossi, fulvi, ramati, anzi no: color whiskey, così amava definirli. Occhi come fari, color nocciola. Carnagione chiarissima, denti di un bianco abbacinante e quei canini così appuntiti. Leggeva le carte. E i fondi di caffè. Ottavia aveva preso una bacinella d’acqua, gliel’aveva messa davanti e aveva iniziato a sfregarle dell’olio sulla fronte.

«Intanto nella testa dico una formula segreta. Ce la tramandiamo tra noi donne di famiglia a mezzanotte della notte di Natale. Ogni anno la devo ripetere a mia sorella, se la scorda sempre… ora butto una goccia d’acqua nella bacinella. Se galleggia non hai niente. Se scompare, qualcuno ti ha fatto il malocchio»

«E se me l’hanno fatto?» aveva chiesto Nadia, preoccupata, soprattutto perché non capiva come Ottavia riuscisse a chiacchierare con lei e nello stesso tempo a pronunciare incantesimi nella testa.

«Te lo tolgo, con un’altra formula…»

E allora….’Plic!’.

La goccia era caduta nell’acqua della bacinella, l’acqua era stata mossa dalla prevedibile reazione fisica di cerchi concentrici, ma….nessuna macchiolina d’olio galleggiava solitaria sulla superficie. Scomparsa. Sparita. Svanita nel nulla. Nadia aveva sudato freddo. Ottavia era passata tranquillamente alla formula magica successiva per togliere l’occhiatura.

Nadia, era lì, nel suo monolocale, col dito ancora teso. Sì. Aveva appena assistito a una cosa simile. Ma più sconvolgente. Decisamente.  Nel caso di Ottavia, volendo trovare una spiegazione razionale alla stregoneria, si sarebbe potuto obiettare che si fosse trattato di una specie di illusione ottica: ossia la gocciolina oleosa avrebbe potuto avere dimensioni così minuscole, così infinitesimali, da non essere visibile sul filo dell’acqua. Ma comunque ci sarebbe stata, presente, lì, per osservatori appena più attenti e meno inclini a credere ai fenomeni occulti. Qui, Milano, primavera, interno sera, la situazione era diversa. Molto diversa. La gocciolina di sangue precipita dal dito scosso appena. Cade. E invece che plic! o puf!.. Nulla. Nadia deglutisce. L’invisibile ha una lieve scossa, come un brivido. Dov’è la goccia? Scomparsa. Sparita. Svanita nel nulla. Sulla sedia niente. Nessuna traccia. Attraverso gli occhiali in montatura rossa, Nadia scruta attentamente, dall’alto, il legno chiaro del sedile. Niente. Ritrae il dito. Respira forte. Qualcosa sta succedendo. È sempre lì, accanto alla  sedia. Vicina. Vicinissima stavolta. Alla “cosa”. Nadia avverte come un respiro. Non ne è certa, forse è il suo respiro, forse qualche riverbero di tubature.

Cosa succede? Cosa gli o le succede? Si è arrabbiato? Si è spaventato? Infastidito? offeso? Cosa gli ho fatto…forse…forse…Oddio… forse l’ho… nutrito?

Nadia fa tre passi indietro. L’invisibile rimane dov’è.

Nadia osserva. Non capisce se è più sorpresa o più disgustata di quella presenza/assenza che ora manifesta i primi timidi caratteri vampireschi.

È questo che sei dunque? Un’invisibile spugna? Di sangue, umori, che altro? Un vampiro. Eppure no. A Lucrezia non aveva fatto nulla. Almeno, così pareva. Anzi, in quel riposizionamento (compiuto malvolentieri? le veniva ora da pensare) della propria invisibilità a circonfondere l’ignara vicina, ecco, esattamente in quello, pareva aver manifestato un certo…disgusto. Certo! Lucrezia non era di suo gradimento. Ecco! Non era “buona”. Per lui. Cioè per lei, lei, sì, anche, volendo, in effetti chi le diceva che fosse una presenza maschile? Insomma, per esso. O essa. Maledetta lingua italiana. Tanto bene la padroneggiava, tanto male ora trovava i termini adeguati all’impossibile.

L’impossibile sulla sedia ora si contorceva. Sempre senza mostrarsi. Sempre nel suo non essere.

