Perseidi

Lungo il torrente l’odore della resina si fa più intenso. Gli alberi allargano le spesse radici tra le rocce, infrangendo la regolarità del paesaggio. Pochi metri più in alto, il sentiero garantirebbe un cammino conosciuto, fidato, immutabile; ma è qui che il silenzio delle conifere inebria i sensi.

La donna chiude gli occhi e respira profondamente. L’uomo, rimasto indietro, scatta qualche fotografia. Attraverso i rami, un raggio di sole s’insinua fin dentro lo scorrere vigoroso dell’acqua. Sempre più flebile, la presa del bambino abbandona la mano del genitore. Abete bianco… larice… pino silvestre…, la donna prosegue il suo elenco, ma quella voce infantile che fino a poco prima le faceva eco è fuggita via. Una distrazione, non ricorda, un pensiero, forse: è un attimo. La corrente fluisce e, con essa, in eterno, un disperato silenzio.

Lucia riaprì gli occhi di colpo.

La voce robotica annunciava le fermate della metropolitana in un vagone pressoché vuoto; erano i primi giorni di agosto e i pendolari avevano abbandonato Milano per qualche settimana.

Riflessa nelle porte automatiche, si mordeva il labbro, nervosa. Fissava quel corpo nascosto sotto il leggero vestito a righe, alto e asciutto, con sguardo smarrito.

Si ritoccò il rossetto e, scesa dal treno, percorse la banchina deserta in direzione dell’ufficio.

Una docking station per il portatile aziendale, uno schermo nero e la tastiera qwerty. Un portapenne con due Bic rosse, una pila di post-it colorati ancora impacchettati e l’ultimo numero della rivista “InBusiness”, mai sfogliata.

Lucia, seduta sulla sedia ergonomica, scandagliava la scrivania.

Qualcosa la disturbava.

Valentina, dal lato opposto della piccola stanza, osservava la scena, stranita.

«Com’è andato il provino di tua sorella?»

«Non lo so, è domani…», rispose Lucia, continuando a fissare gli oggetti.

«Ah…», fece lei, «chissà che emozione. Quelli sono momenti che non ti dimentichi più… Anche a me sarebbe piaciuto ballare, ma col fisico che mi ritrovo…».

Valentina era grassa. Gironzolava incessantemente per i corridoi, mangiando rotelle alla liquirizia acquistate al distributore automatico.

Due colpi decisi alla porta interruppero la conversazione. Si affacciò un uomo brizzolato sulla quarantina. Ben vestito, aveva atteggiamenti da manager.

Domandò se le pratiche dell’ingegner Cairati fossero già pronte.

Lucia spostò il blocchetto di post-it dal lato opposto della scrivania e, dopo aver buttato un ultimo sguardo all’insieme, si alzò e prese un voluminoso fascicolo dall’armadio alle sue spalle.

«Eccolo», disse, porgendolo all’uomo.

Lui la ringraziò, facendo durare più del dovuto il banale scambio di documenti.

Gabriele era in azienda da poche settimane. Prima del suo arrivo, ci furono molte indiscrezioni, poiché veniva da una società legata alla concorrenza. Il direttore generale nell’ultimo meeting aveva speso per lui grandi parole: il suo arrivo sarebbe stato un valore aggiunto per la società. Lucia ci aveva scambiato soltanto qualche battuta durante le pause caffè, ma la sua empatia e la solarità che riusciva a emanare l’avevano da subito colpita.

«Ci sarete domani sera, vero?», domandò.

«Sì, certo…», rispose Valentina, voltandosi verso la collega.

Lucia la guardò un po’ spaesata, senza rispondere.

«Ci conto», concluse lui, sorridendo.

La società di consulenza aziendale per la quale Lucia lavorava avrebbe chiuso due settimane a causa delle ferie estive e dei colleghi avevano organizzato un aperitivo di saluto.

Tornata alla scrivania, si mise a rispondere alla mail di un cliente.

«Bel tipo Gabriele…», disse Valentina, infilando una mano nel pacchetto di caramelle che teneva poggiato sul tavolo.

Lucia sollevò le spalle, fingendosi poco interessata.

**

Superato il pesante portone di casa, Lucia cercò le chiavi nella borsetta.

