Non (ti) uccidere

Oppio sono le parole che si sfogliano nel rumore delle pagine nuove. Scricchiolano le certezze. La carta. Il tempo. Persino le ossa si frantumano in un abbraccio che sa ricomporre tutte le tessere del puzzle. I miei sogni sono passati così tante volte dal via che persino il Monopoli ha finito i soldi del banco, e si sono trasformati in (bi)sogni. La luce di un incontro è sempre sbiadita da quei campi di papaveri e grano in cui ho seminato le mie possibilità, ed il terreno non era fertile. Le mie parole di luna sono latrati di lupo e urla senza voce soggiogate dalla mia insicurezza beffarda. Finchè morte non ci separi: più che una promessa sembra un appuntamento con il destino. Ed io arrivo sempre in ritardo. Io mi sono persa o forse ho solo perso l’amore tra le pieghe di ciò che sono stata. Avrei dovuto uccidere ma sporcarmi di sangue tossico avrebbe infettato la mia anima. Questa religione non mi disegna. Ha falle troppo marcate in un paradigma ideale che mal si adatta alla realtà delle cose. Promuove la tolleranza ma non ci sono margini di manovra. Professa il perdono ma non tollera gli errori commessi. Intreccia i sensi di colpa come una collana di perline di vetro, camuffati di diamanti. 

Non ho ucciso, ma potrei farlo ora, pensavo, anche se non sapevo trovare il complemento oggetto della mia scelleratezza. Io? Lui? O le scorie del mio passato? La mia razionalità è come una pioggia che fluisce e pulisce. E così fa il tempo quando sbiadisce le emozioni. Cruda è la verità di un cuore che non cuoce più, e non c’è più nulla da ricucire. Sono troppi anni che i miei occhi bruciano e la mia pelle è piena di cicatrici mentre i lividi li indosso dentro. Basterebbe un martello di cristallo per distruggere i castelli di carta e parole, oltre il ballatoio delle promesse non mantenute. Io sono la principessa di zucchero, la damigella di sogni, la bambina ancora sporca di arcobaleno. E vorrei solo essere. Mangio il rancio del mio presente e con estrema ratio io sono consapevole che sono briciole di una felicità che ho sepolto nell’orfanotrofio di tutte quelle sensazioni che da tempo ho disconosciuto. 

Io (mi) elimino. Non so dare forma a quelle parentesi eppure sono così ferme e piene di polvere e delusioni che non si smuovono di un solo passo. Se solo mi ricordassi come lasciarmi andare e lasciare andare. Con la faccia sporca da Joker vorrei eliminare tutto ciò che non merita di essere vissuto. Credevo di poter scegliere il mio primo pensiero della giornata e che quello potesse coincidere anche con l’ultimo ma la verità è che non è la mente che sceglie le emozioni che prova il cuore. L’amore basterebbe a se stesso se solo imparassi ad amarmi. Ed io confondo spesso i soggetti delle frasi. 

Non cambiare. Non ridurre ciò che sei perché le riduzioni funzionano solo nelle cucine elaborate e tu sei casereccia: sei da cuocere a fuoco lento.

La tua ragione lo sa che puoi concedere qualche difetto, che la perfezione non esiste e non ti appartiene, che potrebbe bastare qualcuno capace di capirti anche se non parla la tua stessa lingua e che sappia ricordarti chi sei quando ti senti persa, ma il tuo cuore si vuole perdere. Perduta(mente). Saper rammendare gli strappi e trovare la forza di ripartire è il lusso di chi nella risolutezza si accorge di non essersi fermato mai. 

Fermare. Un verbo che ha il sapore del ghiaccio.Il cuore che non batte più, il sangue che diventa freddo e la pelle che si sbianca. Questo pensiero deviato si insinua impertinente e mi lacera tutta. 

Finchè morte non ci separi non contempla la morte dell’entusiasmo: delle ammende e delle omissioni sono piene le fosse. Io non sono un’assassina: la mia religione lo è. Un semplice finchè amore sussiste avrebbe salvato centinaia di vite. Compresa la mia o la sua. 