Hai fame? Credo che tu abbia fame…ho capito, sai? Ho capito che il mio sangue ti è piaciuto. Ma allora cosa vuoi che faccia? Che ti nutra così, giorno dopo giorno, con piccole gocce di sangue? Come la pianta della piccola bottega degli orrori? Il film…hai presente? Il musical…forse non ce l’hai presente. E in effetti come potresti… chissà come sei nato, chi ti ha creato, se ti sei generato da solo e da quanto invisibilmente giri per il mondo. Non posso farti morire di fame. Lo so. Stai morendo? Se non ti nutro io morirai, vero? È per questo che sei qui. Perché non vuoi morire. Sei debole, non riesci nemmeno a muoverti… Povero piccolo orrore. Sei il mio orrore. Il mio. Il mio orrore quotidiano. Il mio orrore casalingo. Sei qui solo per me. Però ecco… se ti nutro con piccole gocce di sangue, anche solo una al giorno, poi inizierai a riprenderti, a diventare sempre più forte, e ne vorrai sempre di più… potrei darti anche gocce di sudore, sputi di saliva, forse qualche capello lo gradiresti… ma come la pianta carnivora di cui ti dicevo, vorrai sempre di più, dovrò darti sempre qualcosa in più… e non ha senso, no. Quanto si potrebbe andare avanti? Solo per procrastinare qualcosa di più…no. Nessun compresso. Ho chiuso coi compromessi. O tutto o niente. Allora ti do tutto. Subito. Prenditi tutto. Tutto in una volta. Tutto in una sola overdose. Tutto ciò che vale la pena. Tutto ciò che ti serve. Non so bene cosa dico. Non so se ha senso parlare al vuoto. Parlare a una sedia vuota. A quello che penso ci sia o non sia. Penso che sono stanca. Che forse mi deve venire il ciclo e allora vedrai quanto sangue, tanto lo so che in fondo… schifo non ti fa niente, no, Lucrezia sì ti faceva schifo, ma solo perché era me che avevi già scelto, me che volevi. Chissà da quanto, forse da poco, forse da sempre, ma era me che volevi, e allora se davvero è così, se davvero è me che vuoi, è bello. Sì. Mi piace. Che qualcosa di così impossibile, inimmaginabile voglia proprio me. Me e nessun altro. Sai, Andrea all’inizio mi faceva sentire speciale, come se l’avessi salvato, da una vita che odiava, ma in realtà non ero speciale, ero solo di passaggio, di passaggio per la sua vita successiva. Ma per te non sarei di passaggio vero? No. Perché vuoi me, proprio me, col mio Dna e tutto. Lo so perché un po’ del mio Dna, del mio marchio, del mio essere è già in te. Da prima che ti dessi la mia gocciolina di sangue. L’ho capito dai Chicchi. Tu senti i miei pensieri, potrei anche non parlare a voce alta. Tu mi hai sentita pensare a Chicca, chicco….e hai passato qualcosa al flusso di pensieri di Lucrezia. Era un messaggio. Per me sola. Mi senti, tu. Mi vuoi. Lo so, lo vedo…ora sei lì, immobile, mi guardi, aspetti, mi scruti, trattieni il fiato, se così si può dire, hai fame….E allora ecco. Per me va bene. È bello, tutto questo. Mi piace. Mi piace molto.

E Nadia si siede.

Un pizzicore. Tra le scapole. Un sapore di liquirizia in bocca.

La stanza è sempre più buia.

Buio.

Il mattino dopo. Milano. Interno giorno. Luce da fuori. Nadia ha male alla schiena. Si è addormentata sul tavolo e ha sbavato sulla tovaglietta di plastica blu. Si alza lentamente. Si allontana di spalle, va verso la finestra, si gira verso la sedia.

«Andato».

Apre la finestra. Si appoggia con gli avambracci al davanzale, coi gomiti flessi, facendo penzolare giù le mani. Si sente leggera. Ancora un po’ intontita dal sonno forse. E poi qualcos’altro. Farfalle nello stomaco. Come quando sei innamorata. Senza sapere di chi. Caldo in mezzo alle gambe, caldo e umido. Eccolo. Il ciclo.

«Se ne è andato».

Non è triste. È elettrica. Si guarda la pelle delle braccia, delle mani. Stranamente luminosa. Sente gli occhi caldi. Una frazione di secondo. Una frazione. Un battito di ciglia. La mano scompare. E riappare. La sua mano. Qualcosa sta cambiando. Oggi chiamerà Simone. Tutto è molto chiaro. Ha voglia di rivederlo. Rideranno forte e forse faranno l’amore. Qualcosa sta cambiando. Guarda il palazzo che si vede di fronte. Quello nuovo, moderno. Proprio oltre il confine del cortile. Terzo piano. Una vetrata grande, lucida, che riflette la luce.  Una vetrata scorrevole. Una ragazza fa scorrere un pannello di questa grande finestra, rivela un interno, un open space, forse si intravede un tavolo di quelli alti, americani…la ragazza si affaccia alla balaustra. Un lungo balcone gira tutto attorno al palazzo moderno. Nadia pensa che la ragazza somiglia a Lara. Sorride. Solo che quella vetrata le dà fastidio oggi. È un’offesa alla vista. Nadia fissa la vetrata. Chissà come dev’essere vivere lì. Con tutta quella luce. Qualcosa sta cambiando.

Criii…iii….iii….c…..