«Abbassa il volume!», gridò, appena entrata.

Lara continuò a ballare come se niente fosse. Roteava i voluminosi ricci castani avanti e indietro, girando su se stessa in punta di piedi. Una creatura piena di vitalità, giovane e minuta.

Come si fermò, vide la sorella maggiore all’ingresso.

«Ah, sei arrivata…», disse, ansimando.

«Abbassa quel volume», ripeté Lucia, dirigendosi verso la sua camera.

Sbuffando, la ragazza andò verso lo stereo che trasmetteva un pezzo della colonna sonora del film Hair. Il giorno dopo avrebbe avuto il provino per entrare a far parte del corpo di ballo del famoso musical, in programma alla fine dell’anno al Teatro Ciak.

Sentendo parlare, Nadia si affacciò dalla cucina con uno strofinaccio in mano. Era una donna vicina ai settanta, molto magra e dai grandi occhi malinconici. Fissò per un momento le figlie, poi, silenziosa, tornò ai fornelli.

Lucia nella vasca da bagno passava la spugna sulla pelle candida. Le forme impalpabili del suo corpo non l’avevano mai messa a disagio. Nemmeno da ragazza. Solo ultimamente si piaceva meno. Forse, come aveva letto su un blog, si trovava nella fase del modello di Kubler Ross, in cui si prende coscienza della propria identità. La fase della depressione.

Si immerse con la testa sotto l’acqua. L’isolamento di quei pochi attimi sembrava restituirle un po’ della forza che l’aveva abbandonata.

Finito di lavarsi, attraversò il piccolo appartamento per prendere dallo stendibiancheria un paio di pantaloncini. Le fotografie poggiate sulla mensola del salotto stavano tutte in fila, come su un altarino. La nonna, il papà, la zia Lina… Nadia le stava spolverando a una a una, con attenzione, passando il panno umido sulle cornici che custodivano il ricordo della persona cara, quasi volesse carezzarla.

Lucia si accorse che, quando toccò a quella di Mattia, la mano prese a tremarle e cercò di rimetterla a posto il più in fretta possibile.

«La cena sarà quasi pronta», disse Nadia alle figlie.

Lara si tolse un auricolare dall’orecchio: «Cosa?»

«Tra poco si cena», ripeté la madre.

La ragazza annuì e, come se niente fosse, tornò ad ascoltare la musica, piroettando per la stanza.

Lucia rientrò in camera sua.

Dopo   essersi   asciugata   i   capelli,   sdraiata   semi nuda sul letto, tentò di scacciare dalla mente le immagini che la tormentavano. Le rocce, gli alberi… il fiume. Ripensava a Lorenzo e Mattia. A quei pochi anni vissuti insieme. Immagini di vita quotidiana che in quelle settimane non la lasciavano mai. E poi c’erano le parole che rimbombavano nella testa… tutte quelle giustificazioni verso Lorenzo, la sua incomprensione, la sua rabbia. La rassegnazione. L’abbandono. Si aiutava con una boccetta di Lexotan. Venti gocce, mattina e sera, proprio come aveva detto la dottoressa.

***

Lucia e Valentina raggiunsero il locale di Corso Lodi, dove era stato organizzato l’aperitivo aziendale, subito dopo il lavoro; uno spazioso caffè dall’arredamento etnico, con luci soffuse e musica lounge a volume moderato. Qualche collega stava sugli alti sgabelli al bancone. Le due ragazze si accomodarono a un tavolo poco isolato e diedero un’occhiata alla lista dei cocktail.

«Odio l’aria condizionata», disse Valentina, coprendosi le spalle con un piccolo foulard colorato.

Lucia sentì una mano sfiorarle il braccio. Era Gabriele.  I due non erano mai andati oltre quelle battute scambiate davanti alla macchinetta del caffè, e quel gesto confidenziale la colse impreparata.

Sedutosi al tavolo con loro, ordinò un mojito per sé e due moscow mule.

«Bella location, non trovi?»

Lucia alzò le spalle, poco interessata.

Valentina li fissava in silenzio; come incrociò lo sguardo di Gabriele, sentendosi d’impiccio, trovò una scusa per allontanarsi.