Io sono la tentazione. Vorrei dipingere ogni giorno con acrilico e follia. Essere olio che scivola e fluisce, che scorre e nutre. Sono legna da ardere e corde di un salice che ha congelato un pianto dentro di sé, oltre la corteccia. La nudità andrebbe santificata. Parlo di trasparenza e maschere. Con un antico rituale di code e capelli io vorrei allungare i miei rami sottili, tendere fili per non spezzarmi, e vivere il vento e le tempeste senza dominarle. Forse al mercato potrei trovare un banco che vende cristalli di pazzia. 

I miei pensieri non conoscono giaciglio e ho passato le sbarre alla mia gabbia toracica.
La gabbia dei miei vorrei, pensavo, mentre stridevano come un clacson arrabbiato quei giudizi categorici che mi urlavano: La verità è che tu non sai cosa vuoi. Giudizi universali che non sanno nemmeno cantare una canzone. 

Vorrei trovare un soggetto alle mie poesie.

Vorrei (non) essere così. Vorrei incontrarti dietro ogni porta che mi nasconde. Vorrei un filo di voce per accordarmi con te. Vorrei che le tue mani fossero una collana di perle per il mio collo e sulle mie guance. Vorrei che tu germogliassi in me, su di me, con me. Disordinami i capelli, le intuizioni, le giustificazioni. Vorrei liberarmi, addormentarmi tra le tue braccia appoggiando il respiro sulla tua musica. Vorrei mangiare.  Il tempo.  La ragione.  La voglia. Vorrei dormire. Vorrei ramificarmi. Essere onda e spuma al contempo. Vorrei la tua barba sui miei occhi, nelle mie orecchie, tra le mie dita e sulla mia saliva. Vorrei ridere, tanto e di cuore, lasciare indietro tutto. Rubare il presente al passato e riavvolgerci altrove. Vorrei essere te in infusione. Vorrei essere la prima e l’ultima, e tutte quelle in mezzo a far da decoro. Vorrei che mi aspettassi negli occhi. E vivere senza pensare a vivere senza pensare a vivere senza pensare a vivere senza pensare. E poi vorrei un bacio. Soffice come la neve. Dal tramonto all’alba. di tutte le sfumature della luce e della notte. Lo vorrei con tutte le parole attorno. Con tutti i respiri dentro. Con tutti gli occhi gia rosicchiati. E poi vorrei tutti i tuoi vorrei. In fila indiana. A tenersi per mano. A tenersi per mano con i miei. 

Se solo io fossi capace di ascoltare questo silenzio mai vuoto davvero, forse sentirei il rumore del mio melograno spremuto in una voragine di respiri. Se solo sapessi riparare i miei guasti ed il mio temporale la solitudine non mi farebbe più male. Se solo fossi più roccia mi lascerei scalare e solo chi trova la forza di non fermarsi potrebbe diventare la casa da abitare. 

— 

Sono davanti a lui. Mi guarda con l’iride iniettato di paura ed io ho un coltello in mano. Non ricordo quando l’ho preso, so solo che ora posso specchiare la mia tristezza nella lama. 

«Non mi uccidere. Sei libera di andare se vuoi», ma l’oro mi corrode la pelle, e ho un solco nella carne accomodato dagli anni. 

«Non mi uccidere con le tue parole» ripetevo squarciando la mia voce in quella notte senza riposo.

«Si può morire d’amore?». Si può morire con amore. Per amore. Un gioco frammentato di preposizioni semplici mi disegna un ghigno sul volto, quasi sadico, e cerco di cancellarlo con le mani tremanti. Ho la pelle imperlata di sudore, il respiro seccato in gola quasi da un’ora e gli occhi sbarrati. 

Prendo il coltello con entrambe le mani e lo punto al mio ventre tremando. Cerco di mantenere la posa e la presa ma tremo. Tutta. 

«Non (ti) uccidere». Lui urla. Mi frena. Non capisce o forse ha già tutte le risposte alle domande che non si è fatto da sempre. Un rivolo di sangue inizia a camminare lento sul pavimento. Un rantolo. Una vita si spegne per una vita che rinasce. 

Vostro onore. Se io l’avessi denunciato lei l’avrebbe messo in carcere e quella promessa, finchè morte non ci separi sarebbe stata il mio ergastolo. 

Non sono io l’assassina ma la mia religione. Ho dovuto farlo per non uccidere i miei sogni. 

Immagine generata con DALL-E
a field of poppies and wheat, surrealist painting