Questo il suono, previsto nel linguaggio onomatopeico dei fumetti, che si sarebbe potuto sentire. Nadia non poteva sentirlo, era troppo lontana. Ma è riuscita a sentire quello successivo.

Crash!

La vetrata in pezzi, strepiti di spavento. Nessuno si è fatto male. Che caso. Che perfetta sincronicità Junghiana. Capita. Imperfezioni del vetro.

Nadia guarda di nuovo giù.  La sua pelle. Qualcosa sta cambiando. Si tira su una manica della maglietta. Un istante. Gli occhi caldi. Un istante. Invisibile.

Nadia sorride.

Arriva un sms sul cellulare. È Andrea.

«Mi manchi. Possiamo sentirci?»

Nadia prende il cellulare. Gli aveva detto di non farsi mai più sentire. Un tempo avrebbe scritto un lungo monologo di insulti. Ora decide di mandargli un vocale. Perché qualcosa sta cambiando. Registra.

«Vaffanculo».

Poi chiama Simone.

APPENDICE-PARALLELISMO

L’uomo è solo. Nell’appartamento. Ha quasi cinquant’anni. Insegna italiano alle medie da 30. L’appartamento è in una vecchia casa di ringhiera. L’ha avuto in eredità dal padre. Vive solo. Marta l’ha lasciato da due anni. Era infelice diceva. Si era trasferita in Francia in meno di un mese. Lui non ne aveva voluto sapere niente. Né con chi ci era andata, se era sola, perchè…niente. È una sera qualunque. Corregge i compiti. Commento al 5 maggio di Manzoni. Fa una pausa. Si accende una sigaretta. L’aveva rollata da 20 minuti, ma si era imposto il traguardo di tre compiti corretti, solo allora l’avrebbe fumata. Tabacco Old olbourne giallo. Molto secco. Si infila in bocca una liquirizia. Ma ne avrebbe succhiata solo metà. Poi l’avrebbe sputata nel posacenere. Chiude gli occhi. È seduto al tavolo di legno, che poggia per un lato al muro. Alla sue destra la parete. A sinistra il resto della stanza, il piano cucina con tutto l’essenziale. Deve togliere quella ragnatela. Di fronte, l’ingresso e una delle due finestre dell’appartamento. L’altra, nella stanza da letto alle sue spalle, si affaccia sulla strada. È seduto. Inspira, espira. Un’immagine nella testa. Chicchi di caffè. O forse sono liquirizie? Ci vorrebbe un caffè. Poggia la mano libera sulla fronte. L’altra, con la sigaretta accesa, sul bordo del tavolo. Inspira, espira. Un profumo. Femminile. Come mandorla dolce. Un ricordo? No. Gli sta entrando nelle narici ora. Prepotente. Intanto qualcuno grida da lontano, non riesce a capire bene da dove. Come in sordina, ne è certo, qualcuno grida: «Chi sei?».  Così gli sembra. Qualcosa sta cambiando, pensa. Ed è vero. Perché ora non può muoversi. Non riesce a muoversi. È davvero così? O è uno dei suoi attacchi di panico? Qualcosa gli cade in testa, lo avverte appena, qualcosa di piccolo. Fa scivolare la mano dalla fronte al centro della testa, tra i capelli radi. Lentissimo si porta la mano davanti al volto, socchiude gli occhi. Guarda. Una goccia di sangue. Posa la sigaretta, con grande fatica si passa l’altra mano sul capo. No. Non è ferito. No. È solo esausto. Inspiegabilmente esausto. Così, all’improvviso. Poi lo sente. Lo sente. Qualcosa sta cambiando, pensa di nuovo. Un calore strano. Come un tepore improvviso, come quando dopo aver preso tanto freddo ti avvicini a un termosifone rovente, solo che è come se quel caldo gli venisse da dentro, una cosa piacevole, profusa, ecco. Qualcosa che esce, si spande e poi affonda, che spinge e che si fonde. Sempre più presente, sempre più materica. L’uomo chiude gli occhi di nuovo. Ora riesce a sentirlo, su di sè, caldo, umido, è un corpo, un corpo di donna, morbido, liquido, gli si avvinghia sopra, addosso, intorno, come una nuvola, come un gas, ne è avviluppato, ovunque. L’uomo ha un’erezione. Non si muove. È immobile, quella ‘cosa’ lo invade in ogni anfratto, in ogni poro..  Lo trapassa. Lo conquista. «Chi sei?». Riesce a sussurrare. Ansima. Poi viene nei pantaloni. Rimane immobile per un po’. È tutto passato. Deve cambiarsi, farsi una doccia. Qualcosa sta cambiando, pensa. E domani scriverà un racconto. Si alza. La sedia scricchiola. Il pavimento è cosparso di chicchi di riso.

Immagine generata con DALL-E
a green plastic chair in a dark apartment with a door on the balcony, in the style of Edward Hopper