L’ultimo uomo con il quale aveva  fatto  sesso  era  stato Lorenzo. Quella fu la prima cosa che pensò Lucia, quando, iniziando a parlare di banalità, Gabriele si fece più vicino; anche se era trascorso oltre un anno dalla loro separazione, immaginare le mani di un uomo toccarla le toglieva il respiro. Negli ultimi mesi i diversi colleghi che si erano avvicinati a lei erano stati tutti respinti o ignorati. Ma Gabriele sembrava diverso. Il suo sorriso, i suoi modi gentili e disinvolti la rassicuravano.
«Programmi per l’estate?»

«Niente di che, forse qualche giorno dagli zii in Liguria…», rispose lei, raccogliendosi con un elastico i lunghi capelli corvini.

«Beh, è già qualcosa… Per me, quest’anno niente: ho troppo lavoro da preparare», disse Gabriele. «Ma questo?», domandò, indicando un tatuaggio che Lucia aveva dietro l’orecchio. Si trattava di una lettera M stilizzata, racchiusa in una piccola stella.

«È l’iniziale del nome di una persona cara», rispose lei, distogliendo lo sguardo.

«Scusami, non volevo essere indiscreto», rendendosi conto di aver fatto un commento fuori luogo.

Lucia alzò le spalle e prese un sorso di cocktail.

In ufficio, tutti sapevano della disgrazia che le era capitata. La perdita del figlio di appena tre anni in un incidente di montagna, portato via da un torrente. Il corpo del piccolo fu ritrovato solamente tre giorni dopo, a chilometri di distanza. Ne parlarono anche al telegiornale. La serata proseguì banale, e  Gabriele recuperò  la gaffe, spostando la conversazione sull’ufficio, riuscendo a strappare qualche risata, imitando le voci dei responsabili di area seduti a un tavolo in fondo al locale. Convinse Lucia a bere un altro bicchiere, standole perennemente appiccicato. Di tanto in tanto, lei controllava il cellulare, nell’attesa di un messaggio da parte della sorella riguardo l’esito del provino, ma non ricevette nulla.

Quando la serata stava ormai per concludersi, un collega del reparto sales si fece largo tra i tavoli e improvvisò dei giochi di prestigio.

«Allora, chi si offre volontario?», domandò, guardandosi intorno «Forza! Nessuno? Devo scegliere io?»

Gabriele diede un colpetto con il gomito a Lucia.

«Dai!»

«Non dirlo nemmeno per scherzo».

«E su… non fare la preziosa».

Lucia scosse il capo.

«Lei!», gridò allora Gabriele, indicandola.

«Benissimo!», esclamò il mago.

Dopo aver opposto un po’ di resistenza, Lucia fu tirata in mezzo alla sala. Valentina non credeva ai propri occhi.

«Posso?», domandò il mago, prendendole il foulard colorato che la riparava dall’aria condizionata.

Con calma lo strinse in una mano e con l’indice dell’altra lo infilò fino in fondo.

«Soffia», disse.

Lucia, imbarazzata, soffiò sulla mano.

«E il foulard scompare», pronunciò disinvolto, aprendo la mano vuota. «Ma basta un pizzico di polvere magica», proseguì, toccando la testa dell’assistente «ed eccolo che riappare», concluse, sfilando nuovamente il foulard dalla mano chiusa.

Dai tavoli si sollevarono applausi e risate.

Dopo una breve serie di numeri con un mazzo di carte e delle monete che sparivano e ricomparivano tra i capelli dei colleghi visibilmente ubriachi, si arrivò a quella che fu presentata come la magia della serata.

«Prego la mia assistente di prendere una delle bottiglie alle sue spalle», disse, indicando con il braccio in direzione di Lucia.

Poggiate su un carrello in metallo, c’erano delle bottiglie di champagne.

«La appoggi pure», continuò.

Lucia mise la bottiglia al centro del tavolo. Il mago la sistemò e riprese in mano il foulard. Si posizionò dietro al tavolino.

«Nella vita non bisogna solo guardare», disse,coprendo lo champagne con il foulard, «perché niente è come appare», proseguì, alzandolo davanti per far vedere un’ultima volta la bottiglia, «anche se può sembrarci bellissimo», finì, lasciando il foulard per un attimo e togliendolo poi con uno scatto veloce della mano.

Ora sul tavolo, al posto della bottiglia di champagne, ce n’era una di plastica schiacciata.

Gli applausi riempirono il locale. Anche qualche cameriere si era fermato a osservare la scena.

«Se ne fai sparire un altro paio, facciamo cinquanta e cinquanta!», gridò qualcuno del fondo.

Con un inchino il mago ringraziò il piccolo pubblico tra i cori dei più alticci.

Lucia, stretta in un leggero vestitino a fiori, tornò al suo posto. Gabriele le cinse delicatamente i fianchi mentre si sedeva, e lei lo lasciò fare.

Forse erano stati i cocktail, forse no. Forse vedeva qualcosa in lui.

Mezz’ora dopo, il locale era praticamente vuoto; qualche impiegato vagava barcollante alla ricerca di un compare col quale protrarre la serata.

«Siete in auto?», domandò Gabriele a Lucia e Valentina, che si erano ritrovate all’uscita.

«No, prendiamo un taxi», disse Valentina.

«State scherzando?»

Dopo un rifiuto iniziale, le due accettarono un passaggio e salirono in auto con Gabriele. La prima a rincasare fu Valentina che abitava praticamente dietro l’ufficio. Lucia  e Gabriele proseguirono verso Lambrate, ma, all’altezza di Viale Abruzzi, si ritrovano dietro a un’interminabile fila di auto.

«Milano…», disse Gabriele, scuotendo la testa. «Coda anche alle dieci di sera».

Lucia alzò le spalle. Lui le poggiò una mano sulla sua.

«Ma sai cosa facciamo?»

E, così dicendo, fece una brusca inversione di marcia.

«Conosco una strada più veloce… Tra l’altro in questi giorni ci sono le stelle cadenti: magari ne vediamo qualcuna», concluse, facendole l’occhiolino.

Lasciandosi le luci della città alle spalle, i due si addentrarono in vie sempre più isolate, finché Gabriele non accostò l’auto e spense il motore.

«Dove siamo?», domandò Lucia, preoccupata.

«Da qui non ci perderemo nemmeno una stella», rispose lui «ecco, ecco… ne ho vista una!», proseguì, indicando oltre il parabrezza con un dito.

«Ma smettila…»

«Davvero, e ho espresso un desiderio», continuò, voltandosi verso di lei. «Vediamo se si avvera, come la magia di poco fa».

La sua mano decisa si poggiò sulla coscia nuda di Lucia che ritrasse istintivamente la gamba.

«Ehi!»

Gabriele si avvicinò per baciarla. Il suo respiro sapeva di alcol.

«Gabriele… no! Stai correndo troppo!», lo schiacciò via lei.

Ma lui ormai le stava sopra e, stringendola, le baciava il collo.

«Ho detto di lasciarmi!», gridò Lucia, respingendolo.

«E non fare sempre la preziosa…», disse lui con prepotenza, bloccandola contro il sedile e infilando una mano sotto il vestito a fiori. Lucia sentiva le dita di lui ficcarsi sotto le mutandine; ansimante, lo allontanò con forza e, aprendo la portiera, cadde sul marciapiede.

«Lucia… ma che cazzo fai?», strillò Gabriele, cercando di afferrarla per un braccio.

Lucia si rialzò e, senza voltarsi, prese a camminare lungo il ciglio della strada.

«Lucia!»

Sceso  dall’auto,  Gabriele  la  chiamò  un  altro  paio   di volte, fece qualche passo verso di lei, ma poi tornò indietro e, risalito, prese la via del ritorno a gran velocità, scomparendo nel buio.

****

Arrivata a casa, Lucia si chiuse la porta alle spalle. Sul divano in soggiorno, Lara stava sdraiata con la testa sul grembo di Nadia, in lacrime. Singhiozzava. La madre fece segno di fare silenzio.

Dalla finestra del bagno si poteva vedere un cielo pieno di stelle. Abete bianco… larice… pino silvestre…, nervosamente si mise a elencare sottovoce dei nomi di alberi. Una stella cadente attraversò il cielo. Lucia richiuse di scatto la finestra e fece scorrere l’acqua della vasca, dove restò a mollo quasi tutta la notte.

Immagine generata con DALL-E
with a foulard a magician discovers a crushed plastic water bottle, in the style of de Chirico